Il prossimo 20 ottobre la Corte costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione presentato dal deputato Riccardo Magi contro il Governo per aver quest’ultimo sostanzialmente trasformato in decreto legge (ora convertito nella legge n. 80/2025) il disegno di legge c.d. sicurezza all’esame del Senato.
Più precisamente, con delibera dello scorso 4 aprile il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge intitolato Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittima dell’usura e di ordinamento penitenziario, emanato dal Presidente delle Repubblica il successivo 11 (n. 45) che, tranne qualche marginale differenza, riprendeva il contenuto del disegno di legge dall’identico titolo (tranne ovviamente l’aggettivo urgenti) presentato alla Camera il 22 gennaio 2024, da questa approvato il 18 settembre dello stesso anno e all’esame dal Senato dal 1° ottobre. Ciò, nonostante appena 3 giorni prima la Conferenza dei capigruppo del Senato, nella seduta del 1° aprile 2025, avesse deciso di inserire il disegno di legge nel calendario dell’Aula a partire dal 15 aprile 2025.
Un’accelerazione, dunque, improvvisa, immotivata (nel preambolo non è data alcuna spiegazione circa le ragioni che hanno condotto a ritenere urgenti disposizioni che fino ad allora non lo erano) e tutto sommato ingiustificata sotto il profilo strettamente procedurale, anche in considerazione dell’assenza di ostruzionismi da parte delle opposizioni.
A fronte di ciò, il deputato Magi, come detto, ha presentato conflitto di attribuzioni lamentando la violazione delle sue prerogative parlamentari a seguito della decisione del Governo di trasformare in decreto legge il disegno di legge all’esame del Senato, privandolo della possibilità di riesaminarne le disposizioni, visto che, a seguito delle modifiche introdotte, esso sarebbe dovuto certamente ritornare alla Camera dei deputati d’appartenenza; disposizioni, peraltro, vertenti anche in natura penale, che per loro natura necessitano di un esame approfondito incidendo sulla libertà personale di ciascuno.
Il ricorso, dunque, verte sull’abuso della decretazione d’urgenza che da tempo relega il Parlamento ai margini dell’attività legislativa. Fenomeno ampiamente noto e ormai strutturale, essendo riscontrabile in tutti i Governi, di qualunque colore politico. Su di esso, quindi, non vale la pena in questa sede diffondersi oltre, se non per segnalare, numeri alla mano, come esso sia esploso nell’attuale legislatura, nonostante l’esecutivo stia battendo tutti i record di durata grazie ad una solida maggioranza parlamentare.
Allo scorso 13 settembre (i dati sono per lo più tratti dal sempre puntuale Dossier sulla produzione legislativa curato dal Servizio di Documentazione parlamentare della Camera dei deputati) il 38,4% delle leggi approvate sono state leggi di conversione dei decreti legge, costituendo il 61,5% di tutte le parole presenti nelle leggi. Il Governo Meloni ha approvato 84 decreti legge, con una media di circa 3 decreti al mese, analoga a quella dei governi Conte II e Draghi. Per la conversione oramai è prassi che il Governo ponga la questione di fiducia (91 in totale, anche qui con una media di circa 3 al mese) sul maxiemendamento che recepisce il testo approvato in Commissione e che non viene modificato né di solito dall’Aula prima, né assolutamente dall’altra Camera dopo. Di fatto, ormai, siamo passati ad un sistema monocamerale in cui la seconda Camera ratifica il testo legislativo approvato dalla prima (e sarà così anche per la prossima legge di bilancio…). Anche lo stesso limite dell’ingolfamento dei lavori parlamentari causa troppi decreti legge da convertire è stato superato perché oggi con un’unica legge di conversione di un decreto legge se ne convertono altri successivi (c.d. decreti matrioska), con ulteriore riduzione dei tempi di esame.
Insomma, quello che secondo la nostra Costituzione dovrebbe essere una fonte legislativa cui il Governo dovrebbe ricorrere solo in “casi straordinari di necessità ed urgenza”, in realtà da tempo è utilizzata come una sorta di normale iniziativa legislativa rafforzata, così da poter far entrare immediatamente in vigore e convertire in legge entro 60 giorni i disegni di legge prioritari che danno attuazione al suo programma politico.
