Alla fine è successo: la decisione fondamentale italiana per la gestione dei fondi pubblici è passata per il Parlamento giusto il tempo di ottenere una votazione, tanto surreale che è difficile persino definire ratifica (la ratifica presuppone la conoscenza di ciò che si accetta), quanto pesante, dato che comunque, dopo l’ultimo sì pronunciato alla Camera (presumibilmente il prossimo 28 dicembre), il testo di cui ancora non si conoscono tutti i dettagli diventerà legge dello Stato. Non mi soffermo sulla vicenda, già oggetto di diversi commenti, e passo direttamente ad alcune considerazioni sparse.
La prima è che sì, l’onda arriva da lontano. La sessione parlamentare di bilancio è stata minuziosamente smantellata anno per anno a partire almeno dalla XIV Legislatura (2001-2006), spostando sempre più in là – qualche volta di poco, qualche volta di molto – la soglia di tolleranza costituzionale e democratica. Il precedente più diretto (richiamato anche dal Presidente del Consiglio all’indomani del voto di fiducia al Senato) è la sessione di bilancio del 2016, letteralmente tagliata a metà dalla crisi di governo aperta all’esito del referendum costituzionale; ma non si sarebbe potuto raggiungere una tale aberrazione costituzionale in soli due anni, e infatti nel dibattito politico – strategicamente attutito dalle sedute notturne, oltre che dalle festività natalizie – si rincorrono le reciproche accuse “a chi ha fatto peggio”, tradizionale anticamera italiana all’oblio del problema.
La seconda considerazione è che le radici antiche non possono fare velo all’enormità della violazione che si è consumata nella notte tra il 22 e il 23 dicembre scorsi, quando il Senato, per la prima volta nella storia repubblicana, ha votato la fiducia su un testo che nessuno (nemmeno la Commissione Bilancio, bloccata dal Governo in attesa di fantomatiche “correzioni tecniche”) aveva visto, diverso da quello su cui si era inutilmente intrattenuta la Camera nei giorni precedenti, e sul quale la medesima Camera rivoterà la fiducia, salvo nuovi e imprevedibili colpi di scena. Raggiungendo così, detto per inciso, l’ulteriore record di un’Assemblea che in venti giorni vota la fiducia per due volte sulla stessa legge, ma in due versioni completamente diverse; certo, almeno al secondo giro i deputati avranno avuto qualche giorno per leggerla, volendo.
Vulnus, “mostruosità”, “aberrazione” sono solo alcune delle espressioni utilizzate per definire il risultato del delirio procedurale finora realizzatosi nel Parlamento, denunciato da molti eminenti giuristi, e non solo, anche da questo sito.
Ma – e arrivo alla terza considerazione – quel che ancora non sembra essere emerso completamente è il pericolo che questa lacerazione non si rimargini più, che le torsioni sinora impresse alla democrazia italiana, già piuttosto malconcia, si stabilizzino in una deformazione definitiva non solo delle procedure parlamentari, ma della stessa separazione dei poteri, e di tutto ciò che ne conseguirà a partire dalla prossima produzione normativa.
Perché non si tratta solo di un precedente parlamentare (verrebbe da dire: della summa di tutti i peggiori precedenti degli ultimi 20 anni), ma del tentativo sin qui riuscito, da parte di una maggioranza, di eliminare la discussione; e se questo tentativo riuscirà impunemente – senza altra reazione oltre agli strepiti mediatici dell’attuale minoranza, la cui credibilità è decisamente sminuita dall’essere l’artefice del percorso che in questa legislatura ha trovato il suo abnorme sbocco – è difficile immaginare che la classe politica italiana, spontaneamente, torni sui suoi passi.
Perciò – quarta e ultima considerazione – è ormai necessario un intervento esterno al Parlamento (anche in questa legislatura incapace di tutelare se stesso): un intervento tecnico, che passi sopra le (strumentali) posizioni politiche per recuperare il senso, oltre che della decenza, delle basi della legalità costituzionale. Da più parti si invoca il Presidente della Repubblica, che avrebbe il potere di rinvio ex art. 74 Cost.; ma mi pare francamente poco strategico addossare per intero una simile responsabilità, con il conseguente esercizio provvisorio, ad un organo monocratico, il cui potere è peraltro di veto sospensivo.
Sembra invece improcrastinabile, ormai, un intervento della Corte costituzionale, unica tecnicamente in condizione (perché costituzionalmente vocata al ruolo di “ultima fortezza”) di mettere un argine, o almeno un freno, alla tentazione della classe politica di approfittare dello scardinamento della separazione dei poteri che si sta consumando in questa fine d’anno.
A me continua a sembrare praticabile il conflitto di attribuzioni, sollevato da uno o più gruppi di minoranza – basta che rappresentino almeno la quota che l’art. 72, co. 4, Cost. richiede per il cd. ritorno al procedimento ordinario – contro la Presidenza di Assemblea, per violazione diretta dello stesso art. 72 della Costituzione. Questa soluzione supera le decisioni già più volte citate relative alla legittimazione del singolo parlamentare, perché un quinto dell’Assemblea o un decimo della Commissione sono sicuramente titolari di attribuzioni costituzionali, appunto ex art. 72, co. 4, Cost.; disinnesca una delle principali controindicazioni del giudizio di legittimità, cioè l’annullamento dell’atto per vizio formale (del resto, nessuno si aspetterebbe o auspicherebbe un annullamento del bilancio); non sembra infine precluso dall’ordinanza n. 149/2016 sul conflitto sollevato nel caso della cd. legge Cirinnà, che nulla dice circa il profilo soggettivo. Anzi, proprio da quell’ordinanza si potrebbe trarre spunto per argomentare anche il profilo oggettivo, dato che nel caso della sessione di bilancio per il 2019 non c’è proprio stato alcun esame, né della Commissione né tantomeno dell’Aula, in cui il voto è stato sulla fiducia e non sul testo.
Che si concordi o meno con questa tesi, è comunque cruciale alimentare il dibattito, cercando le soluzioni tecnicamente praticabili, con cui poi sollecitare la Corte; alla quale andrebbero anche offerti tutto il sostegno e la legittimazione possibili riguardo una scelta certo non facile, ma ormai disperatamente necessaria, quale sarebbe l’esordio del sindacato sul vizio formale, almeno in forma di monito perentorio.
Altrimenti, l’affermazione oggi famosa per cui “il bilancio è un bene pubblico” (C. cost., sent. n. 184/2016), dalla quale discendono corollari potenzialmente molto utili da diversi punti di vista (compresi i rapporti con le Regioni che, si ricordi, tutelano tra gli altri il diritto alla salute) rischia davvero di restare confinata alla sola carta. Insieme, purtroppo, alla legalità costituzionale italiana.