Uomini stanchi. L’esigenza civile di una giusta legge sul fine vita

 di Claudio Stefano Tani

Chi decide della vita? Chi è il “proprietario” del corpo? A chi appartiene il corpo? alla persona? ai suoi famigliari? alla società? allo Stato? a Dio? Qualcuno dovrà pur dircelo!

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 132/2025, si è pronunciata ancora sulla prolungata attesa della morte. La Corte, sempre in attesa che i suoi “moniti” siano raccolti dal Parlamento, non è andata oltre quanto aveva sancito in tutte le precedenti decisioni (ord. n.207/2018, sentenze n.242/1019, n.135/2024, n.66/2025). Nel caso della sentenza n.132/25 ha contribuito alla stasi “il mancato approfondimento” da parte del giudice rimettente (punto 4.2 del considerato in diritto) che aveva sollevato la questione di legittimità dell’art. 579 c.p. nella parte in cui non prevede la non punibilità per il medico che somministra il farmaco letale al malato che non è in grado di autosomministrarselo.

L’inammissibilità della questione di costituzionalità ha preso avvio sul presupposto di fatto che l’azienda sanitaria non aveva compiuto indagini di mercato sufficienti, perché condotte solo sul mercato regionale, per reperire dispositivi idonei a consentire l’auto-somministrazione da parte del malato; il che, in base alla teoria del bilanciamento tra la volontà del malato di rifiutare trattamenti di sostegno e dovere dello Stato di tutela della vita, nonostante la manifestazione di volontà contraria del malato liberamente e validamente espressa, giustifica il rifiuto dell’azienda sanitaria di porre fine alla vita del malato che non è in grado di autosomministrarsi il farmaco letale.  

Di fatto si è trattato di un modo per aggirare una difficoltà e per menomare di effetto reale la volontà del malato che dovrebbe essere il presupposto dominante, e che era accertata come liberamente manifestata secondo tutte le garanzie sostanziali e procedurali. L’effetto reale è la condanna del malato a prolungare la contemplazione disperata della propria agonia, a causa di un elemento estraneo assunto dallo Stato come oppositivo alla sua volontà, della cui libera manifestazione nessuno nel caso di specie dubitava. Nella gerarchia di rilevanza degli elementi decisivi per la scelta, la volontà del malato è finita in secondo ordine. Gli ultimi sviluppi del dibattito in sede parlamentare e fuori dimostrano tutta l’arretratezza e l’ipocrisia della politica.

 L’altra idea di base della Corte, a prescindere dalla particolarità dei singoli casi, è quella che deve essere garantita una “cintura di protezione” intorno al malato e alla sua autodeterminazione (punto 7 del considerato in diritto della sentenza n.66/25). Resta non risolta la questione di chi deve formare e garantire questa protezione e dei limiti entro i quali chi ne fa parte può agire opponendosi alla volontà del malato. Un minimo di riflessioni storiche può, forse, aiutare a spiegarci.

Nella storia sono tre i termini che predominano, secondo il triangolo ippocratico (Epidemie, 1.2.5): la malattia, il malato e il medico. Il medico è il servitore dell’arte e il malato, con l’aiuto del medico, deve resistere alla malattia. È questa la tripartizione che ha determinato tutta la storia della medicina e continua a determinarla, nonostante tutti i progressi, i cambiamenti e gli avvenimenti da Ippocrate a Galeno e fino ad oggi.

Parlare della relazione tra il malato e la malattia e tra il medico e la malattia, oggi diremmo le malattie sempre più numerose che sono diagnosticabili, presuppone alcune domande: che cosa significa essere ammalato? chi è tra il medico e il malato colui che sa? chi è il depositario della conoscenza? la verità sta nel sapere del medico o nel sapere dell’ammalato?

Il medico sa come nasce, si sviluppa e finisce la malattia, descrive un processo astratto con le sue cause. Ma di fronte ha il malato con il suo vissuto e una sofferenza informe della quale non sa dire la causa e alla quale non sa dare un nome. Anche il medico è impotente senza il sapere dell’ammalato e il suo vissuto. L’anamnesi deve servire proprio a trasferire al medico questo sapere e la responsabilità che ne consegue.  

