Le maggioranze cambiano i presidenti di commissione restano. Come risolvere il potenziale conflitto

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di Salvatore Curreri

Una delle conseguenze della (possibile) nascita del nuovo Governo, con il passaggio della Lega dalla maggioranza all’opposizione, è la presidenza delle commissioni parlamentari ricoperte da suoi esponenti. Sono infatti ben undici (sei al Senato, cinque alla Camera) le commissioni presiedute da parlamentari della Lega, alcune delle quali – come la commissione Bilancio alla Camera (Borghi) e quella Affari costituzionali al Senato (Borghesi) – assolutamente strategiche nell’attività parlamentare, anche perché chiamate ad esprimere pareri obbligatori e vincolanti su gran parte dell’attività legislativa (c.d. commissioni filtro). Entrambe tali commissioni, peraltro, hanno visto nel tempo accrescere il proprio rilievo politico di riflesso all’accresciuta prevalenza, sul versante governativo, rispettivamente del Ministero dell’Economia e della Presidenza del Consiglio (Gianniti-Lupo).

L’appartenenza all’opposizione dei presidenti delle commissioni permanenti costituisce senz’altro un’anomalia. Tali commissioni, infatti, svolgono un ruolo vitale nell’organizzazione e nello svolgimento dell’attività parlamentare ai fini dell’attuazione del programma di governo, tant’è che – a dispetto di un’opinione pubblica abituata dai media ad identificare le Camere soltanto con le rispettive Aule – da tempo si è evidenziato il passaggio nell’attuale sistema politico-istituzionale dal Parlamento in assemblea al Parlamento in commissione (Elia).

In forza di tale ruolo, le commissioni devono essere composte in modo da rispecchiare non solo “la proporzione dei gruppi parlamentari” (art. 72.3 Cost.; art. 19.2 reg. Camera) ma anche “il rapporto tra maggioranza e opposizione” (così l’art. 21.3 reg. Senato dopo la modifica del 20 dicembre 2017) così da evitare che esso venga alterato, se non capovolto, per dare rappresentanza ad opposizioni frammentate (magari artificiosamente) in più gruppi parlamentari. In sintesi: la maggioranza in Aula deve essere anche maggioranza in Commissione così da essere in grado di eleggerne il Presidente (artt. 20.2 reg. Camera e 27.2 reg. Senato). Vi è quindi uno stretto collegamento tra maggioranza parlamentare, Governo e Presidenza delle Commissioni, quale diretta conseguenza della responsabilità e dei compiti spettanti alla maggioranza parlamentare (v. Senato, XI Commissione, seduta del 20 maggio 1993).

La corrispondenza tra Presidente di commissione permanente e maggioranza di governo trova in primo luogo conferma nella prassi per cui la composizione e l’elezione degli organi direttivi delle Commissioni ad inizio legislatura è successiva alla formazione del Governo e quindi alla identificazione delle forze politiche di maggioranza e di opposizione. È questo il motivo per cui, ad inizio dell’attuale XVIII legislatura, le camere hanno inizialmente operato tramite commissioni speciali per poi procedere alla costituzione delle commissioni permanenti e all’elezione delle rispettive presidenze solo dopo la formazione del governo Conte.

Che i presidenti delle commissioni permanenti debbano appartenere alla maggioranza trova indiretta conferma nella opposta prassi che invece vuole spettino ad esponenti delle opposizioni le presidenze di alcuni organi parlamentari che svolgono attività ispettive e di controllo: alla Camera la Giunta delle elezioni e la Giunta per le autorizzazioni a procedere; al Senato la Giunta delle elezioni e delle immunità; la Commissione bicamerale per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (prassi recepita dall’art.  30.3 legge n. 124/2007).

Infine, entrambi i regolamenti parlamentari prevedono che le commissioni permanenti, inclusi quindi i rispettivi uffici di presidenza, siano rinnovati ogni biennio, con possibile riconferma dei loro componenti: alla Camera “dalla data della loro costituzione” (art.  20.5 reg.); al Senato dall’inizio della legislatura (art. 21.7 reg.). Apparentemente si tratta di disposizioni formulate in modo improprio giacché, visto che la legislatura dura cinque anni, il rinnovo avrebbe dovuto essere fissato dopo due anni e mezzo. A ben riflettere, però, l’aver previsto non uno ma due rinnovi risponde maggiormente allo scopo di garantire che la maggioranza politica presente nelle commissioni e quella dei rispettivi presidenti corrisponda alla maggioranza di governo, la quale come noto può variare in corso di legislatura.

