Turchia: un “democratico” addio alla democrazia?
Nel dettaglio le modifiche costituzionali

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di Alessandro Morelli * e Entela Cukani **

Può una democrazia “suicidarsi” in modo democratico? Abbandonare per sempre i propri principi e istituti, attraverso gli stessi strumenti della tradizione democratica (votazioni, referendum ecc.)? Ovviamente è possibile. Il popolo non è infallibile e per dimostrarlo non è necessario scomodare la “democratica” Atene del V sec. a.C., che condannò a morte Socrate, o la folla chiamata in causa da Ponzio Pilato per decidere chi liberare tra Gesù e Barabba. Si sbaglia da soli e lo si può fare anche quando si è in tanti. L’errore può riguardare persino la definizione dei tratti identitari di un ordinamento e, del resto, la storia è piena di transizioni costituzionali in senso autoritario consacrate dal voto popolare. A ciò deve aggiungersi che, affinché una votazione possa servire realmente le ragioni della democrazia, essa deve avere luogo in modo libero e in condizioni che ne consentano il regolare svolgimento. Anche quando ciò accade, tuttavia, non si danno garanzie sicure che possano salvare un ordinamento democratico da se stesso. La forma di Stato (il rapporto tra governanti e governati) può sempre mutare sotto il reale o apparente rispetto delle procedure democratiche.

È probabilmente quello che sta accadendo oggi in Turchia, dove la transizione involutiva verso un regime autoritario si sta compiendo dietro le apparenze di un’“innocua” trasformazione della forma di governo (ossia il rapporto tra gli organi costituzionali, il cui mutamento non comporta necessariamente un cambiamento della forma di Stato). Nelle intenzioni dichiarate del “riformatore” Erdoğan, gli interventi di revisione del testo costituzionale che vedono la luce con il referendum del 16 aprile 2017 sono volti solo a modernizzare il sistema istituzionale attraverso il passaggio da una forma di governo parlamentare a una presidenziale. In realtà, come vedremo, le modifiche incidono profondamente sul rapporto tra autorità e libertà. Un rapporto mai semplice, ma che in Turchia, dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, aveva intrapreso la via di un faticoso ma promettente percorso di democratizzazione, fortemente sollecitato dalle istituzioni europee. In seguito all’avvio del processo di adesione all’Unione europea, tuttavia, il percorso si è rivelato sempre più accidentato e, anche a fronte dell’esigenza di rispettare i Criteri di Copenaghen, si sono manifestate sempre più marcate tendenze autoritarie.

Il testo dell’attuale Costituzione turca è stato adottato nel 1982, dopo il golpe militare del 1980, ed è stato sottoposto a diverse modifiche, in parte realizzate dopo l’apertura dei negoziati di adesione all’Unione nel 2005. Tali revisioni hanno messo in evidenza l’estrema difficoltà d’introdurre i principi del costituzionalismo liberal-democratico nella forma ordinamentale definita dalla Costituzione del 1982, che riconosceva un ruolo di primo piano alle forze militari.

Il referendum appena svoltosi, nel pieno dello stato di emergenza instaurato in seguito al fallito golpe militare del 15 luglio 2016, dà il via libera a una riforma che apporta ben 18 emendamenti alla Costituzione.

L’esigenza di rinnovare il testo della Carta fondamentale – pur avvertita dalla società civile e richiesta dall’Unione europea (ai fini del riconoscimento normativo dei diritti umani e delle libertà fondamentali) quale requisito per l’adesione della Turchia – di fatto è rimasta finora insoddisfatta per lo stallo politico tra il partito di Erdoğan, l’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi), e gli oppositori. Questi ultimi hanno temuto sin dall’inizio il rischio che la riforma determinasse un aumento dei poteri e dei privilegi del partito di maggioranza e, del resto, se si guarda alla storia costituzionale del Paese, di regola, a ogni golpe militare è corrisposta l’adozione di un nuovo testo costituzionale, con il quale si è sempre inteso dare un segno di discontinuità rispetto al precedente regime. Il che si è verificato con l’adozione delle due Costituzioni successive a quella di Atatürk (del 1924), nel 1961 e nel 1982.

