“Spogliare” i migranti. I divieti contro kirpan, burqa, hijab, come eredità coloniale europea

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di Ilenia Ruggiu

C’è sempre da preoccuparsi quando il diritto mette le mani sui vestiti delle persone. La loro vicinanza al corpo farebbe pensare che quella di vestirci come più ci aggrada sia una libertà consolidata. Sentori di stato etico e paternalista indignerebbero qualsiasi italiano a cui la legge suggerisse che accessori indossare e la lunghezza dei suoi vestiti. E, invece, ecco che una sempre più nutrita giurisprudenza e normativa si interessa dei vestiti degli immigrati bilanciandoli con diritti e principi fondamentali quali la parità di genere, la laicità, il vivere insieme, la sicurezza, addirittura l’intero assetto dei valori occidentali.

Mi riferisco, come i lettori hanno già intuito, ad un ciclo di sentenze e legislazione che dall’Italia (Corte di Cassazione I sez. pen. 24084/2017 sul kirpan) al Lussemburgo (Corte di Giustizia UE, sez. Grande, sentenza 14/03/2017 n° C-157/15 sul velo islamico nei luoghi di lavoro), dalla Francia (legge no. 2010‑1192, del 11/10/2010 che vieta di nascondere il volto nei luoghi pubblici) a Strasburgo (Corte EDU, Grande Camera, S.A.S vs France, 1 luglio 2014 sul burqa) hanno proibito ai Sikh di indossare il kirpan, alle donne musulmane di recarsi a lavoro o a scuola con il velo o in qualsiasi luogo pubblico con il burqa. Mi riferisco anche a recenti interpretazioni letterali, prive di qualsiasi lettura evolutiva, di norme quali l’art. 129 del codice di procedura civile (Chi interviene o assiste all’udienza non può portare armi o bastoni e deve stare a capo scoperto e in silenzio) che ha portato un giudice del TAR di Bologna ad espellere un’avvocatessa mussulmana dall’aula nel gennaio 2018.

Le critiche a tali decisioni sono state tante. In questo intervento vorrei aggiungerne una che mi pare non sia emersa ancora con forza nel dibattito. Proverò a ragionare sull’ipotesi che questo diffuso atteggiamento proibitivo nei confronti di alcuni elementi dell’abbigliamento degli stranieri sia il frutto dell’eredità coloniale con cui l’Europa non ha ancora completamente chiuso i conti. Mi avvarrò, a sostegno di questa lettura, delle storiche, intramontate pagine di Frantz Fanon (A Dying colonialism, New York: Monthly Review Press 1965) e Pierre Bourdieu (“Guerre et mutation sociale en Algèrie”, Etudes Meditèrranèenes no. 7, 27 ss. 1960) sul colonialismo francese in Algeria. Analizzando le ragioni sottese alla battaglia culturale che l’amministrazione francese andava compiendo per “liberare” le donne algerine dal velo, dalla segregazione domestica e dal patriarcato, i due autori scrivevano:

“l’amministrazione coloniale si impegnò solennemente a difendere questa donna, descritta come umiliata, sequestrate, reclusa. Descrisse le immense potenzialità della donna, sfortunatamente trasformata dall’uomo algerino in un oggetto inerte, demonetizzato e disumanizzato… Nel programma colonialista, alla donna era stata affidata la missione storica di scuotere l’uomo algerino. Convertire la donna, convertirla ai valori stranieri, liberarla dal suo status, sarebbe stato nel contempo il modo per acquisire un potere reale sull’uomo algerino e ottenere l’effetto pratico di destrutturare la cultura algerina.” (Fanon 1965: 36-37);

“Ogni nuova donna senza velo, annunciava all’occupante una società algerina i cui sistemi di difesa stavano cedendo, aperta e penetrabile. Ogni velo che cadeva… ogni volto che si offriva allo sguardo sfrontato e impaziente dell’occupante, era una espressione del fatto che l’Algeria stava iniziando a negare sé stessa e stava accettando lo stupro del colonizzatore” (Fanon 1965: 38);

il velo è “ soprattutto, una difesa dell’intimità e una protezione contro l’intrusione… Indossando il velo, la donna algerina crea una situazione di non-reciprocità; come un giocatore sleale, lei guarda senza essere vista, senza permettere agli altri di vederla, ed è l’intera società dominate che, attraverso il velo, penetra (il dominatore) senza permettere a questi di vederla e penetrarla” (Bourdieu 1960: 27).

