Abrogare la legge per accordo sindacale? L’eliminazione della “chiamata diretta” dei presidi

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di Alessandro Lauro

È sotto gli occhi di tutti come la disciplina dell’istruzione diventi bersaglio delle attenzioni riformatrici di ogni governo in carica.

Per restare nell’ultimo ventennio, possiamo ricordare la legge Berlinguer (legge n. 30/2000), la riforma Moratti (legge n. 53/3003), le riforme Gelmini (attuate con vari atti legislativi, in particolare la legge n.133/2008, la successiva n.169/2008 ed ancora la n. 1/2009). Anche il tormentato e fugace governo Prodi- bis volle lasciare traccia del suo passaggio nel sistema scolastico: lo fece con alcuni commi (622 e seguenti) della legge finanziaria monstre del 2007 (formata da un unico articolo di 1364 commi e figlio di un maxiemendamento approvato con fiducia) che rimandavano a vari regolamenti ministeriali ex art. 17, comma 3 della legge 400/1988.

Di recente anche l’attuale Governo ha avuto modo di intervenire. E però l’ha fatto in maniera alquanto singolare.

Il 26 giugno 2018, infatti, è stato firmato un accordo fra il MIUR e le parti sindacali; in seguito all’avvenuta firma, così si esprimeva il Ministro della Pubblica istruzione Bussetti, con dichiarazione pubblicata sul sito del Ministero: “Con l’accordo sindacale, siglato oggi presso gli Uffici del MIUR, già dal prossimo anno scolastico si elimina, così come preannunciato in questi giorni, l’istituto della cosiddetta chiamata diretta dei docenti. In attesa dell’intervento legislativo di definitiva abrogazione, che è mia intenzione proporre nel primo provvedimento utile, con l’accordo sindacale di oggi si dà attuazione a una precisa previsione del contratto del governo del cambiamento, sostituendo la chiamata diretta, connotata da eccessiva discrezionalità e da profili di inefficienza, con criteri trasparenti e obiettivi di mobilità ed assegnazione dei docenti dagli uffici territoriali agli istituti scolastici.

Vale la pena ricostruire il quadro normativo in cui questa vicenda è maturata.

Come è noto, una delle “grandi riforme” volute dal governo Renzi è stata la legge 107/2015 (approvata con maxiemendamento e questione di fiducia, dunque formata da un articolo e “solo” 212 commi: una tecnica legislativa alquanto censurabile, anche solo per la difficile leggibilità del testo normativo, che di certo non facilita il rispetto delle previsioni in esso contenute), comunemente conosciuta con il nome di battesimo datale dall’allora Presidente del Consiglio, ovvero “Buona scuola”.

Di questa ci interessano due istituti in particolare.

Il primo è il sistema degli “ambiti territoriali” (comma 66), vale a dire le circoscrizioni in cui venivano suddivisi i territori provinciali e che avrebbero dovuto essere il livello territoriale di riferimento su cui gestire il ruolo del personale docente.

La seconda è la cosiddetta “chiamata diretta” (prevista al comma 79), la quale presuppone che i dirigenti valutino i curricula dei docenti assegnati agli ambiti territoriali e dunque chiamino nella loro scuola, per un periodo di tre anni, gli insegnanti, in base a criteri definiti dal Collegio Docenti di ciascun istituto. In caso di docenti non chiamati (o di criteri non definiti) l’ufficio scolastico territoriale (UST) si sarebbe occupato dei restanti trasferimenti.

Queste due novità avevano destato a loro tempo le ire dei sindacati.

Da un lato, gli ambiti territoriali potevano comportare che uno stesso docente fosse assegnato a scuole assai distanti fra loro; dall’altro la chiamata diretta avrebbe concesso un’eccessiva discrezionalità al dirigente scolastico, aprendo a logiche clientelari tutt’altro che ispirate al merito. Merito che, nelle affermate intenzioni del legislatore, sarebbe invece stato valorizzato dalla previsione in questione.

Ora, questi due grandi pilastri della riforma Giannini sono stati intaccati da due accordi fra Ministero e sindacati.