In altri Parlamenti, come quello britannico e francese, la prevalenza nelle commissioni della maggioranza parlamentare di governo e l’appartenenza a questa ultima dei rispettivi presidenti è garantita in misura maggiore attraverso il rinnovo integrale delle commissioni parlamentari e dei loro Presidenti ad inizio di ogni sessione parlamentare. Nelle nostre camere, invece, la previsione del rinnovo biennale della composizione delle commissioni e, in particolare, dei loro Presidenti corrisponde alla natura ambigua delle funzioni esercitate da questi ultimi.   

Da un lato, infatti, il Presidente di commissione presenta un carattere eminentemente neutrale, di garanzia e di arbitrato tra le parti; dall’altro, in quanto espressione della maggioranza parlamentare e quindi, come detto, elemento di raccordo dell’attività della Commissione con la maggioranza e il Governo, assume oggettivi risvolti di rilevanza politica, come all’atto dell’avvio della discussione in sede referente, introdotta dal Presidente della Commissione o da un relatore da lui incaricato (artt. 79.3 reg. Camera e 41.2 reg. Senato) o della valutazione dell’ammissibilità degli emendamenti. Tale ruolo politico trova conferma nel fatto che, diversamente dal Presidente di assemblea, quello della Commissione partecipa ai dibattiti, intervenendo nel merito degli argomenti, e sovente vota (v. la lettera del Presidente della Camera al Presidente della Commissione giustizia del 14 novembre 1973).

Da qui quindi tale soluzione di compromesso: il Presidente di Commissione, al contrario di quello d’Assemblea, non resta in carica per l’intera legislatura ma è soggetto a rinnovo (e quindi ad una possibile indiretta sfiducia) ogni due anni; di contro, il rapporto che lo lega alla maggioranza di governo che lo ha eletto non è tale da rendere la sua carica sempre e comunque sfiduciabile prima che decorrano due anni dalla sua elezione.

Non a caso i diversi tentativi della maggioranza parlamentare di revocare anticipatamente il Presidente di commissioni, specie se di garanzia (riforme istituzionali, Co.pa.sir, antimafia) si sono sempre infranti contro il costante rifiuto dei Presidenti delle Camere i quali hanno concordato che “il ruolo dei Presidenti degli organi parlamentari (…) conserva, sia pur graduato dalla natura e dal rilievo costituzionale dell’organo presieduto, un carattere eminentemente neutrale, di garanzia e di arbitrato fra le parti”; tali funzioni sono “insuscettibili di valutazioni fondate su un rapporto fiduciario”, tanto più negli organismi bicamerali di controllo o di inchiesta. Entrambi, quindi, hanno concluso per “l’inammissibilità di strumenti che implichino sfiducia al Presidente di Commissione e ne chiedano le dimissioni” (v. Commissione d’inchiesta antimafia, seduta dell’8 marzo 1995).

L’inamovibilità del Presidente di Commissione, financo quando impossibilitato ad esercitare le sue funzioni, è dimostrata peraltro dal caso del Presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati Galan, rimasto in carica benché agli arresti domiciliari (v. lettera Presidente della Camera Boldrini al Corriere della sera del 13.12.2014).

Alla luce del quadro normativo e politico sopra delineato, che valutazione dunque dare dell’appartenenza ad esponenti ora dell’opposizione di molte e importanti commissioni parlamentari permanenti?

Certo in altri ordinamenti la commissione Bilancio è considerata di controllo, come pure tale potrebbe apparire la commissione Affari Costituzionali, chiamata a valutare la conformità a Costituzione di progetti e disegni di legge. Ma non è certo questo il caso delle nostre camere dove il ruolo di tali commissioni, più delle altre, è eminentemente politico. Né nel nostro ordinamento sussistono quelle condizioni istituzionali e/o politiche che rendono l’appartenenza di un Presidente di commissione all’opposizione un’evenienza tutto sommato accettabile, rispettivamente per la capacità comunque del Governo di guidare l’attività parlamentare e/o per la diffusa fiducia nella sostanziale lealtà e correttezza di tutte le forze politiche. Anzi, le dichiarazioni rese in questi giorni dal Presidente della Commissione Bilancio alla Camera Borghi si muovono in direzione esattamente opposta, lasciando presagire la sua volontà non solo di non dimettersi dalla carica ma anche di fare un uso fortemente politico dei suoi poteri.

