Due cuori e due capanne: la Cassazione
sull’assegno di mantenimento

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di Maria Vita De Giorgi*

Fa molto scalpore in questi giorni la sentenza della Cassazione n. 11504/2017 che si è pronunciata su un argomento di grande interesse per molti: l’ammontare dell’assegno di mantenimento dovuto al coniuge (di regola, la moglie) a seguito di divorzio. Questo assegno, la sentenza non lo dice, va ora attribuito (come previsto dalla c.d. legge Cirinnà) anche in caso di scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Lo spauracchio del pagamento dell’assegno, un onere gravoso che perdura normalmente a tempo indeterminato, è probabilmente tra le ragioni del calo dei matrimoni e, forse, anche dello scarso numero delle unioni civili tra le persone same sex stipulate fino ad oggi, dopo tanto clamore “mediatico”.

La Suprema Corte si diffonde in affermazioni nobili e condivisibili: ognuno deve provvedere alla propria autosufficienza economica e il matrimonio non deve essere inteso come una sistemazione (come rivela la parola “accasarsi”).

Ci avverte anche che divorziare è un’espressione di libertà, da rispettare pur se non si è d’accordo: il messaggio del Supremo Collegio, in sostanza, è “l’amour dure trois ans, quindi pensateci prima”.

Da tempo peraltro, la Cassazione andava ripetendo che la decisione unilaterale di non tollerare più la convivenza, causa giustificatrice di separazione e divorzio, è ineluttabile e di fatto sottratta al sindacato da parte del giudice. Che all’altra/o non è dato opporsi, che l’intollerabilità non può essere esclusa neppure se uno dei coniugi assume un atteggiamento di accettazione e disponibilità.

Per finire – afferma quest’ultima decisione –  se si gode di immobili, stipendio e altri cespiti o se si è in grado di procurarseli (nella pratica evento di realizzazione non sempre agevole) non si ha diritto a pretendere dal marito (spiace dirlo, ma sempre di marito si tratta) somme che consentano di “mantenere il tenore di vita di cui si godeva in costanza di matrimonio”.

Peraltro, nella realtà era già così, a parte i primi anni susseguenti all’oramai lontano 1970 (anno di entrata in vigore della legge sullo scioglimento del matrimonio). E che fosse già così, ognuno di noi lo sa, in base a esperienze personali e altrui. Certo fanno eccezione i casi da rotocalco, i divorzi dei Vip che fanno la gioia dei famosi avvocati “matrimonialisti”: Silvio e Veronica, Gigi Buffon e Alena ecc., quando la moglie abbandonata chiede di continuare a godere delle smisurate ricchezza cui era avvezza. Anche la vicenda cui si riferisce la decisione attuale sembra riguardare, si deduce dalla lettura, persone assai facoltose

Nella realtà – anche questa è esperienza comune – a seguito del divorzio il tenore di vita di entrambi si abbassa spesso a livelli penosi e certo non v’è spazio per pretese di mantenere il livello precedente. Molti tornano a vivere nella casa dei genitori – ci informano anche le statistiche –  molti vanno ad aggiungersi alla categoria dei “nuovi poveri”. Gli entusiasmi nei confronti di questa sentenza definita “rivoluzionaria” sembrano quindi eccessivi.

 

* Professore onorario dell’Università di Ferrara

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