Scuola e Regioni differenziate, si vaga nel buio

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Roberta Calvano

Nonostante l’art. 33 Cost. affidi alla Repubblica, costantemente interpretata come Stato, il compito di dettare le norme generali sull’istruzione, sin dall’introduzione del principio dell’autonomia scolastica nella legge Bassanini n. 59 del 1997, e poi con il suo inserimento nell’art. 117 Cost. nel 2001, si è tentato di spostare gradualmente verso la periferia il baricentro del sistema nazionale di istruzione. Si è quindi avuta una progressiva de-statalizzazione della scuola, una trasformazione della funzione pubblica in servizio, ed infine una sottolineatura del rilievo pubblicistico del solo oggetto “istruzione”, e non più dei soggetti operanti nella scuola. Quale danno ciò abbia apportato nell’arco di due decenni al sistema dell’istruzione, unitamente alla privatizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti, con il connesso svilimento della loro funzione e della questione circa la loro formazione, ed infine con un mastodontico abuso dei contratti a tempo determinato, risulta oggi abbastanza evidente. La legge sulla cd. “Buona scuola” sembra aver proseguito tale percorso tentando ulteriori passi sulla strada della regionalizzazione, già nell’art. 1 c. 66, secondo cui gli organici del personale docente vengono regionalizzati e si prevede che i concorsi siano banditi su base regionale (art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 59 del 2017), oltre all’adeguamento dei curricula di insegnamento rispetto al «territorio» (art. 1, comma 60).

Questo più o meno strisciante percorso di regionalizzazione pare ora destinato a percorrere un drastico passo ulteriore alla luce delle bozze di intese con le quali le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (presto seguite dal Piemonte a detta del Ministro degli affari regionali) chiedono integralmente l’attribuzione della materia istruzione, “norme generali” comprese. Invero, che le norme generali sull’istruzione fossero possibile oggetto dell’attribuzione dell’autonomia differenziata ex art. 116 era stato già revocato in dubbio in epoca non sospetta (Morrone, Poggi) alla luce del dato per cui da esse dipende la costruzione culturale dell’identità nazionale e della cittadinanza. Insomma, nel rispetto della ricchezza del pluralismo accolto nella Costituzione italiana, dettando le norme generali sull’istruzione si cementa la base dell’unità nazionale. E la Corte costituzionale ha da tempo più volte chiarito come le norme che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione “richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che usufruiscono del servizio di istruzione» (Corte cost., sent. n. 309 del 2010).

Del resto, nonostante l’infelice inclusione delle norme generali sull’istruzione tra le materie suscettibili di essere oggetto dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116 sia la più stridente delle contraddizioni che si prospettano all’esito della possibile regionalizzazione della materia, sono molteplici i nodi problematici che si aprirebbero nel caso in cui il progetto dell’autonomia differenziata andasse in porto. 3. Gli insegnanti già intravedono la possibile diversificazione del trattamento economico che deriverebbe da contratti, concorsi ed organici regionali. Si teme poi una contrazione della libertà di insegnamento in relazione all’imposizione di curricula didattici regionali legati ad una visione politica di parte. Vi è poi la preoccupazione circa la difficoltà dei trasferimenti interregionali, già oggi resi ardui da una disciplina dell’assegnazione delle sedi e degli “ambiti regionali” nella legge 107 del 2015, che è all’origine di un fitto contenzioso. Inutile ricordare infine tutte le possibili ripercussioni in termini di uniforme garanzia del diritto all’istruzione e allo studio suscettibili di derivare da un sistema in cui gli obiettivi, i programmi, l’alternanza scuola lavoro siano regolati a livello regionale, con la conseguente perdita di effettività del valore legale uniforme del titolo di studio.

Un possibile argine rispetto a tutti questi problemi è rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale, che ha chiarito a suo tempo come la disciplina del reclutamento dei docenti «non può che provenire dallo Stato, nel rispetto della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., trattandosi di norme che attengono alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato» (sent. n. 76 del 2013), mentre la sent. n. 200 del 2009 aveva evidenziato come ulteriore titolo di legittimazione dello Stato a dettare norme in materia si rinvenga ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l (ordinamento civile) «relativamente, in particolare, alla disciplina privatistica del rapporto di lavoro del personale della scuola». Le norme costituzionali richiamate non sono, come si vede, relative a materie oggetto del possibile “slittamento” dal secondo e dal terzo comma dell’art. 117 che il procedimento di cui all’art. 116 è in grado di produrre, trasformando competenze statali e concorrenti in materie di piena competenza delle regioni “differenziate”.

Basterà questo ad ostacolare le ambizioni e le richieste delle Regioni in materia di istruzione? Potrà la Corte costituzionale, se opportunamente adita, da sola rappresentare l’ultimo baluardo rispetto ad un progetto così irragionevole come quello della definitiva integrale regionalizzazione del sistema dell’istruzione?

Sicuramente no, se nel frattempo si pensa che le altre Regioni, che rischiano di essere pesantemente danneggiate da un punto di vista finanziario dal processo in atto, anziché reagire, hanno inspiegabilmente pensato di accordarsi anche loro sulla strada potenzialmente dirompente dell’art. 116.

Da questo punto di vista si deve, a molto parziale discolpa di chi sta producendo questo orrendo pasticcio, segnalare che le questioni sul piatto sono davvero complesse, ed il dibattito sul regionalismo differenziato non è aiutato dalla scarsa circolazione delle informazioni in materia, oltre che dal dato per cui l’avidità rende miopi e poco razionali. Così risulta ad esempio difficile spiegare a chi guarda le tabelle pubblicate sul sito del Dipartimento affari regionali, che la maggior spesa pro-capite in materia di istruzione di Regioni del sud, come la Calabria, deriva dall’età media più alta degli insegnanti, o dalla dimensione media delle classi più ridotta, data la numerosità di comuni montani, e non dalla pigrizia o dall’inefficienza degli insegnanti meridionali. Sembrerebbe allora più utile se il Governo, che sta portando avanti nelle segrete stanze le trattative con le Regioni, rendesse più trasparenti le informazioni che riguardano questo processo, e tentasse magari di reindirizzarlo in direzione più costruttiva. Perché una risposta alle Regioni ormai spintesi in avanti e forti di una legittimazione popolare molto ampia va data, ma il processo, così come impostato, rischia di frantumare l’unità nazionale, oltre che di produrre un regionalismo ancor più disordinato di quanto oggi non sia, tra Regioni ordinarie, Regioni speciali insoddisfatte delle loro specialità, Regioni differenziate di vario tipo, e nessuna istituzione di raccordo pienamente rappresentativa al centro.

Riflettendo su quali sono le Regioni che si stanno, una ad una, affacciando anch’esse alla scena del regionalismo asimmetrico, seguendo le orme di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, e cioè Piemonte e Liguria, e poi Umbria, Marche, Toscana e infine Campania, si inizia ad intravedere il possibile costruirsi sulla cartina geografica di macroregioni, cui potrebbero essere attribuiti blocchi di competenze omogenee ed uno status economico finanziario analogo. Solo così si eviterebbe quella imbarazzante situazione che si preannuncia, di una legislazione statale che dovrebbe contenere una parte dedicata ad individuare e precisare quali norme si applicano a quali delle regioni differenziate, ordinarie, speciali…. Uno spettacolo a cui non vogliamo assistere, se solo riflettiamo sul livello tecnico già scarso della legislazione ordinaria prodotta oggi. A proposito, quali scuole sarà meglio far frequentare al legislatore di domani….?

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