Il “caso Diciotti” e la “prova di forza” con l’Ue: fare i conti con la legalità

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di Francesca Bailo

Il “caso Diciotti”, dopo le vicende già note di Pozzallo, Trapani e della nave “Aquarius”, riporta prepotentemente l’attenzione sull’emergenza dei flussi migratori e sul ruolo dell’Unione europea e degli Stati membri nel far sì che siano rispettati i diritti fondamentali e inviolabili – e, tra questi, in primis, la dignità – di ogni individuo.

Eppure, in un tale clima di tensione, da un lato, si intravede una politica “giustizialista” messa in campo dalla compagine dell’esecutivo che, sfiorando una crisi di governo a colpi di tweet, minaccia il mancato versamento dei contributi dovuti dall’Italia al bilancio dell’Unione europea per il 2019 nel caso in cui la stessa non provveda all’immediata redistribuzione tra gli Stati membri dei migranti bloccati nel porto di Catania. E, dall’altro lato, deve darsi atto del “nulla di fatto” in cui si è risolto il vertice informalmente convocato il 24 agosto a Bruxelles di tutta corsa dalla Commissione Ue tra gli ambasciatori e i funzionari degli Stati membri, su richiesta dell’Italia, e che, dunque, è stato interpretato dai più come un “no” abbastanza netto alle richieste avanzate dal nostro Paese.

Una situazione tanto delicata quanto, per così dire, “muscolare”, converrebbe, tuttavia, fosse analizzata a bocce ferme, attraverso la lente della legalità e, in specie, nel rispetto e nella puntuale applicazione dei principi costituzionali affermatisi nella nostra Costituzione, così come nelle altre Carte di natura sovranazionale e internazionale – quali, tra tutte, la Carta dell’UE e la Cedu – così come interpretati alla luce della giurisprudenza delle Corti che le presidiano.

In questa prospettiva, e nell’immediato, non si può, quindi, mancare di ricordare che già in più occasioni il nostro ordinamento è stato condannato dalla Corte Edu per la non corretta gestione dell’“emergenza sbarchi” nei porti siciliani.

In una prima occasione, oggetto di censura era stato l’aver ricondotto in Libia i migranti dapprima accolti in imbarcazioni della marina militare italiana. Vicenda che è stata giudicata all’unanimità da Strasburgo (Corte Edu, Grande Camera, sent. 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa c. Italia) contraria all’art. 3 Cedu e, in particolare, al principio di non refoulement, all’art. 4 del Protocollo 4 allegato alla Cedu, con cui si vietano i respingimenti collettivi, e, infine, all’art. 13 Cedu, per non essere i ricorrenti stati posti nelle condizioni di poter contestare dinanzi ad un’autorità competente la legittimità del respingimento cui erano sottoposti.

In una seconda e più recente circostanza, poi, i migranti giunti nelle coste siciliane, in un primo momento, erano stati portati in un Centro di soccorso e prima accoglienza e, dopo una rivolta e il successivo incendio scaturito nel Centro medesimo, erano stati ricollocati in tre navi rimaste attraccate alle coste italiane per diversi giorni, per poi essere riportati, a mezzo aereo, nel proprio paese di origine. Essendo conseguentemente stata adita la Corte Edu, la Grande Camera (sent. 15 dicembre 2016, Khlaifia e a. c. Italia), in parziale riforma della decisione emessa dalla II sez. (Corte Edu, sez. II, 1° settembre 2015), ha escluso che nel caso di specie vi fosse stata violazione dell’art. 3 Cedu, nella parte in cui si lamentavano le gravi condizioni in cui il trattenimento era stato operato, rifacendosi agli standard attraverso i quali, in forza di una consolidata giurisprudenza, il parametro convenzionale sarebbe dovuto essere valutato (e, in estrema sintesi, riportabili a: I) un livello minimo di gravità delle condizioni sopportate; II) la condizione di vulnerabilità della vittima; III) il sovraffollamento; IV) la durata del trattenimento V) l’assenza di violenze o maltrattamenti).

Analoga sorte è toccata pure alla doglianza relativa all’art. 4, del Protocollo 4 allegata alla Cedu, per aver la Corte ritenuto che nel caso di specie fosse stata data una reale possibilità di far valere argomenti atti ad escludere l’espulsione e che questi fossero stati esaminati in modo adeguato dalle autorità competenti.

Mentre, per quanto più ci interessa, e a integrale conferma della decisione di primo grado, è stata ritenuta sussistente la violazione dell’art. 5 Cedu, chiarendosi, tra l’altro, che, nella fattispecie, il trattenimento protratto per una dozzina di giorni prima nel Centro e, poi, nelle navi, era da considerarsi privo di alcuna base giuridica chiara ed accessibile. Non è, infatti, a tal fine stato ritenuto sufficiente quanto disposto dagli artt. 10 e 14 del T.U sull’immigrazione e, inoltre, si è aggiunto che, anzi, i ricorrenti erano stati privati delle garanzie previste dall’habeas corpus di cui all’art. 13 della nostra Costituzione e che, dunque, nessun provvedimento, giudiziario o ammnistrativo, avrebbe giustificato il loro trattenimento (v. spec. § 105 della citata sentenza). Ciò segnalando, ancora, che il sistema giuridico italiano non offriva ai ricorrenti un ricorso con il quale essi avrebbero potuto ottenere una decisione giurisdizionale sulla legittimità della loro privazione della libertà e per dispensare la Corte dal verificare se i ricorsi disponibili nel diritto italiano avrebbero potuto offrire agli interessati delle garanzie sufficienti ai fini dell’articolo 5 § 4 della Convenzione.

Se, dunque, al di là delle vie giudiziarie interne già avviate, si può pensare che detti precedenti potranno verosimilmente assumere una qualche valenza qualora anche per la vicenda odierna si vorrà nuovamente chiamare a decidere la Corte Edu, occorre, altresì, considerare come una buona parte del T.U. in materia di immigrazione sia stata a più riprese fatta oggetto di censure sia dalla Corte di Giustizia (potendosi al proposito richiamare, tra gli altri, i casi El Dridi e Sagor), sia dalla stessa Corte costituzionale. E, proprio quest’ultima, ha, ad esempio, ribadito (ex multis, cfr. Corte cost., sent. n. 249/2010 ) che i diritti inviolabili spettano “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, affermando che la condizione giuridica dello straniero “non dovesse essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi”.

Così, se un profondo ripensamento della normativa interna in materia sembra non più procrastinabile (nella speranza che il diritto penale sia ora impiegato limitatamente e solo “in via sussidiaria”), del pari, si auspica che venga fattivamente ed efficacemente adottata un’azione convergente e comune da parte delle istituzioni europee.

Su detto ultimo versante, occorre, peraltro, dare atto che, anche a motivo delle criticità riscontrate nell’applicazione del regolamento UE n. 604/2013 (c.d. “Regolamento di Dublino III”), sono state avanzate, da parte della Commissione Ue, sin dal 2014, proposte di modifica dello stesso e che, però, l’iter di approvazione del relativo testo normativo si trova, allo stato, in una fase di “stallo” anche per l’opposizione di quelle forze politiche, presenti, per vero, in diversi Stati membri, che prevedono, nei propri programmi di governo, misure atte al contrasto “tout court” del fenomeno migratorio.

Forse sarebbe, dunque, una buona occasione per riavviare fattivamente i lavori, senza più tirarsi indietro da questa che, come è stato efficacemente rilevato dal nostro Presidente della Repubblica, è una «sistematica violazione della dignità».

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