Il medico possiede la tecnica di organizzazione della guarigione, ma all’origine del sapere del medico vi è sempre il malato, il quale sentendosi dire dal medico quel che gli accade vi si riconosce o non vi si riconosce. Soltanto se condotta non come mero interrogatorio guidato per redigere un questionario, che il malato sottoscrive per liberare il medico da ogni ipotetica colpa, l’anamnesi servirà al medico per capire se la mente del malato è chiara o è offuscata, qual è la sua forza o la sua debolezza, quindi non solo per avere una nozione sempre più precisa e dettagliata della malattia e del punto del corpo colpito che le tecniche diagnostiche di oggi, che comunque esigono una capacità interpretativa, sono in grado di accertare con precisione un tempo non immaginabile.

Vale ancora l’insegnamento di un medico dell’epoca di Traiano (Rufo di Efeso Dialogo con il malato). Il dialogo tra il medico e l’ammalato, l’anamnesi, deve essere il risultato di una collaborazione che, facendo venire alla luce nella memoria dell’ammalato il suo vissuto, non solo patologico, diventa significante per il medico.

È un problema di filosofia della conoscenza medica, di integrazione della malattia nel processo culturale, un processo di reminiscenza, un atto di conoscenza; tutto il contrario della separazione tra medicina e filosofia, una nefasta separazione dalla filosofia di qualunque altra scienza che sembra caratterizzare invece la nostra epoca e che, a quanto appare, si è imposta anche al diritto.

Muovendo dalle considerazioni solo accennate, forse potremmo spiegarci la resistenza culturale e le conseguenze che ne derivano in diritto per quanto riguarda il nocciolo duro del problema affrontato dalla Corte costituzionale e che la politica continua ad eludere.

Il dolore e la malattia sono parte integrante della storia dell’umanità e dell’individuo. Per Eschilo il dolore svolge una funzione pedagogica, l’apprendimento attraverso il dolore: “il dio che ha posto i mortali sulla via della conoscenza, e ha stabilito che capire è soffrire” (Agamennone, 176). È il malato che sperimenta la sofferenza, è il malato l’origine della conoscenza e quindi è nel malato che deve essere trovato il criterio, la regola, il limite oltre il quale lo Stato non può avventurarsi e non deve pretendere di opporre la propria forza, a nessun effetto, alla volontà del malato, il quale è una totalità organica, un unicum che affronta la violenza di una malattia che, pur colpendo anche una parte sola del corpo, può indurlo  al ripensamento della sua vita e a figurarsi il proprio futuro.

Si ripropongono le domande iniziali nonostante tutto ancora irrisolte ed entra in campo l’etica, non soltanto dal punto di vista del medico. Chi decide della vita? A chi appartiene il corpo? Chi ha la sovranità sul corpo? la persona? i suoi famigliari? la società? lo Stato?  Dio? Qualcuno dovrà pur dircelo!

Io non so dire a chi dovrebbe essere affidato il compito di raccogliere e interpretare il “consenso”, ovviamente “informato”: termine burocratico, sia per il malato cui viene richiesto e sia per il medico che lo riceve, inadeguato a dare cognizione profonda dello stato esistenziale del malato e della gravità del conseguente “adempimento” da parte dell’apparato sanitario dello Stato nella figura del medico. È un problema di ordine medico? di un “comitato etico” nazionale o locale? di una commissione multidisciplinare “tecnica” istituita presso le strutture sanitarie territoriali, composti secondo i criteri partitici della spartizione accademica-scientifica-ideologico-politica? di un fiduciario? di un magistrato sentiti i vari “pareri”?

 L’evoluzione più recente della discussione su come dare seguito alle sentenze della Corte, mostra lo scandalo che in materia non ci sia ancora una legge, di indiscutibile competenza statale, che faccia prevalere la ragione e che ancora non si voglia uscire dai recinti di schieramento politico-partitico e di potere che tutte le persone adulte e ragionevoli, almeno una volta, dovrebbero superare. A ben vedere niente altro che disprezzo per l’uomo.

Proprio perché la morte non perda di significato nella contesa ideologica, religiosa, politica, ci deve pur esser qualcuno che faccia professione di serietà, dicendo una volta per tutte che non vi può essere alcuna separazione della persona dal suo “amor proprio”, che appartiene soltanto all’individuo ferito dal dolore della malattia. Provo a spiegarmi.

