Il conflitto di attribuzioni è la risposta giusta, ma bisogna farlo bene

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di Roberto Bin

Conflitti costituzionali sono insorti in ogni fase della storia dei sistemi politico-costituzionali, ben prima che le costituzioni moderne avanzassero la pretesa di sottoporre al diritto anche il comportamento degli organi politici di vertice, trasformando così i conflitti politici in conflitti giuridici. Il conflitto di attribuzione tra gli organi costituzionali è lo strumento con cui la Costituzione affida ad un giudice – la Corte costituzionale – il compito di regolare i conflitti che sorgono tra gli organi costituzionali di vertice (per saperne di più rinvio alla voce dell’Enciclopedia Treccani); costituisce l’ultimo dei rimedi possibili per trattenere nel tessuto del diritto e nella disciplina costituzionale le controversie che possono mettere in crisi il delicato sistema di governo. «Baluardo della costituzione e dell’ordine democratico» lo definì il relatore alla Costituente on. Patricolo (Relazione alla Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione). Quindi è chiaro che non può essere uno strumento a cui appellarsi per tutti quegli episodi – e sono purtroppo tanti – in cui le forze di maggioranza hanno sforzato le regole e le procedure parlamentari. Tutte le forze politiche sono state colpevoli di queste forzature e, spesso, di veri e propri abusi (è dal 1996 che le leggi finanziarie vengono approvate con il “trucco” del maxi-emendamento, in cui è compresa l’intera legge di bilancio, che poi è assistito dal voto di fiducia, così da bloccare qualsiasi emendamento). Però c’è un limite oltre al quale non si può accettare che si vada, e questo limite è stato superato dalla procedura di votazione del bilancio 2019 in Senato, come hanno messo bene in luce i contributi di Bergonzini, Morelli, Curreri, Cavino e Di Cosimo in questo giornale.

Ci sarebbero ragioni sufficienti per un rifiuto da parte del Presidente della Repubblica di promulgare la legge, rinviandola alle Camere (vedi in particolare Cavino). Le conseguenze sarebbero però enormi, perché verrebbe esteso il conflitto costituzionale coinvolgendovi anche il Capo dello Stato; per non dire poi dello shock di iniziare l’anno senza un bilancio di previsione, lasciando i risparmiatori alla mercé dei mercati finanziari. È probabile perciò che Mattarella promulgherà la legge (quando finalmente verrà approvata), accompagnando però la firma con un messaggio di monito e – forse – persino di aperta censura. Di più non mi sembra che gli si possa chiedere né convenga augurarsi.

Resta però lo strumento del conflitto di attribuzione.

Suscita sorpresa la prudenza, se non lo scetticismo, con cui i costituzionalisti, anche in questo giornale, giudicano l’ipotesi del conflitto. De Siervo, per esempio, nell’intervista rilasciata a Repubblica, interrogato sulla possibilità che il PD sollevi conflitto, risponde «No, assolutamente. Anche se ci sono motivi gravi di allarme istituzionale, non è questa la via che può essere seguita». Non gli si può dare torto, un partito non è un «potere dello Stato». Ma questo significa soltanto che il conflitto va sollevato bene, non che non possa essere sollevato.

È vero che sinora la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i tentativi di promuovere conflitti contro gli abusi nelle procedure parlamentari. Ma sono stati conflitti molto mal formulati, perché promossi da singoli senatori (ord. 149/2016), da singoli parlamentari “anche a nome” del gruppo di appartenenza (ord. 280/2017) o da un partito (ord. 79/2006): tutti soggetti che non possono essere ritenuti “poteri dello Stato”, sono visibilmente inadeguati a ricorrere alla Corte, specie se poi non si è in grado di individuare con precisione di quale «attribuzione costituzionale» sarebbero titolari.

Questo è il punto. Se davvero si vuole sollevare il conflitto – è un se perché non mi è mai stato chiaro quanto fosse vera la volontà dei partiti di far intervenire il giudice costituzionale nelle vicende della politica, sempre tutelate da una certa omertà dei politici – bisogna sollevarlo bene, non al solo fine di pubblicare sui giornali la notizia che lo sdegno è tale da chiamare in causa la Corte costituzionale (mi ricorda un po’ la prassi di annunciare la querela contro i giornali che pubblicano notizie non gradite, a cui poi non segue nulla di fatto).

Per sollevare un conflitto ben formulato occorre precisare (a) quale sia il soggetto che agisce, (b) quale sia la sua attribuzione che si ritiene lesa, (c) quale sia l’organo che a cui si addebita la lesione, (d) quale l’atto lesivo e (e) che cosa si chiede alla Corte costituzionale.

