La riduzione del numero dei parlamentari: non è tutto oro ciò che luccica…

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di Salvatore Curreri

In questi giorni la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati sta discutendo in prima lettura il progetto di revisione costituzionale (A.C. 1585), approvato dal Senato lo scorso 7 febbraio, che prevede la riduzione del numero dei parlamentari: 400 deputati al posto degli attuali 630 e 200 senatori anziché 315. A questi ultimi andrebbero aggiunti i cinque senatori a vita che viene ora precisato non potrebbero essere più di cinque in totale, codificando così una prassi costituzionale infranta solo sotto le presidenze Pertini e Cossiga. Verrebbe ridotto anche il numero dei parlamentari eletti all’estero: 8 deputati anziché 12; 4 senatori al posto degli attuali 6.

Inoltre, per rendere immediatamente applicativa la riforma costituzionale, il suo esame è unito a quello di disegno di legge ordinario (A.C. 1616) diretto ad assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali. A tal fine, infatti, il numero dei collegi uninominali, oggi direttamente fissato in 232 alla Camera e 116 al Senato, sarebbe fissato in proporzione (i tre ottavi del totale degli eletti, con un leggero aumento rispetto agli attuali tre noni). Resterebbero invariati invece i collegi plurinominali (63 alla Camera e 33 al Senato) in cui si aggiudicherebbero i restanti cinque ottavi degli eletti, ovviamente di numero inferiore agli attuali.

Infine, al riguardo merita di essere segnalato che il numero minimo di senatori eletti per ogni regione diminuirebbe da sette a tre, lasciando invariati i due eletti in Molise e l’unico della Valle d’Aosta. Tale numero minimo varrebbe ora anche per le province autonome di Trento e Bolzano, sicché il Trentino – Alto Adige vedrebbe ridotto il numero complessivo dei suoi senatori di una sola unità (da sette a sei).

Volendo svolgere qualche considerazione di merito, chi scrive è perfettamente consapevole del fatto che oggi come non mai criticare la riduzione del numero dei parlamentari è come offrire il petto al plotone d’esecuzione. Eppure, se l’obiettivo prevalente è la riduzione dei costi della politica, perché non tagliare le indennità parlamentari, anziché il loro numero? Basterebbe già porsi tale interrogativo per rendersi conto che quella che apparentemente può sembrare una mera questione di numeri e/o di costi sia invece destinata inevitabilmente a produrre effetti su diversi piani: politico, elettorale, parlamentare e ordinamentale. Effetti tutt’altro che marginali se poi la riduzione è così rilevante come quella proposta (meno 36,5% del totale dei parlamentari). Lo scrivo, allora, chiaramente: sono contrario non ad una riduzione del numero dei parlamentari ma a questa riduzione, che mi pare francamente eccessiva per i seguenti effetti negativi che in questa sede provo a sintetizzare:

