Nel corso della conferenza stampa dello scorso 22 febbraio – quella nella quale il Presidente del Consiglio ha annunciato l’adozione del primo decreto legge contenente misure restrittive per alcune zone del Nord Italia (poi rapidamente estese a tutto il territorio nazionale) – Giuseppe Conte ha utilizzato, proprio in apertura, parole molto chiare circa la motivazione nell’emanazione di un provvedimento così limitativo delle libertà. Ha sottolineato come esso fosse volto a tutelare il bene della salute, da lui testualmente definito come il bene che “nella gerarchia dei valori costituzionali è sicuramente al primo posto”. In quella stessa comunicazione alla stampa, nella tarda serata di un sabato ancora “normale”, più volte Giuseppe Conte ha fatto riferimento al principio di proporzionalità ed adeguatezza che informava l’intervento: le misure di cautela venivano definite come adottate sulla base di valutazioni tecnico-scientifiche, che supportavano la decisione politica, e comunque “nel segno dell’adeguatezza e della proporzionalità”. E d’altra parte, lo stesso art. 1 di quel primo decreto legge recitava testualmente che “allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, […] le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.
Se al cittadino comune quel riferimento, ripetuto in modo quasi ossessivo in quei 30 minuti di conferenza stampa, alla proporzionalità dell’intervento, alla necessaria adeguatezza dello stesso, così come alla sproporzione di un’eventuale sospensione in quel momento di Schengen, poteva non dire molto, all’orecchio del giurista suonava invece come qualcosa di molto chiaro. Quelli di ragionevolezza e di proporzionalità sono infatti i due principi cui la giurisprudenza costituzionale fa costantemente ricorso, in modo peraltro da rendere i due termini fungibili e quasi sinonimi, quando verifica se nell’operato del legislatore vi è stato un corretto bilanciamento tra valori costituzionalmente tutelati.
Come è noto, infatti, il carattere saliente del giudizio di proporzionalità è dato dal fatto che esso consiste in una verifica volta, in primo luogo, a stabilire se il legislatore abbia agito per uno scopo legittimo, non in contrasto con i principi costituzionali; in secondo luogo, la verifica consiste nel valutare che ci sia una “connessione razionale” tra i mezzi predisposti ed il fine perseguito, e poi che il legislatore abbia effettivamente scelto lo strumento che permette di ottenere l’obiettivo prefissato con il minor sacrificio possibile di altri diritti o interessi costituzionalmente protetti. C’è, infatti, un ulteriore passaggio, che va oltre il dato giuridico positivo, e che è quello della “proporzionalità in senso stretto”, in cui si mettono a confronto e si soppesano i benefici che derivano dal perseguimento dell’obiettivo cui il legislatore mira con i costi, cioè i sacrifici che esso impone ad altri diritti e interessi in gioco (CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, 2013).
Non occorre certamente ricordare come la nostra Carta costituzionale sia portatrice di un pluralismo di valori e come, in realtà, essi si integrino tra di loro, senza che un diritto prevarichi l’altro. Allo stesso modo non occorre sottolineare come non esista, in verità, alcun ordine gerarchico tra valori costituzionalmente tutelati, ragion per cui l’esito del bilanciamento non può mai essere il sacrificio totale di uno dei valori in gioco, perché di ciascuno deve essere preservato il nucleo essenziale.
Ma se tutto questo è vero, è evidente che possono verificarsi situazioni nelle quali sorgono conflitti tra valori costituzionali, per la cui composizione ovviamente non si può fare ricorso ai tradizionali criteri di risoluzione delle antinomie. E ciò tuttavia non deve stupire dal momento che, a ben vedere, proprio l’attività di bilanciamento – ossia la soluzione di un conflitto tra diritti e valori – è ciò che connota precipuamente l’operare del legislatore, in capo al quale ricade un grado di discrezionalità politica che non a caso non viene riconosciuta ad altri, neppure alle Corti.
Bene, torniamo allora alla conferenza stampa del 22 febbraio e a quanto è accaduto in questi due mesi da allora.
La diffusione del contagio e l’esplosione del numero dei decessi hanno dimostrato come effettivamente quelle restrizioni delle libertà fossero necessarie e come quel provvedimento, e soprattutto quelli successivi che hanno esteso il lockdown all’intera penisola, siano stati, appunto, proporzionali alla situazione e adeguatamente motivati dal perseguimento del bene supremo della salute degli italiani. Come sottolineato, infatti, fin da quella prima conferenza stampa l’obiettivo era quello di fare in modo che la curva dei contagi non avesse un’impennata eccessiva, per fare sì che quella percentuale di pazienti malati bisognosi di ricoveri in terapia intensiva e di supporto alla respirazione, non giungessero tutti insieme negli ospedali, congestionandoli.