“Penetrare”, “strappare”, “negare”, “denudare”, “spogliare”, “civilizzare”. Vista nel suo complesso la recente giurisprudenza e legislazione citata fa proprio questo all’immigrato. Lo rende letteralmente più nudo e spoglio, perché rimuove parti del suo abbigliamento, e lo rende di fatto meno diverso, quindi più vicino al vestire che è civile, condiviso, occidentale, europeo. Due tipici obiettivi che la mentalità coloniale cerca di perseguire.

Un Sikh senza il suo kirpan che lo protegge dal male – e fra un po’ magari arriverà il tempo di far rimuovere il turbante e la tunica – si sente un po’ più svestito, un po’ più vulnerabile, un po’ meno Sikh. Un po’ come un uomo occidentale che si ritrova ad un convegno accademico in pantaloncini, senza giacca e cravatta: un modo di stare nello spazio inadeguato, non consono a ciò che si è. Una donna mussulmana senza velo è come una donna italiana costretta a stare in pubblico in reggiseno: scoperta, vulnerabile, totalmente a  disagio.

Basterebbero questi “equivalenti culturali” ricavabili da una semplice traduzione interculturale, per far riflettere sulla facilità di accomodare questi simboli così contestati e che tanto infiammano il dibattito pubblico.

Questa azione di rimuovere, togliere, spogliare è del tutto sproporzionata e innecessaria e, con tutti i problemi che l’immigrazione presenta, se ne parla troppo per non far pensare che celi un bisogno inconscio: omologare, livellare, controllare il migrante. Traccia, come dicevo, di una mentalità coloniale ancora in atto o, in un’interpretazione in bonam partem, traccia di un bisogno di rimozione del passato coloniale. Infatti, rendere il migrante più simile a noi è anche un modo per nasconderlo, visto che di quel colonialismo il migrante è in qualche modo un ricordo. Come una persona scomoda del nostro passato che viene a trovarci a casa dopo molti anni, mettendo in imbarazzo la nostra attuale esistenza.

Continuiamo a chiamarli “migranti economici”, a paragonarli ai nostri giovani che abbandonano l’Italia per cercare fortuna e riconoscimento altrove. Ma la situazione non è esattamente la stessa. Moltissimi migranti sia dall’Asia che dall’Africa dovrebbero essere più appropriatamente definiti “migranti coloniali”.

La prima causa delle migrazioni attuali è, infatti, proprio il colonialismo nella sua versione passata che ha lasciato la politica, la cultura e l’economia delle ex colonie gravemente compromesse, ma anche e, soprattutto, nella sua versione di neo-colonialismo all’interno del nuovo ordine mondiale liberale e globalizzato. Basti un esempio: le persone – da 25 milioni a un miliardo, secondo stime dell’OIM – che nel 2050 saranno costrette a migrare per cause climatiche, si trovano quasi tutti nel Sud globale, laddove è il Nord industrializzato il principale artefice del cambiamento climatico. Da sole, le quaranta grandi dighe che si stanno costruendo a livello mondiale determineranno milioni di sfollati. La bassa Valle dell’Omo, in Etiopia, dove anche ditte italiane partecipano alla costruzione di una grande diga idroelettrica, è oggi culla di civiltà primitive che verranno “villaggizzate” in paesi artificialmente creati per dar rifugio alle persone delle aree che verranno inondate. L’intero ecosistema del fiume e delle popolazioni che abitano le sue sponde verrà alterato. Forse nel 2050 anche qualche componente dei Koro, dei Kewgu, dei Mursi, dei Bodi, dei Suri attraverserà il Mediterraneo e vorrà vestirsi con i suoi segni culturali, ultime vestigia di un passato non più ricostruibile.

