Separazione della carriere: in rispettoso dissenso dal Presidente Barbera

di Antonio D’Andrea

Nella riforma Vassalli del 1987, richiamata dal Presidente Augusto Barbera in un suo recente e stimolante articolo pubblicato il 4 novembre su Il Foglio, non esiste alcun vincolo, né logico né giuridico, che imponga la separazione delle carriere. Semmai, come egli stesso afferma, è la separazione delle funzioni, che però già esiste, a concorrere ad un processo che è, e resta, a tendenza accusatoria, conservando alcune garanzie di un modello evidentemente “misto”, in cui il PM e il giudice condividono la medesima cultura, si potrebbe dire costituzionale, della giurisdizione nonché lo stesso statuto d’indipendenza, che almeno con riguardo al PM, è “mitigato” dall’art. 107, u.c., Cost., pur nella gestione unitaria delle carriere richiamata per entrambi dall’art. 105 Cost.

Neppure l’art. 111 Cost., che nella sua pomposa riformulazione avrebbe (ri)stabilito il c.d. “giusto processo”, richiede due carriere separate, ma un giudice terzo ed imparziale in un processo che sappia garantire, specie quando è formalizzata l’accusa in ambito penale, parità di condizioni e di mezzi alle parti poste in contraddittorio tra di loro. Se questi sono i presupposti giuridici, la separazione delle carriere non incide sulla separazione delle funzioni, rischiando soltanto di indebolire la funzione giudicante e di rafforzare quella requirente, naturalmente più esposta ad un sentiment politico.

Quanto al tema della c.d. porte girevoli, la riforma Cartabia è già intervenuta sul punto – e non è servita una modifica costituzionale – consentendo soltanto un cambio di funzione nei primi dieci anni di servizio tra giudici e PM. Dati alla mano, solo pochissimi magistrati ne hanno usufruito, a dimostrazione che si tratta di un falso problema. Le “porte girevoli” restano un fantasma agitato da certa propaganda politica, essendo la distinzione già garantita. Può essere ulteriormente perfezionata, ma senza che sia necessario percorrere la strada della revisione costituzionale. Bastano e avanzano le norme sull’ordinamento giudiziario, che non hanno rango costituzionale.

Barbera richiama puntualmente i lavori dell’Assemblea Costituente, che respinse nettamente ogni ipotesi di subordinazione del PM al Governo, scegliendo, come classico esempio di compromesso tra comunisti e democristiani, l’unitarietà della giurisdizione, e richiama l’art. 104 Cost., invocando il rispetto per la storia. Quante volte si sono innalzati cori contro le “toghe rosse” e la “giustizia politicizzata”? Lo stesso Barbera ricorda opportunamente che “prima Craxi e poi Berlusconi prendendo in mano questa bandiera […] favorirono ulteriori passi indietro delle forze politiche” a conferma che la spinta alla separazione delle carriere nacque per mere contingenze politiche, non certo per perseguire una maggiore efficienza della giustizia. È storia nota quel che si provò a fare, non certo per favorire lo smaltimento dei processi penali, ma per arrestarne il corso, ricorrendo a uno strumentario vario (anche di segno costituzionale) oltre che ai meccanismi di prescrizione.

La storia andrebbe sempre osservata nella sua dinamica ordinamentale, tanto più quanto questa incrocia profili di tenuta costituzionale. Si potrà allora ricordare l’insofferenza manifestata dal Governo Meloni attraverso suoi esponenti di punta che hanno prima attaccato la Corte costituzionale (quando lo stesso Barbera ne era autorevole Presidente), ritenendola responsabile di aver smantellato per preoccupazioni di ordine politico l’impianto della legge Calderoli sull’autonomia differenziata, poi la Corte di Cassazione, allorché è stata segnata una battuta d’arresto al piano migranti in Albania innanzitutto per opera della Corte di Lussemburgo e, da ultimo, persino la Corte dei conti, che ha rifiutato il visto di legittimità al progetto del ponte sullo Stretto. Le toghe rosse sono state scorte, e non solo dal Ministro Nordio, anche presso la Corte penale internazionale, in relazione al noto caso Al-Masri. In sostanza, ogni volta che la giurisdizione, anche sovranazionale, ha esercitato la propria funzione di controllo, questo Governo ha reagito scompostamente. Credo che su questo convenga lo stesso Barbera.

Veniamo a qualche punto della riforma costituzionale appena approvata che può essere richiamato quale cattivo esempio di correzione della rotta costituzionale.

C’è chi difende il sorteggio come rimedio alle degenerazioni correntizie, ma il sorteggio “cieco” non eliminerà le correnti, posto che nessuno è in grado di garantire il rischio postumo di interferenza correntizia, come pure l’apertura di scenari del tutto imprevedibili rispetto alla scelta dei sorteggiabili (che spetterà definire al legislatore, in un secondo momento: ma quando? E in attesa, si prorogherebbe il CSM unico?). Inoltre la riforma moltiplica organi e burocrazia: non solo crea due CSM, ma istituisce un’Alta Corte per decidere dei procedimenti disciplinari e persino del loro eventuale appello, sia pure con diversa composizione. Un grado di appello (così almeno viene definito), che però coinvolgerà, con una rotazione interna, giudici disciplinari facenti parte dello stesso organo cui sarebbero assoggettati insieme le due distinte categorie di magistrati. Non si tratta di una soluzione barocca che torna ad unificare le due figure che si afferma sarebbero portatori di ruoli professionali da separare sebbene non già quando se ne dovrà valutare l’illecito disciplinare? Quel che è indiscutibile è che si crea ex novo una giurisdizione speciale in aperto contrasto con quanto previsto dall’art.102, c. 2, Cost. Lasciamo sullo sfondo l’individuazione della componente togata dell’Alta Corte (9 su 15) che non farà parte dei due CSM, per evitare qualsiasi tipo di contiguità con l’incolpato e lo stesso organo che si occupa della sua carriera (tutto si risolve nel sorteggio e nessuno mette becco), e omettiamo qualsiasi considerazione sull’elenco dei sorteggiabili stilato dal Parlamento per l’individuazione della componente laica dei due CSM e della stessa Alta Corte. Ammettiamo anche, come sostiene Barbera, che si possa evitare dal considerare connesso all’autogoverno della magistratura la rappresentatività in senso “politico” delle note e aggiungerei sicuramente legittime appartenenze correntizie, ma non certo al prezzo di incidere sulla capacità del nominato di saper veicolare sulla sua figura un consenso consapevole da parte dei magistrati cui si sottrae del tutto l’elettorato attivo. Si restringa pure il campo degli eleggibili (il che ovviamente inciderebbe sull’elettorato passivo), ma non si comprometta l’esercizio attivo del voto. Non può esistere un autogoverno solo nominale!

I veri problemi della giustizia sembrerebbero di altra natura: lentezza dei processi (specie in ambito civile), carenze di personale, scarsi investimenti nelle nuove tecnologie. Separare le carriere di alcuni magistrati non abbrevia un processo né migliora un ufficio. Peraltro, si inserisce in un quadro di riforme che rende molto bene la direzione di marcia intrapresa da questo Governo. Fra tutte, la volontà di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, contestualmente ad una maggioranza parlamentare che riduce ancora di più il Parlamento ad una mera cinghia di trasmissione con la maggioranza di governo. Dopo il Parlamento, da tempo messo all’angolo e delegittimato (in verità, non solo ad opera di questa maggioranza governativa), ora tocca alla magistratura più interferente con il potere politico, quel potere che chiede di agire con una libertà che non gli è riconosciuta dalle regole costituzionali tanto a Roma quanto a Washington!

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