L’esclusione dal finanziamento pubblico dei partiti antisistema tedeschi: solo una questione di vil denaro?

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di Salvatore Curreri

Nell’ambito delle discipline legislative statali sui partiti politici, quella tedesca ha sempre rappresentato il polo della massima regolazione. Per evidenti ragioni storiche, legate alle modalità di affermazione del nazismo, la Legge Fondamentale tedesca contiene talune disposizioni che vietano ai nemici della democrazia di poter usare i diritti civili e politici per poterla abbattere. Ciò per evitare il ripetersi di quanto beffardamente evidenziato da Goebbels, alla vigilia del crollo della Repubblica di Weimar: “questo rimarrà sempre uno dei più grandi scherzi della democrazia, cioè di aver dato ai suoi nemici mortali gli strumenti con i quali essere distrutta”.

Al contrario della nostra, dunque, la Germania è una democrazia “protetta” perché i diritti non possono essere esercitati per finalità contrarie a Costituzione: “chiunque, per combattere l’ordinamento costituzionale democratico e liberale, abusa della libertà di espressione del pensiero, in particolare della libertà di stampa, della libertà di insegnamento, della libertà di riunione, della libertà di associazione, del segreto epistolare, postale e delle telecomunicazioni, del diritto di proprietà o del diritto di asilo perde questi diritti fondamentali” su decisione del Tribunale costituzionale federale (art. 18.1). Sempre tale Tribunale costituzionale può dichiarare incostituzionali i partiti politici che “per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti si prefiggono di attentare all’ordinamento costituzionale democratico e liberale, o di sovvertirlo, o di mettere in pericolo l’esistenza della Repubblica federale tedesca” (art. 21.2).

Fu in forza di quest’ultima disposizione che il Tribunale costituzionale federale dichiarò incostituzionali il neonazista Sozialistiche Reichspartei (23.10.1952) ed il Komunistische Partei Deutschlands (17.8.1956): due sentenze importanti anche per il sistema politico nel suo complesso perché la messa fuori legge delle sue due ali estreme contribuì non poco all’elasticità del bipolarismo imperfetto tedesco. Dopo l’incostituzionalità di tre partiti di estrema sinistra, dichiarata nel 1978, la giurisprudenza costituzionale ha però adottato criteri più restrittivi, richiedendo per lo scioglimento dei partiti anti-sistema anche il requisito della violenza. Anche per questo motivo, da allora nessun partito politico tedesco è stato messo fuori legge, nonostante se ne fosse presentata l’occasione (nel 1994 non fu dichiarato incostituzionale il Partito dei lavoratori tedeschi, benché chiaramente neonazista), mentre invece tale sorte hanno subito alcune associazioni integraliste islamiche (v. Corte federale amministrativa, sentenza del 27.11.2002; Tribunale costituzione federale, ordinanza 2.10.2003).

Piuttosto sembrava destinato ad essere dichiarato incostituzionale il Partito nazionale tedesco (Nationaldemokratischepartei deutschland – NPD), formazione di estrema destra, per il carattere antidemocratico, antisemita e razzista delle sue finalità, manifestazioni politiche e azioni, anche violente, dei suoi iscritti. Dopo, però un lungo iter – tra l’altro dovuto ricominciare per una grave irregolarità procedurale nella raccolta delle prove – il Tribunale costituzionale federale, con sentenza del 17 gennaio 2017, ha stabilito all’unanimità che l’NPD “non rappresenta una vera minaccia all’ordine democratico”. Come dichiarato dal suo Presidente Vosskuhle, non c’era dubbio che tale partito perseguisse obiettivi contrari alla Costituzione, ma mancavano indizi che lasciassero sembrare possibile il successo della sua azione politica (nel settembre 2016 aveva perso l’ultimo seggio regionale che aveva nel Meclemburgo-Pomerania anteriore mentre nelle recenti elezioni politiche del 24 settembre 2017 ha ottenuto appena lo 0,4% dei voti nel proporzionale).

Tale sentenza è stata criticata da quanti hanno rilevato il contrasto tra la natura preventiva del giudizio di costituzionalità, che presuppone un controllo astratto sulla finalità del partito, e l’averlo subordinato ad un requisito concreto (l’aver il partito raggiunto una consistente forza organizzativa e elettorale) non previsto dalla Costituzione, dando così vita alla inedita figura giuridica del partito antidemocratico ma non per questo incostituzionale. Peraltro l’introduzione di un simile requisito rende oggettivamente difficoltoso l’intervento del Tribunale costituzionale perché, per dirla con Duverger, sciogliere un partito piccolo può sembrare inutile perché incapace di nuocere, mentre farlo quando è grande è praticamente impossibile.