Il movente principale della vita è l’amor proprio nel significato filosofico più ampio, il patrimonio valoriale più profondo di ognuno di noi, che sarebbe degradato, tradito se riferito soltanto alla vita biologica. Se questo patrimonio scompare dal mio dominio perché sono reso impotente dalla sofferenza di una malattia senza scampo e non più oltre sopportabile, e la realtà mi restituisce un altro da me, mia e soltanto mia, e non può essermi sottratta, è la responsabilità dell’azione che, anche con l’aiuto del medico, comunque prestato, con la messa a disposizione dei mezzi per autosomministrarmi il farmaco letale o con il suo intervento diretto, pone fine a una vita di cui, in qualsiasi modo, non potrò mai più avere alcun controllo.   

Non stiamo parlando del movente esterno, dell’amico che uccide per pietà, dell’omicidio misericordioso, ma del movente interiore, intimo, profondo, non giudicabile di persone che non intendono subire condizionamenti esterni, istituzionali o religiosi, né essere circondati da ideologiche “cinture di protezione” nell’esercizio della propria libertà e chiedono aiuto soltanto perché non sono materialmente in grado di dare effetto reale alla propria volontà. “Due sono le cose di cui gli uomini si occupano e che essi prediligono: ciò che è proprio e ciò che è amato” (Aristotele, Politica, 2.4.1262b23 sgg.); due cose in una, ove si stabilisce un’equivalenza di fondo tra il “proprio” e ciò che è oggetto degli affetti. È il nucleo centrale dell’amore per il “proprio” che nella Politica costituisce il movente principale dell’azione e nell’Etica quello dell’amicizia, perché l’amico è un altro sé stesso (Aristotele, Etica nicomachea, 9.9.1170b1 sgg.)

 Se questo nucleo centrale viene sottratto alla mia signoria da una malattia, un fattore esterno sul quale non ho alcun controllo e che non mi lascia alcuna prospettiva, neppure ipotetica, di riacquistarne il dominio, a chi spetta dare seguito alla decisione libera e preservata da ogni pressione sociale, diretta o indiretta, o istituzionale di porre fine a tutto questo? L’amor proprio non è solo un complesso di sentimenti, è una visione più ampia che ingloba anche la personale idea di  dignità, ma che non si esaurisce in essa; è il senso, non giudicabile da altri, del proprio valore, di ciò che è inerente e appartenente soltanto a me, il nucleo centrale, il movente principale di ogni mia azione e decisione in ogni circostanza, dalla più felice alla più drammatica, che ciascuno di noi prova per sé e su di sé e non può essere oggetto di giudizio di nessun altro. Il concetto di dignità umana in questi tragici frangenti può avere per ognuno di noi terzi che giudichiamo da fuori interpretazioni diverse, che non potranno mai andare al cuore del mio e solo mio giudizio sulla vita che decido di abbandonare perché la malattia l’ha allontanata irreparabilmente dal mio controllo. È questa la libertà che chiedo anche al legislatore che non mi sia negata, affinché nessun medico, sacerdote o giudice possa agire contro la mia volontà

La nostra Costituzione non contiene una norma esplicita sul diritto alla vita. L’art.27, IV comma dice soltanto che “non è ammessa la pena di morte”. Il legislatore costituzionale ha preferito dedicare attenzione alle disposizioni relative alla personalità dell’individuo (art.2) e curarsi degli aspetti sociali, economici della vita, della salute e quindi della malattia e della cura, della difesa dell’ambiente dall’inquinamento, della tutela del posto di lavoro e della salute nei luoghi di lavoro (artt. 2, 3, 9, 32, 35). Soltanto nella seconda parte dell’art. 32, II comma è rinvenibile una visione di diritto alla vita più prossima al concetto di amor proprio quale limite inviolabile nei termini che finora ho tentato sommariamente di dire: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Le argomentazioni della Corte in tutte le pronunce si dipanano nei confini del proprio ruolo e non vanno alle più logiche, anche se estreme, conseguenze. Sullo sfondo vi è la questione del concetto di dignità umana che, come inteso dalla Corte, impedirebbe di tracciare un discrimine netto tra i casi nei quali è legittimo tutelare la vita a qualunque costo e quelli, sempre dolorosi in quanto espressione di un pur analogo o identico sentimento di pietà, o di carità nei quali è legittimo porvi fine. È il confine del ragionamento che la Corte fonda appunto sui “limiti imposti dal rispetto della persona umana” (art. 32); un concetto che oscilla tra il divieto tout court di violazione dei diritti di libertà tutelati dalla Costituzione (per esempio l’imposizione di trattamenti sanitari in contrasto con la religione del malato), l’aumento delle conoscenze dei diversi fenomeni patologici e le nuove tecniche di trattamento che potrebbero ottenere il consenso del malato.   

