Atto “politico” o atto “criminale”? L’indirizzo politico dopo Gaza

di Michele Carducci

Lo Stato di Israele ha commesso e sta perpetrando un genocidio a Gaza. Lo attesta il Rapporto della Commissione indipendente d’inchiesta dell’ONU sui territori palestinesi illegalmente occupati da Israele (cfr. Legal analysis of the conduct of Israel in Gaza pursuant to the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide).

Secondo il documento, a essere compiuti sono quattro dei cinque atti criminali, indicati dalla “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” del 1948 e precisamente:

– l’uccisione intenzionale di membri di un gruppo vulnerabile (e i palestinesi sono stati identificati dall’ONU come gruppo vulnerabile in ragione della propria condizione di apartheid, imposta da Israele, come accertato anche dalla Corte Internazionale di Giustizia sin dal 2004, case 131);

– le continuative lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo (a partire dallo sfollamento forzato indotto dai volantinaggi di Israele su Gaza, con cui si preannunciano bombardamenti e invasioni);

– la sottomissione intenzionale del gruppo vulnerabile a condizioni di vita, tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale (come dimostrano lo stato di carestia accertato dalla Integrated Food Security Phase Classification, il blocco navale, il divieto di ingresso di aiuti umanitari via terra ecc…);

– l’ostacolo alle nascite all’interno del gruppo (come conseguenza della deliberata distruzione, da parte dei militari israeliani, degli ospedali e soprattutto delle cliniche di assistenza ginecologica per le donne palestinesi).

Le quattro condotte criminali sarebbero tutte imputabili a responsabilità dirette sia delle autorità politiche che di quelle militari israeliane, suffragate altresì dalle dichiarazioni e dagli intenti distruttivi, resi pubblici dagli esponenti del Governo e dell’esercito di Tel Aviv, dunque corroborate dall’elemento soggettivo della c.d. “intenzione specifica” (dolus specialis dei suoi autori e promotori).

Si tratta di un atto di accusa gravissimo e inedito nella storia giuridica dei genocidi, ossia da quando, su iniziativa, tra l’altro, di giuristi anche ebrei come John H.E. Fried, nipote di Hans Kelsen, Hersch Lauterpacht, Louis Henkin e Raphael Lemkin (il padre del termine giuridico “genocidio”), si posero le basi di un nuovo diritto internazionale, ispirato al primato della persona umana e della pace tra i popoli; un atto di accusa, che segue al consolidarsi di un’opinio iuris sempre più vasta e autorevole nel denunciare le atroci violazioni israeliane a Gaza (dalla IAGS Resolution on the Situation in Gaza, a firma dell’associazione mondiale dei giuristi e storici dei genocidi, sino al parere del Prof. William Schabas, considerato uno dei maggiori conoscitori della giurisprudenza internazionale sul tema, tra l’altro anch’egli di origine ebrea, per arrivare all’italiana Prof. Flavia Lattanzi, Giudice dei Tribunali internazionali del Ruanda e dell’ex Jugoslavia).

Inoltre, è un atto di accusa inedito, perché, per la prima volta, a essere incriminato di genocidio è uno Stato democratico, per di più attualmente governato da soggetti sottoposti a mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità (da parte della Corte Penale internazionale) e con un Parlamento (la Knesset) deliberatamente contrario al rispetto del diritto internazionale nel promuovere e mantenere l’occupazione illegale della Cisgiordania (c.d. West Bank).

Secondo il Ministero degli esteri israeliano, il suddetto accertamento ONU sarebbe nullo per tre ragioni:

– perché i componenti della Commissione d’inchiesta opererebbero di fatto quali “delegati di Hamas”;

– perché le fonti di prova a carico di Israele sarebbero indirette, in quanto raccolte non personalmente sul territorio di Gaza, o comunque filtrate da fonti informative di Hamas;

– perché Israele opererebbe nella legittima difesa contro l’atto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, anch’esso a contenuto genocidario.

