Caso Minzolini: e se il giudice
sollevasse il conflitto di attribuzioni?

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di Alessio Rauti

La recente deliberazione adottata dal plenum del Senato il 16 marzo sulla vicenda Minzolini costituisce senza dubbio una di quelle “pietre d’inciampo” che rendono ancor più difficili i rapporti fra politici, cittadini e magistratura. Il punto ineludibile su cui mi soffermo in questa brevissima nota non è tanto il paventato fumus persecutionis – che, come giustamente affermato anche dal Presidente dell’Associazione nazionale magistrati, è per sua natura «non invocabile» rispetto ad una pronuncia definitiva di condanna – e neppure la questione relativa alla natura delle misure sull’incandidabilità previste dalla l. n 235 del 2012 (d’ora in poi, “legge Severino”), che la Corte costituzionale ha ampiamente mostrato di ritenere non riconducibili alla categoria delle sanzioni penali, trattandosi piuttosto di verificare se esista o permanga nei singoli candidati un “presupposto” essenziale per ricoprire la carica di parlamentare. Il punto decisivo è se, nel riservarsi una scelta “libera” – e, in particolare, la possibilità stessa di confermare l’elezione di un parlamentare divenuto «incandidabile» in via sopravvenuta – il Senato abbia violato la “legge Severino”.

Dico subito che, in base ad una tesi di recente sostenuta, siffatta violazione non vi sarebbe stata. Si richiama a sostegno proprio il disposto dell’art. 3, primo comma, della ricordata “legge Severino” secondo cui «Qualora una causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione». In particolare, il richiamo alla norma costituzionale e la mancanza di qualsiasi riferimento alla decadenza automatica (originariamente proposta) comporterebbe che in questo caso la Camera possa anche assumersi la responsabilità politica di una decisione di non decadenza.

Ora, si può certamente ritenere che il primo comma di tale articolo non brilli per chiarezza e che sarebbe necessario un ulteriore intervento del legislatore per rimuoverne la “penombra interpretativa”. Tuttavia, credo possa – e debba – invece sostenersi una diversa interpretazione, volta a restituire coerenza e sistematicità alla normativa in questione.

In particolare, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, se il giudizio di convalida sull’elezione del parlamentare è ancora in corso, allora si procede immediatamente alla deliberazione sulla mancata convalida. Se invece tale giudizio si è già concluso, la legge prescrive unicamente che lo stesso debba riaprirsi ai sensi dell’art. 66 Cost., opportunamente richiamato dal primo comma. Ma questo non comporta una diversa estensione dei poteri ed una restrizione dei limiti rispetto all’ipotesi del secondo comma, nonostante il primo comma non espliciti ciò che invece viene reso espresso nel secondo comma.

In altri termini, se nell’ipotesi di sopravvenuta incandidabilità il tutto fosse rimesso alla scelta libera (oserei dire: arbitraria) ed alla sola responsabilità politico-partitica della singola Camera, non solo si avrebbe il definitivo tramonto dello Stato di diritto – nel senso di rimettere a mere decisioni di partito (e magari di una maggioranza determinata dal premio elettorale) il rispetto di norme contro le infiltrazioni criminali – ma non avrebbe alcun senso e sarebbe irragionevole la previsione del secondo comma per cui, si ribadisce, se il giudizio di convalida è in corso, si procede immediatamente alla delibera di mancata convalida, il che preclude in questa fase una decisione di tipo di diverso dalla pronuncia di decadenza. Non si vede infatti perché, a seguire la tesi qui non accolta, non possa (e non debba) essere invocata negli stessi termini la norma costituzionale anche in tale fase precedente. Altrimenti detto: se davvero l’art. 66 Cost. consentisse un così ampio margine di manovra – anche contra legem – non si vedrebbe perché questo potrebbe unicamente aversi nell’ipotesi di incandidabilità sopravvenuta al giudizio di convalida e non nel caso in cui il giudizio di convalida fosse ancora in corso. E non si capirebbe, inoltre, come tale ultima limitazione ai poteri camerali derivanti dall’art. 66 Cost. potrebbe derivare da una semplice norma di legge.

Al contrario, nel rispetto dell’art. 66 Cost., la “legge Severino” fa salvo il giudizio della singola Camera, ma questo non può che essere conformato dagli stessi limiti di legge a prescindere dal fatto che la causa di incandidabilità sia originaria o sopravvenuta. Del resto, le esigenze legate alle cause di incandidabilità – ovvero il freno alle infiltrazioni criminali nelle istituzioni – si presentano inalterate in entrambe le ipotesi (a differenza di quanto dovrebbe dirsi per le cause di ineleggibilità in senso stretto).

In definitiva: o si ritiene, a mio avviso in modo non legittimo, che l’art. 66 Cost. possa essere invocato a sostegno della totale, e quindi indiscriminata, libertà politica delle Camere in tale giudizio – ed allora la “legge Severino” risulterebbe in ogni caso destinata ad essere “violata”, anche in relazione al secondo comma dell’art. 3 – oppure si accetta il fatto (che non necessita, in verità, di particolari argomentazioni) per cui, se pure la decadenza per incandidabilità dei parlamentari già proclamati non è automatica, necessitando il giudizio delle Camere, quest’ultimo non può mai avere esiti contra legem, ovvero contro un atto oramai distaccatosi dalla volontà del suo autore storico, che vincola anche le Camere e che, non va dimenticato, possiede natura complessa, dunque, anche sotto questo aspetto, non disponibile dalla singola Camera.

In conclusione, la c.d. “giurisprudenza parlamentare”, da sola, non può comunque vanificare le esigenze sottese alla “legge Severino”, già  particolarmente mortificate dalla recente deliberazione del Senato. Peraltro, a seguire l’interpretazione qui proposta, neppure si può escludere l’eventualità di conflitto di attribuzione da menomazione sollevato dal giudice che ha adottato la pronunzia definitiva di condanna. Nello specifico, la doglianza potrebbe appuntarsi sul cattivo esercizio del potere di cui all’art. 66 Cost. e sulla conseguente vanificazione dell’effetto di incandidabilità che la “legge Severino” collega per alcuni delitti ad una pronunzia di condanna passata in giudicato. Ovviamente, è chiaro che qui il dato centrale risulterebbe pur sempre l’erronea interpretazione della normativa in tema di incandidabilità e, in particolare, dell’art. 3, primo comma, ma considerata esclusivamente come presupposto del cattivo esercizio del potere camerale. La decisione della Corte potrebbe stabilire che il rinvio della “legge Severino” all’art. 66 Cost. non è da intendersi come una sorta di abdicazione in favore della “sovrana” decisione della singola Camera: sia perché ne deriverebbe una violazione dei fondamenti dello Stato di diritto, sia perché sarebbe contraddittorio che l’esercizio dello stesso potere possa condurre a due diversi esiti a seconda della fase temporale in cui emerga la causa di incandidabilità.

 

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