Altre soluzioni non paiono ipotizzabili. La rimozione anticipata dei Presidenti di commissione da parte dei Presidenti delle camere costituirebbe una evidente violazione delle disposizioni regolamentare che, come detto, garantisce loro l’inamovibilità per almeno due anni. Un possibile conflitto di attribuzione della (maggioranza della) commissione contro il suo Presidente, oltreché politicamente improduttivo stante i tempi di decisione, sarebbe inammissibile perché si tratterebbe di un conflitto interorganico in cui i membri della commissione, in riferimento alla peculiare fattispecie, non assurgerebbero a poteri dello Stato (v. Corte costituzionale, n. 222/2009, in cui ha dichiarato anche per questa ragione inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato da Villari e dagli altri due restanti commissari, dopo le dimissioni dei restanti trentasette).

L’appena richiamato precedente del caso Villari – esponente dell’opposizione eletto dalla maggioranza a Presidente della Commissione di vigilanza RAI contro la volontà della prima – indica però quale possa essere la strada percorribile.

Di fronte ad un Presidente di commissione legislativa permanente che utilizzasse strumentalmente i suoi poteri per ostacolare smaccatamente l’attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza, questa ultima potrebbe sollecitare un intervento del Presidente di Assemblea, pena l’abbandono dei lavori della commissione con conseguente paralisi dell’intera attività parlamentare. Dinanzi a tale scenario, se il Presidente di Assemblea ritenesse il comportamento del Presidente di Commissione non improntato a leale collaborazione, potrebbe intervenire, quale supremo garante del buon andamento dei lavori parlamentari (artt. 8 reg. Camera e Senato), non, come detto, per revocarlo prima del termine previsto, a causa della sua appartenenza politica, ma per sciogliere l’intera Commissione a causa del suo mancato funzionamento con contestuale nomina di una nuova che eleggerebbe un nuovo Presidente, al fine di consentire alla Commissione di svolgere le funzioni costituzionalmente previste (art. 72 Cost.).

Merita di essere ricordato che proprio in occasione del caso Villari i due Presidenti, procedendo in via interpretativa, richiamarono una nota del Presidente Pertini del 24 ottobre 1974 secondo la quale il fatto che una vicenda istituzionale non abbia precedenti e non vi sia una norma espressa “non preclude” alle presidenze delle Camere la facoltà di “apprezzare le particolari ed eccezionali circostanze che vi hanno dato causa, ad un livello di straordinarietà da indurre ad una interpretazione estensiva” delle norme regolamentari vigenti. Essi, pertanto, ravvisarono nelle disposizioni che regolano l’impossibilità di funzionamento della Giunta delle elezioni alla Camera (art. 17.4 reg. Camera) e della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato (art. 19.3 reg. Senato) una valida analogia per la risoluzione del caso.

In conclusione: l’assenza di disposizioni regolamentare che consentano alla maggioranza della commissione di sfiduciare il Presidente prima della scadenza del biennio previsto per regolamento non esclude che di fronte all’esercizio volutamente ostruzionistico e distorto dei suoi poteri la maggioranza possa abbandonare i lavori, facendo dimettere i suoi componenti. Sarà compito del Presidente, quale supremo garante dell’osservanza della lettera e dello spirito del regolamento in nome del buon andamento dei lavori, verificare se ricorrano i presupposti lamentati e, nel caso affermativo, di fronte ad un Presidente recalcitrante, procedere allo scioglimento della commissione con sua immediata ricostituzione, la quale procederà all’elezione di un nuovo Presidente ed Ufficio di Presidenza.

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1 commento su “Le maggioranze cambiano i presidenti di commissione restano. Come risolvere il potenziale conflitto”

  1. Post scriptum: a seguito della formazione del nuovo Governo, dovrebbero dimettersi dalla carica il Presidente della Giunta delle elezioni della Camera (Giachetti, Pd) e il Presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Guerini, Pd) in conformità rispettivamente alla prassi e alla disposizione di legge (art. 30.3 legge n. 124/2007) in base alla quali esse devono essere ricoperte da appartenenti ai gruppi di opposizione.

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