Per tali motivi, si chiede addirittura l’immediata abolizione della Commissione d’inchiesta che l’ha redatto (cfr. Israele bombarda Gaza City mentre l’inchiesta dell’ONU lo accusa di “genocidio”).

Le tre eccezioni sono state sollevate senza allegazione di fonti normative e probatorie, pur necessarie per dimostrare la loro plausibilità o veridicità. In più, esse vengono, come sempre, formulate senza accettazione del contraddittorio con i commissari ONU. Di conseguenza, esse, piuttosto che comunicare una credibile eccezione giuridica, sembrano ricalcare le strategie difensive e giustificative, tipiche della c.d. “logica probatoria del serial killer”, contraddistinta per l’appunto dall’elusione dell’onere della prova con tanto di ricusazione di chi indaga (cfr., in proposito, Nelson, Defending the Devil).

Del resto, se non si può accedere personalmente a Gaza, ai fini dell’accertamento dei fatti, è per volontà ostativa dell’esercito israeliano, non certo per negligenza di osservatori internazionali (e purtuttavia sia le prove satellitari dell’UNOSAT Gaza Strip Comprehensive Damage Assessment sia le testimoniane dei pochi operatori medici sul territorio non lasciano spazio a dubbi sulla distruzione in atto). La tesi dei “delegati di Hamas”, priva di riscontro, scade a mera fallacia ad personam ovvero a calunnia. Infine, l’evocazione del diritto alla difesa senza limiti di proporzione è priva di fondamento sia nel diritto internazionale che nel diritto statale delle “nazioni civili” (secondo l’enunciato dell’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), considerato che, nel diritto penale internazionale, l’esistenza dei crimini commessi da Hamas, anch’essi genocidari, non costituisce esimente per le imputazioni a carico di Israele, mentre, nel diritto penale delle “nazioni civili”, la difesa israeliana confesserebbe, come noto, il c.d. “eccesso colposo di difesa”.

In più, la debolezza di queste tesi fa da sponda a quella dei pochi giuristi e cultori di storia mediorientale, anche italiani, che collocano la smodata reazione di Israele a Gaza all’interno di categorie e concetti, abrogati dal diritto internazionale umanitario, a partire dal medievale “diritto di assedio” (in merito, si v. la ricostruzione di David Elber, La Convenzione di Ginevra e le mistificazioni in atto, contraria alle più elementari regole di composizione delle antinomie normative, applicate dal secondo dopoguerra in poi dalla giurisprudenza internazionale e non solo).

Sembra, quindi, difficile sottrarsi all’accertamento della Commissione ONU.

Esso diventerà giuridicamente efficace, una volta utilizzato nella sede processuale della Corte Internazionale di Giustizia, dove pende, come noto, il giudizio promosso dal Sudafrica a carico di Israele proprio per genocidio (case 192). Ad oggi, le misure provvisorie, emesse dal giudice dell’Aja per prevenire il crimine, sono state tutte disattese dallo Stato convenuto. Il che rende ancora più grave la posizione processuale di Israele.

Tuttavia, questo accertamento ONU è destinato a produrre effetti anche nella condotta degli altri Stati membri, a causa del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024, prima, e della risoluzione dell’Assemblea Generale del 19 settembre 2024, dopo. Con essi, al cospetto degli illeciti permanenti di Israele ora qualificati persino genocidari, tutti le parti delle Nazioni Unite sono state intimate a interrompere qualsiasi modalità di relazione, scambio e supporto verso gli autori israeliani (organi statali, persone fisiche, imprese) dei crimini: come avvenne per il Sudafrica dell’apartheid.

È sempre la Commissione d’inchiesta a ricordarlo, ribadendo che sugli Stati terzi gravano obblighi vincolanti di prevenzione, non ignorabili perché non ignorabile è il grave rischio di genocidio, denunciato sempre dalla Corte Internazionale di Giustizia a partire dal 26 gennaio 2024, da quando sono state ordinate le prime misure provvisorie disattese da Israele.