Le responsabilità storiche e contemporanee degli Stati europei richiederebbero ben maggiore delicatezza nell’affrontare la questione della diversità culturale che irrompe nelle società europee: prima le potenze coloniali europee, passate e presenti, creano le condizioni per cui le persone devono lasciare il proprio paese e poi le umiliamo ulteriormente non riconoscendo loro non dico i più elementari diritti culturali, ma i più elementari diritti costituzionali.

Se non permettiamo il kirpan e il velo, il de profundis del multiculturalismo è segnato. Non sono simboli difficili da accomodare. La giurisprudenza di merito sul kirpan stava inizialmente assolvendo e riconoscendo il giustificato motivo con sentenze egregiamente motivate anche grazie all’immissione nel processo di accurate perizie culturali da parte degli avvocati, provenienti direttamente dall’India, tramite Consolati e Ambasciate (v. Tribunale penale di Cremona, 19 febbraio 2009, n. 15). A nessun giudice verrebbe in mente di far togliere il copricapo ad una suora cattolica. E allora, forse, i valori della nostra convivenza, sono in gioco non perché sfidati dai migranti che vogliono indossare un coltello rituale o un velo, ma perché noi stessi li stiamo dimenticando.

Così come li dimenticammo durante il colonialismo.

 

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2 commenti su ““Spogliare” i migranti. I divieti contro kirpan, burqa, hijab, come eredità coloniale europea”

  1. Smettetela di parlare per gli italiani! La cultura oppressiva mussulmana non ci appartiene! Ma l’autore che ha scritto questo articolo crede veramente in ciò che dice? Smettiamola di negare le nostre origini facendolo passare per tolleranza! Ipocriti a convenienza economica! State svendendo l’Italia! Provate a mettere il velo integrale alle vostre mogli o ragazze….chiedete loro se lo ritengono un gesto di rispetto!

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    • Insultare e imprecare è senza dubbio più facile che ragionare. Informarsi poi è faticoso e rischia di incrinare le nostre granitiche certezze. Va però ricordato che la religione mussulmana non è affatto quella prevalente tra i nostri immigrati (è di gran lunga maggioritaria la religione ortodossa) e che burqa, veli ecc. non sono affatto prescritti da Maometto o dal Corano, ma sono usi locali (talvolta anche in comunità non mussulmane), e comunque non sono affatto costumi prevalenti tra i nostri immigrati di religione islamica. Quanto poi alle nostre origini, vogliamo dimenticare i fasti della nostra religione (ormai non più “di Stato”), i Giordano Bruno, eretici e streghe perseguitati dal Santo Uffizio, l’esclusione delle donne dal sacerdozio, le suore di clausura oppure la vergognosa timidezza dell’italica gente di fronte alle leggi razziali? Non mi piace il burqa, ma non mi piacciono neppure la gente coperta da tatuaggi, le signore botulinizzate, le scosciate che sbraitano in TV, le suore velate e le processioni dei flagellanti (l’elenco potrebbe continuare per molto). Certo non credo di condividere con loro radici o origini, ma mi tocca tollerarli.
      Quanto poi a “ipocriti a convenienza economica”, non so a cosa si riferisca. Come può vedere questo giornale non ha un filo di pubblicità, non è sovvenzionato da nessuno ma frutto del lavoro gratuito e volontario di persone che vorrebbero immettere nel dibattito rissoso italiano qualche ragionamento e qualche informazione. E sono disposte persino a pubblicare commenti come il suo e a rispondere. Firmandosi. Roberto Bin

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