Nella stessa sentenza, però, il Tribunale costituzionale aveva implicitamente suggerito al legislatore la possibilità di una modifica costituzionale che vietasse il finanziamento pubblico ai partiti antidemocratici, anche se non dichiarati incostituzionali. Tale suggerimento è stato prontamente accolto sicché il 7 luglio 2017, dopo appena quasi sei mesi, è stata approvata ad ampia maggioranza una revisione costituzionale che aggiunge due nuovi commi – il terzo ed il quarto – al citato art. 21 L.F. In base a tale nuova disciplina, ribattezzata “piccolo divieto”, il Tribunale costituzionale federale può escludere dal finanziamento pubblico e da benefici fiscali e donazioni quei partiti che, ancorché non dichiarati incostituzionali, comunque “per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti, si prefiggono di attentare all’ordinamento costituzionale democratico e liberale, o di sovvertirlo, o di mettere in pericolo l’esistenza della Repubblica federale di Germania sono esclusi dal finanziamento statale”. Infine, poco dopo, il 29 luglio 2017, secondo quanto previsto dal quinto comma dell’art. 21 L.F. che attribuisce alle leggi federali il compito di attuare tale articolo, è entrata in vigore la Legge per l’esclusione dal finanziamento pubblico dei partiti contrari a Costituzione (PartFinÄndG) che ha modificato, tra l’altro, la Legge sul Tribunale costituzionale federale (BVerfGG) e la Legge sui Partiti politici (PartG). In base ad essa, su richiesta del Governo federale, del Bundestag o del Bundesrat (o dei governi regionali per i partiti di quell’ambito) il Tribunale costituzionale può escludere dal finanziamento pubblico per sei anni i partiti da essa dichiarati antidemocratici ma non incostituzionali.

Tale legge costituisce solo l’ultimo esempio di una tendenza diffusa che mira ad utilizzare la leva del finanziamento pubblico per incentivare i partiti, senza obbligarli, a taluni comportamenti virtuosi. Nel nostro ordinamento, ad esempio, per accedere al finanziamento pubblico indiretto, e cioè al meccanismo del due per mille e alla contribuzione volontaria fiscalmente agevolata, i partiti devono dotarsi di uno statuto contenente taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori (art. 3.1 d.l. 149/2013); oppure devono candidare al Parlamento nazionale e europeo non più del 40% di uomini o donne (art. 9.2) e destinare almeno il 10% delle risorse ricevute ad iniziative volte ad “accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica” (art. 9.3).

In Germania invece tale leva si utilizza al contrario, togliendo risorse finanziarie ai partiti che, dopo non essere stati dichiarati incostituzionali solo a causa del loro modesto seguito elettorale, perseverano nella loro natura antidemocratica. L’obiettivo è quello in tal modo di prosciugare le risorse di tali partiti in misura tale (sei anni) da penalizzarli sensibilmente rispetto agli altri, condannandoli di fatto all’estinzione. Proprio alla luce di tali conseguenze, la legge richiede che una simile decisione vada presa dai giudici costituzionali non, come di regola, a maggioranza semplice, ma con quella, ben più elevata, dei due terzi (di fatto, con il voto favorevole di sei giudici su otto).

Si tratta d’una soluzione, come detto, ispirata ad un sano pragmatismo che in certa misura cerca di rimediare a quell’ircocervo (tanto per utilizzare un’immagine ora di moda) rappresentato dal partito antidemocratico ma non incostituzionale. Eppure, è difficile sfuggire all’impressione che l’uso dello strumento dell’accesso al finanziamento pubblico, se può essere utile ai fini di una maggiore democrazia interna dei partiti, senza con ciò violarne l’autonomia organizzativa, dovrebbe essere escluso quando si tratti di far rispettare le finalità democratiche di un partito, giacché non pare proprio che esse possano essere, per così dire, banalmente mercificate nei confronti di partiti che, anzi, proprio dalla rinuncia al finanziamento pubblico possono trarre ulteriore motivo di rivendicazione della loro diversa identità. In Italia ne sappiamo qualcosa.

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