Già la riforma del 2010 aveva suscitato seri dubbi sulle intenzioni dell’AKP. Da più parti si era denunciato, infatti, il rischio che, dietro la trasformazione della forma di governo, si volesse affermare, di fatto, la supremazia assoluta del partito di maggioranza. Nella medesima direzione sembrano muoversi le modifiche introdotte ora con la legge costituzionale n. 6771, adottata dal Parlamento il 21 gennaio del 2017 e definitivamente approvata con il referendum del 16 aprile.

La proposta di riforma è stata votata dai 3/5 dei membri del Parlamento (maggioranza sufficiente, ai sensi dell’art. 175 Cost., a consentire la sottoposizione del testo al referendum popolare obbligatorio) ed è stata promossa dalla coalizione composta dall’AKP e dall’MHP (Milliyetçi Hareket Partisi), partito nazionalista di destra, senza il consenso delle altre forze politiche. In più, poiché l’approvazione della legge costituzionale è avvenuta nel giro di poche settimane, durante lo stato d’emergenza e nel contesto della grande “epurazione” dei gülenisti (i seguaci di Fethullah Gülen, ritenuti responsabili del tentato golpe del 15 luglio 2016), di fatto sui suoi contenuti non si è svolto un dibattito pubblico. Ben si comprendono, pertanto, le ragioni per le quali la Commissione di Venezia, il 13 marzo 2017, abbia espresso parere negativo sullo svolgimento di un referendum costituzionale durante uno stato di emergenza, considerando il clima d’intimidazione che si riscontra, in questo momento, in Turchia.

Alla consultazione popolare i SÌ hanno vinto di misura, con il 51,3%. Decisivo è stato il voto dei Turchi residenti all’estero, molti dei quali, secondo le statistiche dell’Europe Elects, avrebbero votato a favore della riforma, pur vivendo da tempo in Paesi democratici. Anche in considerazione del ridotto scarto di voti, è subito scoppiato un acceso conflitto sulla regolarità delle elezioni. In particolare, il principale partito di opposizione, il CHP (Cumhuriyet Halk Partisi), ha denunciato alla Commissione elettorale suprema la circostanza che un alto numero di schede votate non recherebbe il timbro ufficiale e contro la validità della consultazione si è espressa anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).

Quali sono le novità che introduce la riforma appena approvata?

Mutano, innanzitutto, alcune importanti previsioni relative all’elezione e alle funzioni del Presidente della Repubblica. Secondo quanto stabilito dal testo del 1982, il Capo dello Stato era eletto per un mandato di sette anni dal Parlamento, la Grande Assemblea Nazionale Turca, tra i propri membri; non poteva essere eletto per la seconda volta e se era membro di un partito, doveva lasciarlo al momento dell’elezione. Inoltre, all’atto della designazione, sarebbe cessato status di componente dell’Assemblea Nazionale Turca. La riforma approvata il 21 ottobre del 2007 aveva ridotto la durata del mandato da sette a cinque anni, prevedendo la possibilità di un eventuale secondo mandato e l’elezione diretta del Capo dello Stato da parte del corpo elettorale (e non più dall’Assemblea Nazionale, come originariamente previsto). Con la riforma appena varata, la durata del mandato rimane di cinque anni, ma si prevede che al primo possa fare seguito un altro mandato. Si stabilisce, inoltre, che le elezioni presidenziali e quelle parlamentari si svolgano congiuntamente. Laddove le elezioni parlamentari abbiano luogo, durante il secondo mandato, prima della fine della legislatura, il Presidente della Repubblica ha la possibilità di ricandidarsi. In pratica, qualora il Capo dello Stato decidesse di dare luogo a elezioni parlamentari anticipate al termine del secondo mandato, egli potrebbe anche essere rieletto per un altro mandato e l’ipotesi potrebbe ripetersi per un numero indefinito di volte.

