Sul testamento biologico è scontro
tra Stato e Regioni.
Il Titolo V fa male alla salute?

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di Carlo Magnani

Casi di sincronia e coincidenza istituzionale da leggere come auspicio positivo? Stefano Rossi segnalava su questo giornale il passo in avanti compiuto, in Commissione Affari sociali della Camera, dal disegno sul testamento biologico e come l’intervento del legislatore si renda necessario anche in virtù della recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 14 dicembre 2016. Diamo un breve sguardo alla decisione.
Il tema è delicato ma presenta dei risvolti giuridici ormai abbastanza definiti, grazie soprattutto alle diverse sentenze della Corte costituzionale in materia. La libertà del paziente di accettare o meno le terapie come contenuto essenziale del diritto alla salute divide, infatti, non solo le coscienze, in quanto questione bioetica di primo piano, ma anche, in maniera forse meno scontata, i soggetti della Repubblica titolari della potestà legislativa, cioè lo Stato e le Regioni.

La sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 14 dicembre 2016  si occupa di due leggi della Regione Friuli-Venezia Giulia: la legge n. 4 del 13 marzo 2015, recante «Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti», e la legge integrativa e di modifica della precedente n. 16 del 10 luglio 2015.
Le due norme sono state impugnate nella loro interezza dal governo lamentando la violazione degli artt. 3, e 117, comma 2, lettera l), e comma 3, della Costituzione. Secondo il ricorrente la normativa impugnata oltrepassava i limiti della potestà legislativa regionale invadendo la competenza statale in due fattispecie: intervenendo in materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato (cioè, la materia dell’«ordinamento civile» e dell’«ordinamento penale»), e, disponendo di principi dei fondamentali della materia «tutela della salute», riservati alla legislazione statale vista la competenza concorrente; inoltre, altro motivo di censura statale, era la lesione del principio di eguaglianza mediante l’introduzione di un regime differenziato per diritti fondamentali della persona sul territorio nazionale.

La Regione ha difeso la propria legislazione utilizzando diversi argomenti. La legge regionale veniva considerata uno strumento utile a colmare un vuoto normativo, minimizzando l’impatto innovativo e riformatore sulla disciplina statale in vigore. Essa intendeva, secondo la Regione, «offrire un servizio a cui liberamente accedere», un servizio «meramente ancillare alle prestazioni ordinariamente erogate a carico del servizio sanitario regionale», utile per la cura e la gestione dei trattamenti più appropriati alla persona «indipendentemente da un qualunque vincolo o effetto giuridico, su cui il legislatore regionale nulla dispone». Infine, dal punto di vista costituzionale, la Regione ha fatto leva sulla riconduzione del consenso informato direttamente alla Costituzione, deducibile dagli artt. 2, 13, 32 e 33, primo comma, Cost. (come da giurisprudenza costituzionale stessa) che sarebbero pertanto la vera fonte di legittimità – che «sfugge alla stessa disponibilità del legislatore statale e richiede (anche) da questi stretta osservanza» – di un intervento di mero sostegno amministrativo al servizio sanitario nazionale.

La Consulta aveva già affrontato la questione del consenso informato disciplinato in una legge regionale con la sentenza n. 438 del 2008. La disciplina impugnata venne dichiarata illegittima costituzionalmente per difetto di competenza ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 3, in quanto principio fondamentale della materia. Un conflitto analogo con la legge della Provincia autonoma di Trento venne risolto ribadendo lo stesso principio (sent. n. 253 del 2009): «il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute». Inoltre, andando poco più indietro, merita richiamo la rilevante sentenza n. 282 del 2008 nella quale il Giudice delle leggi precisa il contenuto della materia concorrente «tutela della salute», sempre censurando una legge regionale.

Alle medesime conclusioni giunge la Corte costituzionale anche in questo conflitto tra Stato e Regione con la pronuncia n. 262. La ‘posta in gioco’ era forse più alta in questa circostanza, visto che, nonostante l’interpretazione minimizzante data dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, l’impatto ordinamentale sarebbe stato certamente maggiore: non può sfuggire che il testamento biologico riguarda tutta una serie di disposizioni civili, penali ed amministrative.

La Consulta ravvisa nella disciplina regionale una normativa organica e completa, che prevede, tra l’altro, forma, oggetto, destinatari, validità temporale, modalità di conservazione, trascrizione, circostanze nelle quali è possibile nominare un fiduciario. Per il Giudice delle leggi «la normativa regionale in esame, [..] stabilisce la forma di espressione, nonché le modalità di annotazione e conservazione in un pubblico registro degli intendimenti di ciascun soggetto in ordine ai trattamenti sanitari, sottraendoli così alla sfera meramente privata. L’attribuzione di un rilievo pubblico a tali manifestazioni di volontà, espressive della libertà di cura (ex multis, sentenze n. 438 del 2008; n. 282 del 2002; n. 185 del 1998; n. 307 del 1990), implica la necessità di una articolata regolamentazione – come il complesso tessuto normativo delle due leggi impugnate testimonia – e interferisce nella materia dell’”ordinamento civile”, attribuita in maniera esclusiva alla competenza legislativa dello Stato dall’art. 117, comma secondo, lettera l), Cost.». Inoltre, «data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona, una normativa in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita – al pari di quella che regola la donazione di organi e tessuti – necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento civile”, disposta dalla Costituzione».

Anche in questa circostanza la materia «tutela della salute» si è rivelata terreno scivoloso nei rapporti tra i due soggetti legislatori della Repubblica. L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre non dovrebbe però lasciare cadere la necessità di un intervento sul Titolo V della Parte seconda della Costituzione, testimoniato proprio da casi come questo. Appare chiara nella giurisprudenza costituzionale la vocazione ad interpretare in maniera espansiva i principi fondamentali della materia «tutela della salute», che forse potrebbe transitare tranquillamente nella competenza esclusiva statale.

Infine, la pronuncia, se letta con i casi che l’opinione pubblica segnala e con le richieste che giungono alla magistratura ordinaria, costituisce un ulteriore stimolo ad intervenire urgentemente con una legge da parte del Parlamento. La strada della legislazione regionale su consenso informato e testamento biologico non può essere percorsa perché la Costituzione non contempla il federalismo dei diritti sociali e delle libertà: le pronunce della Consulta segnalano questo con coerenza. Spetta al legislatore fare la sua parte.

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