La decisione del Senato su Minzolini:
legittima, ma (talora) erroneamente motivata

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di Salvatore Curreri

Prima o poi sarebbe accaduto. E così, dopo i voti per la decadenza di Galan (alla Camera) e di Berlusconi (al Senato), è stato il sen. Augusto Minzolini il primo parlamentare a non essere dichiarato decaduto, benché condannato in via definitiva a più di due anni per uno dei reati (nel caso in specie quello di peculato) per cui il c.d. decreto Severino (d.lgs. 235/2012) prevede l’incandidabilità (art. 1), anche se sopravvenuta in corso di mandato (art. 3).

Era perciò ampiamente prevedibile che tale voto scatenasse le proteste di buona parte dell’opinione pubblica contro quella che è stata ritenuta l’ennesima manifestazione di protervia della casta politica. Meno prevedibile, sinceramente, che taluni senatori giustificassero il loro voto, favorevole o contrario, ricorrendo ad argomenti costituzionalmente opinabili.

È il caso, quindi, di fare un po’ di chiarezza, anche per il futuro.

Innanzi tutto, in caso di sopraggiunta causa d’incandidabilità di un parlamentare, la Camera d’appartenenza non è chiamata a “prendere atto” o a “ratificare” la sentenza di condanna, dichiarandone l’automatica decadenza dal mandato, ma, come recita l’art. 3.1 del citato decreto Severino, deve deliberare “ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione”. Articolo secondo cui “ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità” (c.d. autodichia; corsivo mio). Pertanto, al contrario di altri ordinamenti costituzionali, nel nostro sono esclusivamente le Camere che devono non “accertare” o “dichiarare” ma “giudicare” dei titoli di ammissione e, quindi, della permanenza in carica dei propri componenti, anche a seguito di “cause sopraggiunte di ineleggibilità” (e la incandidabilità è una particolare forma d’ineleggibilità: v. Corte cost. 132/2001, 2° cons. dir.).

Ai sensi dell’art. 66 Cost., dunque, sono solo le camere a poter decidere sovranamente della propria composizione: né la magistratura, né lo stesso eletto (le cui dimissioni, per questo motivo, sono soggette ad approvazione). Del resto, fu proprio per evitare problemi di costituzionalità che l’attuale formulazione del sopra citato art. 3.1 fu preferita a quella iniziale che in tali casi invece prevedeva “la decadenza di diritto dalla carica, (…) dichiarata dalla Camera di appartenenza” (corsivi miei; cfr. http://www.huffingtonpost.it/2013/08/19/incandidabilita-berlusconi-legge-severino-governo-monti_n_3779468.html?utm_hp_ref=italy). È errato, quindi, a mio parere, ritenere che, in tali casi, il voto per la decadenza sia un atto dovuto e non discrezionale. Di esso i parlamentari, in piena libertà di mandato, si assumono la responsabilità politica dinanzi ai loro elettori e, più in generale, all’opinione pubblica.

Ma parimenti errato è, a mio parere, giustificare il voto contrario alla decadenza per il fumus persecutionis di cui il sen. Minzolini sarebbe stato vittima perché, dopo essere stato non condannato in sede civile ed assolto in primo grado in sede penale, egli è stato, invece, dichiarato colpevole  dalla Corte di appello senza nuova audizione dei testimoni e ad una pena appositamente aumentata a due anni e mezzo di reclusione così da far scattare l’applicazione del decreto Severino.

Innanzi tutto, chi ha avuto un giudizio favorevole in sede civile non per questo va scagionato in sede penale, trattandosi ovviamente di processi basati su presupposti diversi. In secondo luogo, è ben strano che il sen. Minzolini non abbia mai eccepito nel processo, come pur avrebbe potuto tramite istanza di ricusazione, la mancata imparzialità e terzietà del collegio giudicante (per la presenza tra i tre giudici di un ex parlamentare e sottosegretario nel governo Prodi, di opposto orientamento politico). Ma soprattutto è la natura definitiva della sentenza penale di condanna, dopo due giudizi di merito ed uno di legittimità, che esclude in radice l’ipotetico intento persecutorio. È questo, infatti, il motivo per cui l’art. 68.2 Cost. esclude l’autorizzazione della camera di appartenenza quando si debba privare un parlamentare della libertà personale “in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna”.

Certo si possono separare i due piani, sostenendo che i magistrati possano, in diabolico concerto, perseguitare (e non perseguire) un parlamentare fino al punto di condannarlo in via definitiva e mandarlo in carcere (non nel caso però del sen. Minzolini, condannato con la condizionale), senza però poterlo privare del suo mandato. Epperò, spero si vorrà convenire sulla gravità della situazione, un po’ paradossale, in cui si verrebbe a trovare il parlamentare perseguitato che, pur rimanendo tale in carcere, non potrebbe comunque esercitare il suo mandato, almeno per quanto riguarda quelle funzioni che richiedono la sua presenza fisica a Palazzo Madama o a Montecitorio.

Il fatto è, invece, che la definitività della sentenza penale di condanna esclude in re ipsa ogni ipotesi persecutoria per cui, così come consente che il parlamentare venga privato della sua libertà personale senza necessità dell’autorizzazione a procedere della camera di appartenenza, allo stesso modo dovrebbe consentirne, almeno sotto questo profilo, la decadenza dal mandato. Diversamente, facendo prevalere l’art. 66 sull’art. 68.2 Cost., si finisce di fatto per resuscitare la vecchia autorizzazione a procedere antecedente alla riforma del 1993, cioè richiesta anche quando si trattava di dare esecuzione a sentenze penali definitive di condanna.

Parimenti opinabile pare la motivazione di chi ha votato contro la decadenza del sen. Minzolini contestando la violazione del principio d’irretroattività delle norme penali, giacché altrimenti si sarebbe applicato un istituto di natura sanzionatoria introdotto dal 2013 a fatti commessi antecedentemente. La Corte costituzionale, infatti, ha definitivamente chiarito che le misure dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione degli amministratori pubblici “non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerato o per il loro mantenimento”(sentenza n. 236/2015, 4.1 cons. dir.). In virtù di tale giurisprudenza, dunque, la decadenza dal mandato parlamentare non costituisce una sanzione o un effetto penale della condanna, ma la conseguenza del venir meno d’un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche elettive o per il loro mantenimento, nell’ambito di quanto dettato dall’articolo 51.1 Cost. (che attribuisce al legislatore il potere di stabilire i requisiti di eleggibilità) e non in quello dell’articolo 25.2 (che sancisce il principio di irretroattività della legge penale).

Un’ultima considerazione. La Giunta delle elezioni del Senato, nel suo parere reso all’Aula (favorevole alla decadenza), ha ribadito la sua natura di organo politico, e non giurisdizionale, inidoneo quindi a sollevare in materia questioni di legittimità costituzionale o rinvii pregiudiziali interpretativi alle Corte europee di Strasburgo e Lussemburgo (causa questa non ultima dell’ammissibilità da parte della Corte costituzionale delle azioni di accertamento in materia di legge elettorale). Preso atto di tale orientamento, deve essere dunque il legislatore – e non altri – ad intervenire sulla disciplina della incandidabilità per sciogliere i numerosi dubbi interpretativi insorti. Non certo per abbassare il livello di guardia verso simili comportamenti delittuosi che, quando commessi da parlamentari, suscitano giusto sconcerto nell’opinione pubblica.

 

 

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