
di Antonio D’Andrea
Il popolo ha ancora bisogno degli intellettuali e, in particolare, degli intellettuali di sinistra?
È questa la domanda che si fa strada nella mente leggendo le pagine, scorrevoli e intriganti, del libro di Antonio Cantaro (Amato popolo, Bordeaux, 2025). Pagine “di vita”, in cui la riflessione sul presente si mischia con appunti, ricordi e introduzioni di contesto che inquadrano i vari scritti raccolti nei momenti storici (personali e collettivi) in cui sono stati concepiti.
L’idea di fondo pare riassumibile così: bisogna tornare al popolo, smettere di infantilizzarlo, mettere fine alla continua denigrazione di tutto ciò che è “popolare”, considerato incolto, viscerale, istintivo e opposto all’idea di raffinatezza, profondità e moralismo, tipica delle élites illuminate. La critica alla sinistra (intellettuale e non) è poco celata: sentendosi sempre “migliori” degli altri, sposando battaglie colte e globalizzate, il “monopolio” del sentimento popolare e, in fondo, la connessione con il popolo stesso è stata lasciata ad altri.
Il bisogno di rinnovare questo approccio passa dalla comunicazione che viene portata avanti. Cantaro sferza il modo “apocalittico” con cui la sinistra (intellettuale e politica) paventa scenari nefasti ogni volta che al popolo viene presentata un’opzione binaria: o noi o il disastro. Si tratta di un bisogno anzitutto pragmatico, dato che la strategia non sembra avere conseguito grandi risultati in termini elettorali e, anzi, si sono aperte le porte ai leader nazionalisti che hanno saputo intercettare il favore del popolo.
Il populismo – ci spiega Cantaro, non senza ragione – va compreso nelle sue radici profonde. Serve parlarne, senza prenderne i toni, identificando chiaramente il problema non nel populus, ma nella ragione neoliberale che si è saldamente insediata nel villaggio globale e che non è stata smossa se non dai populismi nazionalistici (c.d. sovranismi).
Dunque, deposte tutte le lenti “preconcette” con cui sembra richiesto ad un intellettuale di sinistra di leggere il mondo, è più facile cogliere il disegno istituzionale che emerge laddove governano le destre, anche nel nostro Paese. È inutile gridare al “fascismo storico”, poiché troppa acqua è scorsa sotto i ponti per riportare in vita il passato. Ma il futuro è tutto da scrivere e bisogna attrezzarsi con argomenti che guardino al presente e quindi all’avvenire, non solo alla storia, e provino a decodificare i progetti di chi vuole “semplificare” la democrazia in maniera talvolta brutale. Senza scordarsi che questa semplificazione è stata spesso invocata e portata avanti proprio da sinistra o da chi sostiene e sosteneva “di non essere di destra”.
Certo, ogni tanto i vizi “sinistri” ritornano. Fare il contropelo a Valditara sulla citazione di Gramsci del latino come palestra per la mente non è poi tanto diverso dall’atteggiamento che si voleva stigmatizzare.
Forse è proprio qui il punto: non mancano gli argomenti della pars destruens, sono un po’ rarefatti quelli della pars costruens, soprattutto con riguardo a quello che c’è da fare, non tanto da pensare. Come si ricostruisce il legame con il popolare, senza diventare come i populisti? Quali sono le politiche da attuare oggi, in questo mondo, senza replicare quanto fatto nei mondi passati? E cosa possono fare gli intellettuali?
Per chi si occupa di diritto costituzionale, le domande sono ancora più concrete. Quali argomenti si mobilitano per dire che il premierato è sbagliato, senza gridare al rischio della dittatura? Possono i costituzionalisti “che guardano a sinistra” usare come unico perno la difesa delle attribuzioni di un uomo solo, come è e resta il Presidente della Repubblica?
Queste sono le domande che sorgono dopo la lettura del libro di Cantaro, la cui “solitudine politica” è invece ben compresa – e condivisa – da chi scrive.
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