Il rebus della data del referendum

di Paolo Carnevale

Alcune anticipazioni di stampa, in questi giorni, hanno fatto trapelare la notizia secondo la quale il Governo starebbe pensando di fissare per domenica 1° marzo la data di svolgimento del prossimo referendum popolare sulla legge di riforma costituzionale in tema di organizzazione della giustizia, approvata dalle Camere alla fine dello scorso mese ottobre.La questione della determinazione della data di svolgimento del referendum sulle leggi costituzionali presenta una qualche complessità.
Per compiere qualsiasi valutazione sul punto è necessario indagare la disciplina costituzionale e legislativa in materia e la prassi seguita nei precedenti quattro casi di consultazione referendaria su leggi di revisione costituzionale.
Innanzitutto, l’art. 138 della Costituzione, il quale prevede che, laddove – come nel caso presente – una legge costituzionale sia approvata solo col voto della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera (e non dei due terzi), cinquecentomila elettori, cinque consigli regionali o un quinto dei membri di ciascuna Camera possono chiedere che quella legge sia sottoposta a referendum popolare.
La richiesta deve essere presentata entro tre mesi dall’avvenuta pubblicazione della legge nella Gazzetta Ufficiale. Precisa, poi, la legge n. 352 del 1970 (“Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo”) che, in caso di richiesta di referendum popolare su legge costituzionale, l’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione deve con ordinanza accertarne la legittimità-regolarità (ad esempio, verificare il numero e la correttezza delle sottoscrizioni o delle deliberazioni dei Consigli regionali) nel termine di 30 giorni dalla sua presentazione. Di questa ordinanza va data immediata comunicazione “al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Presidente della Corte costituzionale”, così come ai soggetti promotori. La legge poi prescrive che, qualora venga riconosciuta la legittimità della richiesta da parte della Cassazione, entro sessanta giorni dalla comunicazione della decisione di quest’ultima il Presidente della Repubblica dispone, con proprio decreto, l’indizione del referendum (fissa, cioè, la data di svolgimento dello stesso), per “una domenica compresa tra il 50º e il 70º giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione”.
Questa la sequenza del procedimento referendario, per come delineata dalla normativa in materia.
Nel nostro caso, l’ordinanza dell’Ufficio centrale della Corte di Cassazione è intervenuta lo scorso 18 novembre, dichiarando la legittimità-regolarità delle quattro richieste referendarie pervenute – due ad opera dei senatori e deputati della maggioranza, due ad opera degli omologhi dell’opposizione – e fissando il quesito da sottoporre agli elettori – “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”; approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?”. Considerando che le richieste sono state depositate presso la medesima Corte fra il 4 e il 7 di novembre, il tempo utilizzato da quest’ultima per pronunciarsi è stato largamente inferiore a quello di
30 giorni messo a sua disposizione.
A questo proposito, va rammentato che quelli fissati dalla legge sono limiti massimi e non minimi, quindi si tratta di soglie temporali da non superare, all’interno delle quali la scelta circa il tempo da utilizzare da parte dei diversi attori intervenienti (Corte di Cassazione, Presidente della Repubblica e Governo) è rimessa al libero apprezzamento di ciascuno.

A questo punto, il Presidente potrebbe già ora procedere all’indizione del referendum, pur avendo a
disposizione sino al prossimo 18 gennaio.
Qui va fatta, tuttavia, una precisazione. Se, infatti, l’esercizio del potere di indizione è nell’esclusiva valutazione del Capo dello Stato circa il quando della sua attivazione, il suo contenuto è invece totalmente nelle mani del Governo che con deliberazione del Consiglio dei ministri stabilisce la data di svolgimento del referendum. A tutta prima, potrebbe sembrare – come spesso si dice –che quello presidenziale sia un potere solo formale, mentre quello sostanziale sia nelle mani del Governo. Il fatto è però che, se è vero che è il Governo a decidere il “quando” del referendum, non è men vero che è il Presidente a scegliere quando adottare il decreto di indizione. E siccome la data della consultazione
referendaria – che deve cadere fra 50 e 70 giorni dall’indizione – è legata al momento in cui il Presidente intende esercitare il suo potere, si può anche affermare che è la scelta governativa ad apparire condizionata da quella presidenziale.