Viene meno, inoltre, la clausola d’incompatibilità tra la carica di Capo dello Stato e il partito di appartenenza. Pertanto, in seguito alla riforma, Erdoğan potrà continuare a rimanere Presidente dell’AKP e, attraverso il ricorso a elezioni parlamentari anticipate indette prima della fine del mandato presidenziale, potrebbe anche rimanere in carica come Capo dello Stato a vita.

Di grande impatto sono, poi, le modifiche riguardanti l’Esecutivo: cambiano, infatti, le previsioni dell’art. 104, lett. b), della Costituzione, che disciplinano i rapporti tra Presidente e Consiglio dei Ministri. Nella previsione originaria, il Presidente poteva nominare il Primo ministro ed accettarne le dimissioni, nonché nominare e revocare i ministri su proposta dello stesso Primo ministro. Con la riforma, invece, la figura del premier viene soppressa e il Capo dello Stato ne assume le funzioni, acquisendo il potere di nomina diretta e di revoca dei ministri, dei vicepresidenti e dei funzionari governativi. Passa, inoltre, al Presidente della Repubblica il potere di emettere decreti legislativi su materie di competenza del Governo. L’art. 91 Cost. prevedeva, invece, che la Grande Assemblea Nazionale Turca potesse autorizzare il Consiglio dei Ministri a emanare decreti aventi forza di legge, richiedendo una ratifica parlamentare successiva. Con la riforma, da una parte viene meno la necessità dell’intervento parlamentare per i decreti presidenziali e, dall’altra, s’introduce la possibilità che si legiferi esclusivamente per il tramite di decreti presidenziali, ivi compreso anche per i diritti fondamentali. L’art. 91 Cost e le altre disposizioni normative del diritto emergenziale (artt. 15, 120, 121 Cost. e legge n. 2935 del 1983) escludevano la possibilità che i diritti fondamentali, i diritti individuali e i doveri inclusi nel primo e secondo capitolo della Seconda parte della Costituzione, nonché i diritti e doveri politici elencati al quarto capitolo potessero essere regolati tramite decreti aventi forza di legge, eccezion fatta per le ipotesi di stato d’emergenza. Tuttavia, prima della riforma, un eventuale prolungamento dello stato d’emergenza poteva avvenire su richiesta del Presidente al Parlamento, per un periodo di quattro mesi. Con la riforma appena varata, invece, si prevede che lo stato d’emergenza possa essere dichiarato esclusivamente da parte del Presidente, venendo meno, inoltre, il limite temporale dei quattro mesi. Pertanto, si prospetta la possibilità che il Paese sia governato solo tramite decreti presidenziali, che possono incidere anche sui diritti fondamentali, per un periodo potenzialmente indefinito. Il tutto determinerebbe, inoltre, un’ipotesi di conflitto con il potere legislativo, al quale spetta in via prioritaria, in base a quanto previsto dall’art. 7 Cost., la funzione normativa.

Con riferimento al Parlamento, le novità introdotte dalla riforma sono ancora più incisive. In apparenza sembra che le garanzie di rappresentanza democratica aumentino, con l’incremento del numero totale dei deputati (da 550 a 600 membri) e la riduzione dell’età richiesta per l’elettorato passivo (da 25 a 18 anni). Tuttavia, si stabilisce che l’approvazione di una legge rinviata dal Presidente all’Assemblea debba avere luogo a maggioranza assoluta, con la conseguente attribuzione al Presidente di una sorta di diritto di veto sulla funzione legislativa del Parlamento.

Il rapporto tra Capo dello Stato e Parlamento cambia anche sotto altri profili, ridimensionandosi sensibilmente il ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo e sul Governo. Con l’entrata in vigore della riforma, infatti, il Parlamento non potrà più esercitare il suo potere di controllo per mezzo di “domande, inchieste parlamentari, dibattiti generali, interpellanza, e indagini parlamentari” previste dall’art. 98 Cost., nonché mediante le ipotesi d’indagine parlamentare riguardanti il Primo Ministro ed altri ministri ex art. 100 Cost.; l’organo potrà solo richiede informazioni, sollecitare risposte da parte dei singoli ministri mediante domande poste per iscritto, indire riunioni per discutere le azioni del Capo dello Stato e del Governo.