Il concetto di dignità esprime sempre una valutazione che è rimessa anche ad altri, il giudizio sulla condizione di chi con il suo comportamento è meritevole o meno di rispetto, oppure la dignità di una condizione sociale o individuale. Un comportamento, e tutto quanto consegue, può essere considerato dignitoso o disapprovato secondo un criterio morale individuale, riprovato socialmente o sanzionato e punito dallo Stato. Il concetto di dignità può essere parametrato a criteri sociali e giuridici che è possibile predefinire: la dignità sociale dell’art. 3 e dell’art. 36 della Costituzione, la retribuzione sufficiente a garantire a sé alla famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”, e tutte le norme che gravitano sull’art.1 e sul concetto di lavoro. Anche così posta l’argomentazione evita il centro spirituale della persona che non si esaurisce nel concetto di dignità, ma che è il suo amor proprio, che soltanto la persona che chiede di porre fine alle proprie sofferenze conosce e che non può essere delegato al giudizio di nessun altro.

I diritti di libertà riconosciuti dalla Costituzione comportano non soltanto che la legge non può limitarsi a vietare l’imposizione di trattamenti sanitari che il malato respinge, ma deve vietare anche di opporsi alla volontà del malato di non prolungare oltre l’agonia, che non è soltanto quella fisica, sino al momento in cui, avendo perso definitivamente ogni controllo su di sé, altri decideranno al suo posto; e la “cintura di protezione” organizzata dallo Stato non avrà più senso perché non ci sarà più una libertà di manifestazione di volontà individuale da proteggere da interferenze esterne.

La negazione del farmaco letale quando il malato non è in grado di autosomministrarselo esprime la contraddizione e il limite che la Corte non vuole superare. Davvero la Corte non può fare altro che “ammonire” il Parlamento a fare il suo dovere? Le cosiddette sentenze-monito provocano fastidiosi grattacapi alla politica, ma spesso tutto continua come prima nell’irriguardoso allontanamento del problema e nell’indifferenza.

Resta l’interrogativo: pur se in presenza di una motivazione non completamente esaustiva del giudice rimettente, ma sostenuta da un rigoroso accertamento della piena libertà della manifestazione di volontà del malato, i limiti che la Corte si è data non potevano essere superati, sancendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 579 c.p. nella parte in cui non prevede la non punibilità del medico che somministra il farmaco letale su richiesta validamente manifestata del malato che rifiuta i trattamenti di sostegno, ma che non è fisicamente in grado di autosomministrarselo?

Tutti sappiamo quanto la stanchezza della sopportazione del dolore e del dover affrontare una condizione senza alternative che mi restituiscano alla mia persona sia questione drammaticamente aperta nella mente del malato; è anche questa stanchezza del corpo e della mente che chiede riguardo. I greci antichi chiamavano i morti “uomini stanchi” che avevano deciso di separare l’anima dal corpo. Chiunque sia stato presente alla morte di un uomo ha visto proprio la stanchezza prevalere, il momento in cui il corpo e la mente non hanno più la forza di lottare insieme e chiedono di liberarsi uno dall’altra.

Le commissioni multidisciplinari “tecniche” presso le strutture del servizio sanitario servirebbero per stabilire se il grado di dipendenza dai trattamenti vitali consente o non consente di sospenderli e di far intervenire la morte, o se la soglia del dolore, che non è soltanto quello fisico, ma anche interiore, psicologico, mentale, non è più sopportabile.