L’ingiunzione internazionale, però, sembra cadere nel nulla. L’Unione europea preannuncia sanzioni e dazi, ma nessuna azione di prevenzione del crimine. Il Governo italiano addirittura ammette di fornire assistenza militare a vantaggio dell’esercito genocidario (cfr. Il Governo Meloni in Aula ammette l’assistenza militare a Israele) e di mantenere l’esecuzione dei contratti di fornitura di armamenti, invece di revocarla come pur ammesso dall’art. 15 della l. n. 185/1990, in tema appunto di armamenti (cfr. The Legality of Arms Transfers to Israel after 7 October: The Relationship Between the International Legal Framework on Arms Trade and Law No. 185 of 1990).

«Attendiamo gli sviluppi della situazione», è il ricorrente costrutto giustificativo a sostegno di queste invertebrate prese di posizione; un costrutto classificabile, stando agli studi di psicologia del male, tra il  “disimpegno morale” e l’ “effetto Lucifero” (cfr. Bandura, Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, e Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?). Eppure, dopo la lettura del citato Rapporto della Commissione indipendente d’inchiesta dell’ONU, due domande diventano ineludibili:

– che cosa dovrebbe fare l’Italia di fronte al genocidio?

– di fronte al genocidio, decidere di fare o non fare qualcosa resta atto discrezionale e politico “libero nel fine”, dunque non sindacabile, oppure si tramuta in altro?

Il Rapporto risponde a entrambe. Basandosi sulle norme internazionali, l’Italia – al pari di qualsiasi altro Stato ONU – dovrebbe (non potrebbe), alternativamente o cumulativamente:

– promuovere, come parte interessata, casi davanti alla Corte Internazionale di Giustizia o comunque appoggiare le cause esistenti (a partire dal citato procedimento avviato dal Sudafrica);

– applicare misure diplomatiche come richiedere informazioni, intimare a Israele di permettere l’accesso a Gaza per osservatori e inchieste indipendenti, fare comunque pressione politica costante nel produrre documenti e fonti che rassicurino sul rispetto del diritto internazionale;

– interrompere gli scambi commerciali, a partire dalle forniture d’armamenti;

– collaborare con le istituzioni internazionali quali la Corte Penale Internazionale e tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite competenti, al fine di approfondire gli accertamenti, incentivare il contraddittorio tra le parti, sollecitare convergenze valoriali per la tutela della pace e della vita (nell’ottica della giustizia e verità condivise).

Non si tratta di doveri meramente morali e solidaristici: in presenza di un genocidio accertato, essi si tramutano in obblighi di interruzione del concorso causale al fatto genocidario. Lo chiarisce senza equivoci la Convenzione del 1948, ma lo fa proprio, per l’Italia, un sistema di norme, specificamente rivolto alla prevenzione del genocidio, caratterizzato da tre leggi, tutte ispirate all’art. 11 della Costituzione: la l. n. 153/1952 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione del 1948); la legge costituzionale n. 1/1967 (sul rapporto tra art. 26 Cost. e giustiziabilità delle condotte genocidarie); la n. 962/1967 (sulla repressione italiana dei delitti di genocidio). In base a queste disposizioni, sono previsti sia l’ergastolo che l’estradizione, in deroga dell’art. 26 della Costituzione, per «chiunque» compia o concorra a far compiere atti genocidari. Per siffatti crimini, vale la giurisdizione universale, ovvero la possibilità, a determinate condizioni, di essere processato in Italia anche se straniero e per fatti avvenuti all’estero.

La normativa italiana, insomma, è molto dettagliata e chiara. Non punisce solo chi compie materialmente l’atto genocidario, ma pure chi collabora con l’autore diretto dell’atto genocidario, affermando il criterio del controllo giurisdizionale universale di qualsiasi condotta materiale e da parte di «chiunque». Questo significa che il continuare a fornire mezzi, strumenti, armi, assistenza logistica o finanziaria ad agenti, organi ed enti di uno Stato genocidario profila elementi di concorso criminale.