  1. sul piano della rappresentanza politica, l’aumento del numero medio di abitanti per parlamentare eletto – da 96 a 151 mila alla Camera; da 188 a 302 mila al Senato – provoca un duplice effetto: a) indebolisce la rappresentanza politico-territoriale, aumentando il distacco tra elettori ed eletti e quindi rafforzando (per eterogenesi dei fini?), il divieto di vincolo di mandato; b) di contro, rafforza la rappresentanza partitica giacché meno saranno i parlamentari, più rigida sarà la disciplina di gruppo e di partito cui saranno sottoposti, rafforzando così il vincolo di mandato partitico;
  2. sul piano elettorale pare aritmeticamente evidente che la riduzione del numero dei parlamentari da eleggere nelle circoscrizioni e, quindi, nei collegi plurinominali, aumenterà il numero di voti necessari per conquistare il seggio (con presumibile aumento dei costi delle campagne elettorali), introducendo quindi una soglia di sbarramento implicita più elevata rispetto a quella oggi espressamente prevista del 3%, penalizzando quindi sensibilmente le forze politiche di minoranza;
  3. sul piano parlamentare, la riduzione del numero dei parlamentari comporterà ovviamente la corrispondente modifica (in senso proporzionale) di tutti quegli articoli che fanno riferimento ad un certo numero di deputati o senatori (come avvenuto nei consigli regionali). Il che però si scontra con la difficoltà di dover ulteriormente ridurre quorum numerici già bassi. Penso ad esempio ai tre deputati richiesti per essere autorizzati dal Presidente della Camera a costituire una componente politica nel gruppo misto (art. 14.5 R.C.): si dovrebbero ridurre a due? Oppure basterebbe un solo deputato, introducendo quell’ossimoro che sono i “gruppi monocellulari”? Inoltre, la distribuzione di un numero così ridotto di deputati e senatori tra le attuali 14 commissioni (a meno che si decidesse di accorparle: operazione certo non semplice e che porterebbe ad un loro disallineamento con le corrispondenti strutture ministeriali), comporterebbe inevitabilmente dei problemi sempre per le forze politiche di minoranza, specie ovviamente al Senato dove ad un numero eguale di commissioni rispetto alla Camera corrisponde un numero dimezzato di componenti. Potrebbe così accadere che un singolo parlamentare venga designato membro di più commissioni (come oggi previsto al Senato: art. 21.2 R.S.), costringendolo così ad un non facile svolgimento della sua attività parlamentare (non avendo il dono della bilocazione…), tanto più se nominato anche in altri organi collegiali (giunte, organi consultivi, ecc.), con evidenti ripercussioni sul coordinamento dei lavori tra commissione ed Aula. Tale soluzione, inoltre, porterebbe ad una sovra-rappresentazione in commissione delle forze politiche di minoranza (ad esempio, un gruppo di sei senatori potrebbe essere rappresentato nelle quattordici commissioni, come se composto da un numero pari di membri). La soluzione opposta – vietare al parlamentare di far parte di più di una commissione, come previsto oggi alla Camera (art. 19.3. R.C.) – di contro penalizzerebbe la rappresentatività di tali organi collegiali, dalla cui gran parte le forze politiche minoritarie sarebbero escluse.
  4. sul piano ordinamentale una così rilevante riduzione del numero dei parlamentari potrebbe peggiorare, anziché migliorare, l’organizzazione e lo svolgimento dei lavori parlamentari, giacché come detto, i gruppi parlamentari che supererebbero di poco la soglia di sbarramento potrebbero contare su una pattuglia esigua di deputati o senatori da suddividere come detto tra i vari organi collegiali (commissioni, giunte, organi consultivi). È vero che il Parlamento ha visto ridimensionata la sua funzione legislativa a seguito del trasferimento di numerose materie alla potestà normativa delle Regioni e delle istituzioni europee. Ma rimane intatta la rilevanza delle altre funzioni – ispettiva, di controllo, indirizzo e di raccordo istituzionale – che il Parlamento è chiamato a svolgere, anzi in prospettiva destinate ad accrescere d’importanza e sulle quali si esprime in particolare il ruolo delle forze politiche d’opposizione.

Sempre sul piano ordinamentale, alla riduzione del numero dei parlamentari corrisponde un aumento del peso proporzionale del numero sia dei cinquantotto delegati regionali chiamati ad eleggere il Capo dello Stato sia dei cinque senatori a vita nominati da quest’ultimo. Se per i primi ciò non sembra destare particolari preoccupazioni, in virtù della loro connotazione partitica e non regionale, il peso politico dei secondi invece potrebbe invece aumentare, facendo sì che, come già accaduto in passato, il loro voto sia decisivo ai fini della fiducia o sfiducia al governo.

Per evitare gli effetti negativi sopra brevemente illustrati, sarebbe a mio modesto avviso “ridurre la riduzione”: 500 (e non 400) deputati e 250 (anziché 200) senatori. Oppure ritornare alla soluzione inizialmente prevista in Costituzione di un numero non fisso ma variabile del numero di parlamentari in base alla popolazione, così da consentirne il costante adeguamento in base al censimento, senza che occorra attivare il procedimento di revisione costituzionale. Oppure ancora, determinare in Costituzione un numero massimo e minimo di deputati e senatori, da fissare per legge, il che consentirebbe peraltro di attivare anche a livello nazionale il meccanismo dei seggi aggiuntivi a titolo di premio di maggioranza presente a livello regionale.