Il rischio di abusi non è mai scongiurato proprio per ragioni che non attengono alla volontà del malato e all’idea che egli ha di sé, ma sono proprie di altri – sia esterni e sia parti della cosiddetta “cintura di protezione” – e dipendono dall’onestà e dalla libertà intellettuali di questi, dalle loro “prevenzioni” ideologiche, o a volte meno nobilmente dalle convenienze professionali. Sono proprio le pregiudiziali ideologiche, religiose o scientiste che esse siano, a confondere e a offendere l’autorità che il malato ha il diritto di conservare su sé stesso. La cintura di protezione” può anche diventare una gabbia, di cui altri hanno le chiavi, proprio quando chiedo aiuto. Ma perché in tale caso l’unica conclusione deve essere il prolungamento senza altra prospettiva dell’agonia fisica e spirituale del malato?

Siamo a un punto molto interessante. È una situazione comunque soltanto all’apparenza nuova.  Questo non stupisce lo storico e nemmeno il giurista. Le costanti sono due: una è sempre la religione, con i suoi tabù, le sue inibizioni, i suoi fantasmi che si ritrovano periodicamente dall’antichità, dalle epoche delle grandi epidemie, delle prime trasfusioni di sangue all’epoca dei trapianti, a quella dell’interruzione di gravidanza; l’altra è la responsabilità di ordine pratico ed etico del medico condizionata, va da sé, anche dalle possibilità che il progresso scientifico offre per prolungare la vita biologica e oltre un certo limite di prolungare soltanto una insopportabile vecchiaia.

È forse necessario, considerata l’evoluzione scientifica e la strumentazione tecnica impensabili sino a pochi decenni fa, ridefinire il campo della medicina, mettendo in discussione la sua specificità e i suoi limiti epistemologici e deontologici? Per fare questo è tuttavia indispensabile uscire dai luoghi comuni, che non sono idee generali, ma soltanto condizioni del discorso accettate in un dato momento storico, che tuttavia possono consolidarsi e resistere nel tempo. E ben sappiamo quanto i luoghi comuni possano sempre risorgere, con il loro pericoloso e a volte lugubre carico di ignoranza e di violenza.  

Siamo al centro di un altro problema fondamentale che, con la comprensione della verità della descrizione dell’ammalato, attiene alla capacità di giudizio del medico, la cui mancanza, come in ogni altro campo, non trova rimedio soltanto nelle regole apprese dalle esperienze e dalle conoscenze degli altri e tanto meno nella scuola. “Perciò un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche… e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (sebbene non manchi d’intelletto), ed egli può intendere sì l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso” (I. Kant, Critica alla ragion pura, a cura di G. Colli, Milano, 1976, 215). E un “comitato etico” è contemporaneamente medico e giudice chiamato ad assumere una decisione “politica” non astratta, ma tra le più difficili in concreto.

La malattia manda dei segni che il medico deve interpretare, localizzare, ma è il malato nella sua totalità che manda segni, che a volte provengono da più lontano e che sono all’origine della “stanchezza” che incide sulle sue decisioni, ben prima che il medico possa intervenire. La medicina è solo una parte di un discorso più generale sull’uomo, una parte che non può caricarsi da sola, e tanto meno in opposizione, del peso “filosofico” di ostacolare una conclusione della vita che soltanto al malato spetta scegliere. E nessun esponente di qualsiasi scienza, o ideologia, o religione può arrogarsi il diritto di caricare sulle spalle del malato le proprie astrazioni in opposizione alla volontà dell’uomo reale.  

Non sono plausibili scelte e decisioni “militanti”, ideologiche di nessun segno. Si tratta di assumere come proprie sia la dimensione individuale presentata dal malato, sia quella storico-sociale del problema per far emergere il senso più vero del principio di indisponibilità del bene della vita di un uomo da parte di terze persone o terze autorità, in quanto patrimonio del quale soltanto il singolo può disporre.

La Costituzione, e questo è il suo maggiore merito, ha evitato ogni condizionamento ideologico e nel riferirsi al bene della vita ha posto all’attenzione un grumo di questioni che non sono riferite solo alla prospettiva biologica, ma alla situazione generale in cui vive l’uomo e che costituisce un sistema complesso in cui ogni aspetto condiziona l’esistenza e l’idea che ognuno costruisce di sé.  