In una parola, la normativa italiana universalizza, sul fronte specifico dei fenomeni genocidari e in nome della pace, il principio dell’art. 40, secondo comma, del Codice penale: «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Margine per dubbi interpretativi e applicativi non sembrerebbero esserci: l’obbligo giuridico (rectius, costituzionale e internazionale) della pace e del rifiuto del genocidio legittima la repressione persino della condotta materiale omissiva o inerte.

Ecco allora che, alla luce di questo quadro normativo, diventa possibile rispondere alla seconda domanda, ulteriormente integrandola:

– cooperare con Israele resta un atto politico “libero nel fine”, dunque non sindacabile, oppure diventa anch’esso un atto “criminale” pienamente giustiziabile, per il suo contenuto di concorso? I Giudici italiani, ad oggi, hanno classificato la condotta di cooperazione con Israele come “atto politico” o “manifestazione dell’indirizzo politico”. Lo hanno fatto certamente prima che si conoscesse il Rapporto della Commissione d’inchiesta, ma pur sempre dopo le ben chiare indicazioni di prevenzione della Corte Internazionale di Giustizia, risalenti come accennato al 2024. In merito, l’ordito più stupefacente del ragionamento giudiziale è stato offerto dal Tribunale civile di Roma, in un caso di domanda cautelare di interruzione dei rapporti commerciali di armi (N.RG. 13556/2024).

Ecco le tre “perle costituzionali”, in esso contenute: cooperare con Israele sarebbe un atto politico “libero nel fine”; il cooperare rientrerebbe nelle “materie” delle relazioni internazionali e non invece nell’art. 11 Cost., dove pur si richiama il divieto di offesa alla libertà degli altri popoli; di conseguenza, l’art. 11 Cost. non sarebbe fonte di obblighi giudizialmente sindacabili.

Com’è di tutta evidenza, si tratta di un ragionamento circolare, tautologico, da “disimpegno” costituzionale, prima ancora che morale. Ma è anche un ragionamento lacunoso, dato che nulla viene detto sul quadro normativo italiano, che universalizza la responsabilità omissiva per i crimini di genocidio in funzione dell’art. 11 della Costituzione.

La lacuna, quindi, è piuttosto eclatante. Essa, inoltre, appare contraria ai più recenti orientamenti della Corte di cassazione, nello specifico dopo il c.d. “caso Diciotti” (ordinanza Sez. Unite Civili, n. 5992/2025), dove si puntualizza quanto segue: «nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. E tra tali vincoli, rilievo primario ha certamente il rispetto e la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona. L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti della Costituzione».

Adesso che un Commissione d’inchiesta attesta la sussistenza di ben quattro condotte genocidarie di Israele a Gaza, davvero si potrà continuare a sostenere che l’azione cooperativa del Governo italiano è “libera nel fine”? Quale “fine”? Appoggiare il genocidio, invece di impedirlo?

Se ben tre leggi italiane impongono a «chiunque» (a «chiunque» … pure ai titolari di funzioni), l’obbligo giuridico di evitarlo, come si fa a sostenere che il Governo italiano ne sia esentato? Davvero la “libertà nel fine” degli atti politici, di fronte al genocidio, non si pone al di fuori della Costituzione? Davvero un atto “politico” di indifferenza al genocidio non diventa anch’esso un atto “criminale”?

Certo, si obietterà, l’atto “politico” è dell’organo, mentre quello “criminale” grava sul titolare dell’ufficio. Ma se davvero l’atto “politico” non può porsi «al di fuori dei limiti della Costituzione», il disvalore a base delle leggi italiane sul genocidio è comune alla Costituzione: non si può (concorrere a) offendere la libertà di altri popoli, come indica l’art. 11 Cost.; e poi, l’art. 28 Cost., in tema di responsabilità di Stato e suoi funzionari, scandisce un criterio di imputazione su tutti i fronti di azione (e di omissione).

In definitiva, gli interrogativi appaiono legittimi. Le risposte, data la sconvolgente realtà, prima o poi arriveranno, con buona pace dei Giudici – e non solo – che si sono voltati dall’altra parte, chiudendo in un cassetto la Costituzione italiana con le tre leggi anti-genocidarie.

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