Sin qui la cornice normativa.
Sulla sua lettura ha invero non poco inciso la prassi applicativa, sin dal primo referendum costituzionale della storia repubblicana: quello svoltosi il 7 ottobre del 2001 sulla legge di revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione (poi divenuta, a seguito dell’esito positivo della consultazione popolare, l. cost. n. 3 di quell’anno).
Ebbene, in quell’occasione, ci si trovò dinanzi ad un fatto non previsto (né prevedibile): la presentazione di più di una richiesta di referendum. Per l’esattezza furono due: una promossa dai parlamentari dell’opposizione, l’altra – e questo davvero fu una bizzarria, stante la matrice oppositiva del referendum – da quelli della maggioranza che aveva approvato la legge. La singolarità della cosa sta in questo: per il referendum su leggi costituzionali, a differenza di quanto avviene per quello abrogativo, i promotori non hanno nessun margine di scelta nella definizione dell’oggetto – costituito dalla legge approvata dalle Camere nella sua interezza – e nella formulazione del quesito. Tutto è predeterminato per legge, per cui ogni richiesta presentata appare assolutamente identica alla precedente o alla successiva.
A fronte di ciò, il Governo dell’epoca, presieduto dall’on. Giuliano Amato, con un proprio comunicato propose un’interpretazione abbastanza creativa della disciplina della legge n. 352 sopra richiamata. Posta l’inedita eventualità dell’iniziativa plurima e mosso dall’intenzione di tutelare il diritto di iniziativa anche a soggetti promotori diversi da quelli che avessero già attivato lo strumento del ricorso al popolo – il corpo elettorale, le Regioni – ritenne di dover intervenire sul sistema di successione cronologica delle diverse fasi del procedimento di indizione del referendum, ritenendo in via interpretativa che all’indizione dello stesso dovesse procedersi entro i sessanta giorni decorrenti, non
dalla comunicazione della decisione dell’Ufficio centrale per il referendum, bensì dalla scadenza del trimestre previsto dall’art. 138 della Costituzione per la presentazione delle richieste referendarie. Questo, allo scopo di evitare un’indizione che, cadendo nel corso del trimestre suddetto, rendesse impossibile la presentazione di ulteriori iniziative referendarie, penalizzando l’esercizio del diritto di iniziativa costituzionalmente tutelato.
Si trattava di un’operazione di interpretazione del diritto legislativo alla luce del rispetto delle esigenze costituzionali – c.d. interpretazione conforme a Costituzione – la cui audacia, in verità, finiva per avvicinarla ad una vera e propria riscrittura. Debbo dire, peraltro, che quella soluzione non mi ha mai convinto, non già per l’intento – di per sé pregevole – ma per la dubbia rispondenza allo scopo, dovuta alla erroneità della premessa assunta a fondamento: che, cioè, l’indizione del referendum, una volta disposta da parte del Presidente della Repubblica, abbia ad impedire la possibilità di proporre altre successive iniziative referendarie.
Mi rendo conto, tuttavia, che si tratta di questione abbastanza controversa.
Quel che più conta, ai nostri fini, è che da allora ogniqualvolta si è attivato lo strumento referendario – nel 2006, in occasione dell’approvazione della legge di revisione dell’intera seconda parte della Costituzione promossa dal Governo Berlusconi II; nel 2016, con riguardo all’approvata revisione dell’intera seconda parte della Costituzione promossa dal Governo Renzi; nel 2020, nella circostanza dell’avvenuta approvazione della legge di modifica della Costituzione in tema di riduzione del numero dei parlamentari – s’è adottata la soluzione proposta nel 2001, con un evidente effetto di
accreditamento della stessa. Per cui, anche a contestare quella soluzione, si potrebbe a questo punto evocare l’antico brocardo latino dell’error communis facit ius (secondo il quale l’errore, se diffuso e stabilizzato, finisce per produrre la regola).
Vengo ora alla nostra vicenda.
Seguendo quanto già avvenuto nei quattro precedenti richiamati, il decreto di indizione non potrebbe essere adottato prima del 30 gennaio 2026, a tre mesi cioè dal giorno di pubblicazione della legge in Gazzetta Ufficiale – il 30 ottobre 2025. Ne consegue che, dovendosi individuare per lo svolgimento della consultazione popolare una domenica compresa fra il cinquantesimo e il settantesimo giorno successivo all’indizione, il referendum potrebbe aver luogo non prima di domenica 22 marzo.
Laddove invece ci si volesse discostare dalla prassi sin qui seguita, bisognerebbe comunque dar conto delle ragioni dell’abbandono della soluzione ermeneutica che si è andata in questi (quasi) venticinque anni consolidando. Cosa che dovrebbe fare, a mio avviso, sia il Presidente della Repubblica che il Governo. Anche in questo caso, peraltro, la data del 1° marzo potrebbe essere a rischio. Immaginiamo, infatti, che il Presidente si determini per una indizione intratrimestrale nei sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza della Cassazione. Si deve ragionevolmente presumere che il relativo decreto non possa essere adottato durante le festività natalizie. Questo perché il termine
previsto dalla legge per fissare la data della consultazione popolare – che è, come s’è detto, di almeno cinquanta giorni dall’adozione del decreto di indizione – ha la sua ragion d’essere nella necessità di assicurare alla campagna referendaria di godere del tempo necessario per il suo svolgimento. Una indizione durante le festività comporterebbe di fatto il sacrificio di una porzione di quel tempo che verrebbe sottratta al lasso temporale stabilito dalla legge, con un pregiudizio della esigenza di un adeguato confronto fra le opinioni in campo e, quindi, mediatamente di garantire la consapevolezza del voto.
Ed allora, per consentire lo svolgimento del referendum in data 1° marzo senza produrre quel pregiudizio, il decreto presidenziale di indizione andrebbe adottato l’8 gennaio 2026. Ma anche in questo caso, l’effetto inerziale della distrazione festiva consiglierebbe una maggiore dilazione. Questo, tanto più considerando il carattere assai tecnico della materia trattata e la complessità dell’operazione di riforma sottoposta al voto popolare. A meno di non voler avallare quel processo di trasformazione dell’oggetto della consultazione popolare – dalla legge costituzionale approvata dalle Camere al destino del Governo che l’ha proposta – che revisioni costituzionali a forte trazione
dell’Esecutivo quasi inevitabilmente reca con sé.

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