Ognuno tende a prendersi cura soprattutto di ciò che gli è più caro e che gli appartiene in modo individuale e privato. La vita considerata nel senso unitario dianzi accennato è un patrimonio “privato” di cui soltanto la persona può disporre. Tutto questo conferma che non si tratta di un concetto come la dignità che può essere parametrata e misurata anche su valori estrinseci e convenzionali presenti nella Costituzione; come ricordato per esempio la dignità della retribuzione (art.36), o in diritto penale con parametri di offensività sociale per commisurare una pena da infliggere, o in base a una morale soggettiva sulle abitudini di vita privata e sociale che terzi, o le istituzioni possono dare sui comportamenti individuali.

La condizione umana è talmente ricca e complessa che non può essere rinchiusa tutta in una ideologia, laica o religiosa. A volte i conti non tornano e un uomo può trovarsi più rapidamente di quanto abbia preventivato ad affrontare situazioni estreme che lui soltanto può risolvere e che altri non devono arrogarsi il potere di decidere per lui.

Non si è riflettuto sin qui di letteratura, del sacrificio, dell’impulso di morte di Ottilia, “l’ultima evasione dell’anima che fugge davanti alla dissoluzione”, che si dà la morte per salvarsi dal suo “interno sfacelo” come scrive Walter Benjamin, nell’insuperato saggio su Le affinità elettive di J. W. Goethe (W. Benjamin, Angelus novus, Saggi e Frammenti, Milano 2014, 216). Non abbiamo riflettuto sul suicidio come fuga da una dissoluzione esistenziale, che forse, a volte, è tuttavia la massima espressione del dominio su noi stessi.

Le modeste riflessioni sin qui esposte riguardano il fatto concreto di un essere umano che chiede di essere salvato da un interno sfacelo assai materiale, dalla propria impotenza contro un dolore fisico e spirituale non più sopportabile, senza via di scampo e sul quale nessuno può pretendere di esercitare la violenza di farlo proseguire, con manovre umilianti sempre più invasive, anche se associate a trattamenti di sostegno (sostegno a chi? a un altro da me?), alle cure palliative e alle terapie del dolore più avanzate. Il “rispetto della persona umana” da parte della legge, cui si riferisce la Costituzione, si esprime anche nel non negare questo aiuto e non costringere nessuno all’esposizione mediatica del corpo per tentare di affermare la propria volontà contro l’inerzia irrispettosa della politica, o contro la violenza dell’ideologia e della scienza.

In questi tempi si impone un’altra considerazione finale. Il diritto alla vita, nei termini sui quali queste riflessioni si sono soffermate, ha assunto un rilievo sempre più individuale ed esclusivo, per i paesi più ricchi e per chi può permetterselo, ma ha perso ogni dimensione collettiva e di massa; il che beninteso non lo degrada minimamente. Pensando a Gaza e alla Palestina, e a quello che ogni giorno si presenta al nostro sguardo ormai desensibilizzato, viene in mente Samuel Beckett alla fine di Aspettando Godot: (le donne) … partoriscono a cavallo di una tomba… ed è subito notte” (S. Beckett, Aspettando Godot, atto II). Ma non si vedono in giro associazioni pro vita, gruppi antiabortisti, governi, o leader mondiali tutti Dio Patria e Famiglia, agire per la difesa delle donne palestinesi che non hanno neppure una tomba sulla terra, che è la loro terra, per rendere il saluto ai propri figli. Quelle sono vite che non contano per politici, o per “opinionisti” che si autopromuovono esegeti del diritto internazionale e delle pronunce delle corti internazionali per dire se è lecito definire genocidio ciò che accade o quanti morti manchino ancora perché si possa definirlo tale. E dopo l’azione di guerra di via Rasella nel marzo 1944, era forse l’eccidio delle Fosse Ardeatine il criterio conforme al principio di proporzionalità? Anche tale criterio è già enormemente superato.

Nemmeno si vede, da parte degli stessi ambienti della politica attuale e dei governi la stessa assunzione di responsabilità politica e culturale per la dimensione collettiva dei morti quotidiani sul lavoro, vittime in quella zona grigia tra lavoro schiavistico e soggezione alle variabili morfologiche del capitale; oppure per i suicidi anche di minori nelle carceri; rimanenze senza diritti della società.  

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