Infine sarebbe il caso di approfittare di tale specifica riforma – che volutamente (e criticabilmente; ma questa è un’altra storia) non affronta il tema del bicameralismo paritario e quindi del ruolo del Senato – sia per abrogare i parlamentari eletti all’estero, anziché semplicemente ridurli peraltro ad un numero veramente ridotto (si pensi agli appena 4 senatori), visto che, a quasi 20 anni dalla modifica costituzionale che li ha introdotti, sia per ridurre l’età richiesta per votare ed essere votati al Senato, così da eliminare una distinzione rispetto alla Camera dei deputati francamente ormai anacronistica.

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1 commento su “La riduzione del numero dei parlamentari: non è tutto oro ciò che luccica…”

  1. Sono d’accordo con la posizione critica del prof. Curreri, ma non mi convince nessuno dei quattro argomenti avanzati, poco rilevanti, problemi tecnici di poco conto, tutti superabili. Non mi convincono nemmeno le proposte alternative (in conclusione dell’articolo), a parte l’abolizione dei parlamentari eletti all’estero, un vero obbobrio copiato nel frattempo (2008, art. 24 C.) dalla Francia. Argomenterei diversamente. Manca da parte dei promotori del progetto di revisione commentato una visione d’insieme del sistema parlamentare, di possibili imperfezioni del modello ideato nel 1947 (penso al bicameralismo e alle prerogative troppo deboli del governo, due difetti spesso evocati) e delle modifiche successive (non tutte azzeccate), dei progetti precedenti di riforma (censurati dal popolo, ma non per questo da scartare interamente) e delle leggi elettorali vigenti (frutto di compromessi frettolosi, manipolativi e di dubbia conformità). Bisognerebbe mettersi d’accordo sui principi difficilmente contestabili (presumo: il governo parlamentare, il libero mandato, un’equa rappresentanza, ma non l’obbligo di rappresentazione proporzionale estrema la quale è peraltro dipendente proprio dal numero dei componenti dell’assemblea!) prima di pensare alternative compatibili con i principi condivisi. Tornando ai due punti già evocati bisognerebbe chiedersi quali nuove prerogative riconoscere al governo e al primo ministro (via preferenziale dell’iniziativa di governo, tempi certi, sfiducia costruttiva). Il dibattito parlamentare gestito dal governo britannico sulla Brexit è un’ottima occasione per capire che cosa manca in Italia: non il referendum propositivo facile (un altro progetto di revisione della maggioranza), ma l’autorevolezza e la responsabilità (le due vanno insieme) dell’iniziativa del governo e delle decisioni del Parlamento. Perché non sostituire in quell’ottica la seconda Camera (riducendo ipso facto il numero dei parlamentari di un terzo) con un Senato poco numeroso composto da esperti di legislazione (“nomotheti”) nominati dai deputati, rinnovato per quote annuali con incarichi lunghi, con ampi poteri di iniziativa e di parere non vincolante, senza poteri di approvazione, ma con un potere di veto sospensivo in certe materie, e il potere di creare obblighi di maggioranza qualificata. Un tale Senato-consulto ispirato da numerosi esempi storici e comparativi (…) avrebbe un ruolo stabilizzante, di coerenza, di continuità e di convergenza (quello che manca al paese, da sempre) ed ostacolerebbe le politiche erratiche degli ultimi 30 anni che hanno distrutto quel poco che era rimasto di fiducia da parte degli elettori e dei partner europei. Senza visione d’insieme si aumenta solo la confusione, matrice della demagogia, o del populismo come si dice adesso. Ridurre il numero dei parlamentari perché ritenuti troppo onerosi, se no del tutto inutili (cf. Casaleggio 2018), è pura follia e non andrebbe nemmeno discusso. Converrebbe creare invece istituzioni con rappresentanti eletti dai cittadini, responsabili davanti a loro (questo non è in contraddizione con il libero mandato), forse più capaci perché scelti correttamente e responsabili individualmente. In quel caso, invece di ridurre il loro compenso, si potrebbe anche pensare di fare l’opposto.

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