Il primo risale al 30 dicembre 2016 (quando al governo Renzi era da poco succeduto il governo Gentiloni, con conseguente “staffetta” fra Stefania Gianni e Valeria Fedeli al dicastero dell’istruzione): con tale accordo – valevole per l’anno scolastico 2017/2018 – sostanzialmente si “aggiravano” gli ambiti territoriali in fase di mobilità del personale docente, confermando la possibilità per l’interessato di esprimere un certo numero di preferenze a prescindere, appunto, dagli ambiti… e dunque lasciando tutto sostanzialmente invariato.

Poco tempo fa è arrivato invece l’accordo sulla chiamata diretta – questo limitato all’anno scolastico 2018/2019, come conferma la nota ministeriale 29748 del 27 giugno 2018 – che, inserendosi in sostanziale continuità con l’accordo precedente, incide sul potere dirigenziale di chiamare i docenti, vanificandone i presupposti e lasciando nelle mani dell’UST la gestione dei trasferimenti.

Da un punto di vista strettamente giuridico i due accordi assumono le vesti di Contratti Collettivi Nazionali Integrativi ex art. 40 del d.lgs. 165/2001 (anche “Testo unico sul pubblico impiego”).

Lasciando da parte qualunque valutazione nel merito, della validità di questi accordi è lecito dubitare.

Anzitutto la stessa legge 107, al comma 196, stabilisce che “sono inefficaci le norme e le procedure  contenute  nei contratti collettivi, contrastanti con quanto previsto dalla presente legge” (e la legge fissava l’inizio del nuovo regime con l’anno scolastico 2016/2017).

Conseguentemente non si può sostenere la compatibilità di tali accordi con il Testo unico precitato, che in materia di mobilità ammette la contrattazione collettiva “nei limiti previsti dalle norme di legge”, sicché non può operare l’art. 2, comma 2 dello stesso T.U. che effettivamente consente – proprio attraverso la contrattazione collettiva –  una sorta di abrogazione (o meglio una non applicabilità pro futuro) di norme legislative non imperative (e quindi derogabili).

E allora possiamo dire di trovarci davanti ad un “pasticcio” normativo, con una legge (peraltro successiva al testo unico, quindi perfettamente in grado di derogarlo) che impone imperativamente determinate procedure, precludendole al raccordo contrattuale con i sindacati, e con vertici ministeriali che sembrano ben inclini a svuotare la legge dal basso della gerarchia delle fonti del diritto.

Ciò però non è compatibile con uno dei principi fondanti di ogni ordinamento giuridico moderno, ovvero il principio di “preferenza della legge”, in base al quale un atto legislativo non può essere derogato da un atto normativo inferiore. E ciò nemmeno se il ministro competente è d’accordo, se i sindacati lo appoggiano e neppure se tale intervento rientra in un accordo politico sanzionato dal voto di fiducia delle Camere (il riferimento è ovviamente al più celebre “Contratto per il governo del cambiamento”).

Certo, anche la “Buona scuola” dovrebbe indurre ad attente riflessioni circa l’attuale e non buono “stato di salute” della legge, che sembra quasi ridursi a mero e tendenziale auspicio della contingente maggioranza parlamentare.

Nel nostro caso, siamo di fronte ad una legge fortemente voluta dal governo dell’epoca e dalla sua maggioranza, tanto che si è ricorsi ad un voto fiduciario per approvarla più rapidamente e per evitare defezioni politiche; una legge tanto voluta che si è persino premurata di sanzionare con l’inefficacia eventuali disposizioni della contrattazione collettiva in contrasto con essa, salvo poi essere smentita dal successivo governo, pur espressione della stessa maggioranza che l’aveva approvata, ed essere poi dichiarata parzialmente “abrogata” per contratto dall’ulteriore governo entrato in carica, questa volta di segno politico opposto al precedente. E tutto ciò è avvenuto (evidentemente) senza che l’Amministrazione ministeriale battesse ciglio.

Ci sarebbe da chiedersi perché – una volta tanto in cui avrebbe potuto essere opportuno –  non si è ricorsi ad un decreto legge ad hoc o ad una apposta norma nel cosiddetto “Decreto dignità”, nonostante il Ministro Bussetti avesse evocato “il primo provvedimento utile”.

Insomma, resta da vedere se e come anche questo Governo vorrà incidere sul sistema dell’istruzione italiana. L’eventuale riforma complessiva dovrebbe comunque avvenire con legge ordinaria, auspicabilmente maturata nel confronto con le istanze provenienti dal mondo delle scuola.

Per il momento, pare che lo strumento normativo scelto non sia quello corretto.

 

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