La trasformazione in decreto legge di un disegno di legge da diciotto mesi all’esame delle Camere e in dirittura d’arrivo al Senato costituisce dunque l’ennesimo “cattivo precedente”: un ulteriore gradino sceso in quell’ideale scala verso la completa esautorazione del Parlamento nel processo di produzione legislativa.
Tutto ciò premesso, non si può però ignorare che, come è noto, quella del ricorso per conflitto di attribuzioni del singolo parlamentare è una strada impervia. Dopo gli iniziali facili e talora enfatici entusiasmi suscitati dalla (astratta) apertura a tale genere di conflitto da parte della Corte costituzionale nella famosa ordinanza n. 17/2019 (con cui essa ha respinto il ricorso del gruppo del Partito democratico per le modalità procedurali con cui nel dicembre 2018 fu approvata la legge di bilancio), le successive decisioni negative hanno rilevato che quella fu semplicemente una “vittoria di Pirro”.
Dopo di allora, infatti, la Corte costituzionale ha sempre dichiarato inammissibili i conflitti di attribuzioni sollevati dal singolo parlamentare: ora negando, sotto il profilo soggettivo, la sua posizione distinta ed autonoma rispetto a quella della Camera d’appartenenza; ora non riscontrando, sotto il profilo oggettivo, il carattere manifesto ed evidente della violazione delle sue prerogative costituzionali, riferendole piuttosto a quelle previste dai regolamenti parlamentari, e dunque di natura endoprocedimentale che sarebbe stato compito piuttosto delle stesse Camere risolvere. Argomento quest’ultimo, che mi è sempre sembrato frutto di un certo corto-circuito logico, conseguenza di una prospettiva distorta delle dinamiche parlamentari, quasi che a porre rimedio alle violazioni lamentate dovesse essere quella stessa maggioranza prevaricatrice che ne era artefice.
Sulla base di queste premesse, è bene non nutrire eccessive speranze sull’accoglimento del ricorso, tenendo innanzi tutto in debita considerazione quella giurisprudenza costituzionale in base alla quale il singolo parlamentare non può sollevare conflitto di attribuzioni per lamentare la violazione del procedimento legislativo svoltosi presso l’altro ramo del Parlamento (ma davvero nessun deputato ha voluto/potuto firmare tale ricorso?), poiché tali lesioni sono di per sé inidonee ad incidere sulle loro attribuzioni e prerogative (ordinanze 277/2017 e 181/2018). Né, sempre secondo la Corte, il parlamentare è titolare di attribuzioni individuali costituzionalmente protette nei confronti del Governo (ordinanze nn. 277/2017, 163/2018, 181/2018).
Eppure, tutto ciò premesso, non si può sottovalutare la novità del caso, consistente essenzialmente nel carattere extra-procedimentale della menomazione inferta dal Governo alle prerogative parlamentari, per di più rafforzata dalla mancanza – si direbbe quasi in re ipsa, per come la vicenda si è svolta – dei presupposti costituzionali di necessità ed urgenza, dei quali, come detto, si dà solo apodittica motivazione nel preambolo del decreto.
Senza voler indulgere a facili ottimismi, la speranza è che la Corte costituzionale – che chi scrive ritiene in certa misura corresponsabile dello stato di marginalità cui il Parlamento versa a causa di una giurisprudenza tanto restrittiva sui requisiti sul c.d. giusto procedimento legislativo (art. 72 Cost.) quanto largheggiante sulla omogeneità, financo funzionale e finalistica, dei decreti legge – possa quantomeno profittare dell’occasione per lanciare un segnale in controtendenza.
Quasi trent’anni fa la Corte seppe dire no all’abuso allora costituito dalla reiterazione dei decreti legge. Forse è giunta l’ora di opporre finalmente un altro divieto allo strapotere del Governo, affinché, dopo tanti inutili tuoni, finalmente piova.
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