Non meno incisive sono le modifiche riguardanti il potere giudiziario. Da una parte, la riforma prevede l’abolizione delle Corti militari; dall’altra, essa muta il numero e le modalità di elezione dei membri del Consiglio supremo dei giudici e dei procuratori, le cui funzioni erano state già oggetto di modifiche con la revisione del 2010 e, in seguito, con la legge n. 6524 del 2014. La prima aveva inteso rendere effettiva l’indipendenza dei giudici; la seconda, invece, di segno opposto, aveva trasferito al Ministero della giustizia poteri molto ampi (tra cui quelli inerenti all’esercizio dell’azione disciplinare contro i magistrati). Molte norme della legge del 2014 erano state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, ma la riforma appena varata le reintroduce, con qualche ulteriore novità: si prevede, in particolare, una riduzione drastica del numero dei membri del Consiglio supremo dei giudici e dei procuratori (da 22 a soli 12), ma rimane ferma la presidenza dell’organo in capo al Ministro della Giustizia. Con la riforma, inoltre, la nomina della metà dei membri del Consiglio spetta al Presidente, mentre quella dell’altra metà resta prerogativa del Parlamento. Se si considera che, nel nuovo quadro istituzionale, la nomina e la revoca dei singoli ministri diviene prerogativa esclusiva del Capo dello Stato, quest’ultimo potrà anche nominare e destituire il Ministro della Giustizia, potendo così controllare, di fatto, l’operato del Consiglio Supremo dei giudici e dei procuratori di cui il suddetto Ministro è presidente. Ma vi è di più: qualora il Capo dello Stato sia anche il presidente del partito di maggioranza (come nel caso di Erdoğan con l’AKP), di fatto, il Presidente della Repubblica potrà influenzare anche la nomina della metà dei membri del Consiglio spettante al Parlamento. In questo modo, il Capo dello Stato potrà scegliere tutti i membri del Consiglio. Se si considerano le competenze che l’art. 159 Cost. (già revisionato nel 2010 e nel 2014) riconosce al Consiglio supremo dei giudici e dei procuratori, ben si comprende come il Presidente della Repubblica finisca con l’acquisire poteri illimitati nell’amministrazione della giurisdizione. A ciò si aggiunga che il numero dei componenti della Corte costituzionale scende da 17 a 15, 12 dei quali saranno nominati dal Presidente della Repubblica e i restanti 3 designati dal Parlamento.

La riforma elimina, inoltre, la mozione di sfiducia del Parlamento nei confronti del Presidente e dell’Esecutivo e rilevanti modifiche sono apportate anche alla procedura d’impeachment, che potrà essere avviata solo con la firma di 301 deputati. Il Parlamento potrà istituire una commissione d’inchiesta con l’approvazione a voto segreto da parte di 360 deputati. Se tale commissione deciderà d’inviare il Presidente alla Corte Suprema, il processo potrà avere luogo con il raggiungimento del voto complessivo di 400 deputati. In pratica, l’avvio della procedura d’impeachment diventa un’ipotesi difficilmente realizzabile.

Come l’analisi comparatistica dimostra, l’adozione della forma di governo presidenziale, senza un rafforzamento del sistema di pesi e contrappesi idoneo a limitare le possibili degenerazioni autoritarie del sistema, può essere molto rischiosa per la tenuta delle istituzioni democratiche. In diversi paesi nei quali è stato importato tale modello, che, com’è noto, trova negli Stati Uniti d’America la propria espressione esemplare, il presidenzialismo è stato applicato senza il necessario rispetto dei principi basilari dello Stato di diritto: la garanzia dei diritti fondamentali e la separazione dei poteri. Si sono così prodotti assetti istituzionali che hanno dato luogo a forme di “presidenzialismo autoritario”, chiamati anche “regimi presidenzialisti”. Sembrerebbe proprio questa la direzione verso la quale si starebbe avviando la Turchia con la riforma costituzionale appena varata.

 

* Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Catanzaro

** Dottore di ricerca in Diritto pubblico comparato, Università del Salento

 

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