Quanto al soggetto che agisce, posto che non può essere un partito, non resta che l’ipotesi del gruppo parlamentare. La giurisprudenza costituzionale ha sempre considerato i gruppi parlamentari un’istituzione di rilevo costituzionale: come più volte ha ripetuto, essi sono «il riflesso istituzionale del pluralismo politico» (sent. 298/2004, 1130/198849/1998, ma anche 337/2005). Del resto il ruolo dei gruppi è espressamente citato in Costituzione, agli art. 72.3 e 82.2. Naturalmente bisogna che vi sia una delibera formale del gruppo, come è indicato implicitamente nella già citata ord. 280/2017.

L’attribuzione lesa non è difficile da individuare. È il ruolo che i gruppi parlamentari e i loro aderenti svolgono nel dibattito parlamentare, sia in Commissione che in Aula. Vorrà pur dire qualcosa che l’art. 72.1 Cost. disponga che ogni disegno di legge debba essere «esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale», e che per di più vieti che la legge di bilancio sia approvata con procedimenti diversi da quello normale (art. 72.4). A che servirebbe garantire il ruolo dei gruppi nella formazione delle Commissioni se poi le Commissioni non sono messe nella condizione di esaminare il testo di legge che si sottopone all’approvazione del Senato? Naturalmente il ricorso dovrà essere molto attento a non limitarsi ad una denuncia generica della violazione delle procedure, ma molto preciso ad indicare gli episodi che hanno segnato la violazione delle prerogative dei gruppi e che non siano semplicemente violazioni di norme dei regolamenti interni del Senato (sul cui rispetto la Corte non vuole essere chiamata a giudicare). È il concetto di “esame” del disegno di legge che va approfondito, per trarne le necessarie implicazioni.

Chi ha leso le prerogative dei gruppi? Certamente il Governo, presentando in Aula un maxi-emendamento che riscrive il bilancio di previsione e bloccandone la discussione attraverso la posizione della questione di fiducia; e sicuramente il Presidente del Senato, che ha ammesso sia il maxi-emendamento sia la questione di fiducia, bloccando l’esame del maxi-emendamento in Commissione e in Aula.

Che cosa si chiede alla Corte? Non credo convenga chiedere l’annullamento dell’atto prodotto con la violazione delle procedure, cioè della legge di bilancio. Caricherebbe la Corte di una responsabilità assai grave, bloccando la gestione delle entrate e delle spese e facendo retroattivamente cadere tutti gli atti di esecuzione del bilancio nel frattempo prodotti. L’annullamento dell’atto prodotto da una serie di procedure viziate non è una conseguenza necessaria: l’art. 38 della legge 87/1953 dispone che decidendo il conflitto la Corte «dichiara il potere al quale spettano le attribuzioni in contestazione e, ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo annulla». Se gli atti che danno origine al conflitto sono attinenti alla presentazione del maxiemendamento e al voto di fiducia, quelli semmai andrebbero annullati: ma avrebbe senso chiederlo? Probabilmente l’eventuale annullamento non avrebbe neppure come conseguenza necessaria l’invalidità della legge di bilancio (ci sarebbe un «vizio di incompetenza»?): almeno non come conseguenza immediata dell’accoglimento del conflitto. Per cui prudenza e saggezza vorrebbero che i ricorrenti si limitassero a chiedere alla Corte di dichiarare “che non spetta” al Governo e al Presidente del Senato di procedere come hanno proceduto. Forse almeno servirebbe a sconsigliare di ripetere in futuro procedure così palesemente incostituzionali, e così fornire alle opposizioni future il precedente da invocare per bloccarle subito con un altro ricorso alla Corte.

La Corte costituzionale ha dato dimostrazione, nell’occasione dei giudizi sulle leggi elettorali, di grande preoccupazione per i mutamenti di fatto del sistema rappresentativo e delle «zone grigie» che in esso si celano, in cui è difficile garantire il rispetto delle regole costituzionali a cui la stessa Corte è preposta. Nelle procedure parlamentari di approvazione delle leggi – e di quelle a contenuto altamente politico, in particolare – le zone grigie si rivelano molto estese, anche perché la Corte si è sempre trattenuta in disparte. Ora però, davanti all’evidente e anche tracotante disprezzo delle garanzie più elementari del ruolo del Parlamento, anche l’atteggiamento della Corte dovrà cambiare.

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