di Giovanni Di Cosimo
All’indomani delle elezioni del marzo scorso, non era affatto scontato che si trovasse una maggioranza disposta a sostenere il Governo. E invece sta per nascere il Governo Conte. Salvo sorprese dell’ultima ora, dovrebbe essere scongiurato lo scenario più catastrofico, quello dello scioglimento anticipato delle Camere a legislatura appena cominciata.
Allo stato delle cose, l’aspetto più innovativo di questo faticoso parto è il metodo. I due partiti della nuova maggioranza hanno invertito la sequenza finora costantemente sperimentata nella storia della Repubblica: piuttosto che accordarsi su un nome di un candidato alla Presidenza del Consiglio che, dopo l’incarico da parte del capo dello Stato, avvia i contatti con le forze politiche allo scopo di definire il programma, hanno iniziato dal programma (che loro chiamano “contrattato per il governo del cambiamento”), e poi hanno cercato un nome finendo con l’individuare una figura tecnica. Prendendo atto dell’inversione, il prof. Conte ha dichiarato che la nuova “esperienza di governo” si fonda sul succitato ‘contratto’.
L’inversione della sequenza tradizionale potrebbe però indebolire la figura del Presidente del Consiglio. Secondo l’art. 95 della Costituzione “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”, ma se si trova il programma già bello e pronto rischia piuttosto di essere un esecutore della volontà dei partiti. L’interessato ha dichiarato di aver contribuito alla definizione del ‘contratto’, ma sembra chiaro che l’opinione che conta davvero è quella dei politici che si sono seduti al tavolo della trattativa.
Naturalmente, strada facendo Conte ben potrebbe acquistare autorevolezza e diventare la vera guida della coalizione. Un primo importante banco di prova dell’autonomia dell’incaricato sarà la scelta dei ministri, posto che i due capipartito hanno “delineato politicamente la squadra” (parole dell’on. Di Maio). Pare significativo che anche il Quirinale abbia ritenuto di difendere l’autonomia del Presidente incaricato rispetto ai diktat nella scelta dei ministri. In realtà Mattarella pare preoccupato anche per le prerogative della stessa Presidenza della Repubblica che il metodo prescelto relega inevitabilmente a un ruolo soltanto notarile.
A fronte del possibile indebolimento dei due presidenti sul lato istituzionale, sta il protagonismo dei due partiti sul lato politico. Dopo molte oscillazioni e incertezze, i due leader hanno portato le proprie truppe a convergere disciplinatamente su un accordo che solo qualche settimana fa sembrava assai improbabile. Il ricorso alle rispettive basi, con gli strumenti della piattaforma e del voto nei gazebo, ha fatto il resto. Un punto del ‘contratto’ suona come una conferma della riconquistata centralità partitica. È l’idea di togliere il divieto di vincolo di mandato per i parlamentari. La preoccupazione di combattere il fenomeno della mobilità parlamentare è giusta; basta pensare che nella XVII legislatura hanno cambiato gruppo 207 deputati e 140 senatori. Ma la medicina pare peggiore del male perché asservirebbe i parlamentari alla volontà dei capipartito. E abbiamo già visto come è andata con misure, come la lista chiusa della legge Calderoli, che fidelizzano gli eletti (non agli elettori) ma ai capipartito.
Analisi ineccepibile! Aggiungerei che il ruolo “solo notarile” del P/R sarebbe un segnale positivo della coesione di quello che all’inizio sembrava una maggioranza impossibile. Anche il ruolo del P/C come mero “esecutore” della volontà della maggioranza parlamentare non è un problema perché corrisponde esattamente alla funzione istituzionale ; il P/C non determina, inventa, l’indirizzo politico, ma assicura l’unità dell’azione di governo (art. 95, 1). Nella realtà la funzione di primus inter pares in un collegio strutturato, gerarchico, diviso per competenze, cioè l’opposto di un’assemblea parlamentare, dà un forte vantaggio al P/C per influenzare l’agenda, anche se, come ora, non sarà anche capo della principale forza di maggioranza. Poco inciderebbe in questo contesto la differenza fra partito e gruppo parlamentare, se non fosse stata prevista l’approvazione del programma di governo dagli iscritti dei partiti “vincitori”; tale procedura istituzionalmente irrilevante segnala solo la debolezza dei gruppi dirigenziali e, semmai in un’ottica più inquietante, la subordinazione degli eletti a chi dirige il partito, anche da fuori dal parlamento; questo rapporto di fatto sbilanciato, che subordina il potere legale al potere di fatto, è basato sullo stratagemma della liste bloccate e su altri patti e impegni ancora più dubbiosi. In ultima analisi il potere di veto e di condizionamento della nomina di singoli ministri è un “soft power” (all’occorrenza molto benefico) del P/R; in caso di muro contro muro prevarrebbe (o dovrebbe prevalere) la scelta della maggioranza parlamentare; un conflitto formale potrebbe essere risolto unicamente attraverso il ricorso estremo all’art. 90 che garantisce la maggioranza assoluta del Parlamento di poter imporre la propria scelta.