Le immagini delle bare sui camion dell’esercito in uscita da Bergamo ritornano negli occhi di tutti noi a ricordare che in alcune città l’obiettivo non è stato purtroppo raggiunto; ciò non toglie che la misura del lockdown ha certamente significato, ad esempio, il contenimento della diffusione epidemica nelle regioni del Sud, il cui sistema sanitario obiettivamente avrebbe retto ancora meno.
La compressione dei nostri diritti di libertà è stata bilanciata, dunque, dal perseguimento della massima tutela del diritto alla salute.
L’operazione del bilanciamento tra valori costituzionali è tuttavia un’operazione che potremmo definire dinamica e non statica: l’equilibrio muta al mutare delle condizioni e delle situazioni. Ed è per tale ragione che oggi, a distanza di due mesi da quella prima conferenza stampa, con una curva di malati ricoverati in terapia intensiva decisamente in calo, ed un parametro di contagio R0 sceso – secondo quanto dichiarato dall’Istituto Superiore di Sanità – a 0.7, non è peregrino interrogarsi sulla perdurante validità del bilanciamento compiuto.
Ci sono, tra i tanti che si potrebbero citare, almeno tre elementi che impongono una riflessione.
Il primo è un “banale” dato economico: Bankitalia, in un report reso noto in questi giorni, stima che ogni settimana di lockdown costa all’Italia lo 0,5% del Prodotto interno lordo annuo, circa 9 miliardi di euro ai valori attuali: “nel complesso le attività commerciali e industriali non ritenute essenziali, e come tali temporaneamente sospese dal DPCM del 22 marzo, contribuiscono a circa il 28 per cento del totale del valore aggiunto. Ogni settimana di blocco dell’attività economica di questa portata comporta, secondo un calcolo meccanico che non considera effetti indiretti, una riduzione del PIL annuale di circa lo 0,5 per cento”
Tutto questo si traduce, ovviamente, in una contrazione del dato occupazionale: “Il numero di occupati – scrive Bankitalia – potrebbe contrarsi più marcatamente nella componente a tempo determinato, qualora parte degli oltre 400.000 contratti in scadenza tra marzo e aprile non venisse rinnovata, in particolare nei settori ricettivo-alberghiero, dei viaggi e trasporti, dei servizi ricreativi, culturali e personali e del commercio al dettaglio non alimentare”.
Si dirà che il diritto alla salute prevale su considerazioni di ordine economico: ammesso (e forse non concesso) che questo sia vero, si può facilmente dimostrare che anche il diritto alla salute, a questo punto, rischia di essere sacrificato dal perdurare del lockdown.
Ecco allora il secondo elemento che colpisce: la Società Italiana di Pediatria mette in allerta sul fenomeno, cui si starebbe assistendo, del rallentamento delle vaccinazioni dei bambini. Non tanto per le misure di isolamento sociale, quanto soprattutto per il timore del contagio, molte famiglie hanno preferito rinviare le sedute vaccinali previste per i loro figli, il che è forse anche comprensibile; meno comprensibile ed anzi da stigmatizzare è invece la chiusura temporanea di alcuni Centri vaccinali, cosi come la decisione da parte di alcuni Responsabili delle Unità Operative Materno infantili, di posticipare sedute vaccinali pediatriche del ciclo primario a date da destinarsi pur avendo a disposizione adeguate risorse di personale.
Se è stato necessario ribadire, come ha fatto Alberto Villani, president SIP, l’ovvio (“Il percorso vaccinale del bambino può e deve essere rispettato, a maggior ragione in questo periodo”), non ci si può non interrogare sulle conseguenze – proprio sul fronte della salute! – che potrebbero aversi anche in altri ambiti. Tutti noi sappiamo quanto sia importante la prevenzione per alcune malattie e soprattutto una diagnosi tempestiva: quanti esami di routine ma essenziali non si stanno effettuando? Quanta “coda” provocherà questo blocco quando sarà possibile tornare a prenotare un esame diagnostico tramite il già di norma congestionato sistema sanitario nazionale? E non è difficile profetizzare che il costo sociale di quella coda cadrà ovviamente sui meno abbienti, su coloro che non potranno provvedere a effettuare una risonanza magnetica in una struttura privata a pagamento.
Da ultimo, un terzo elemento, forse meno “clamoroso” (nel senso che fa meno clamore), ma non meno preoccupante sempre sul fronte della salute: la reclusione forzata dei bambini. Intervistato sui rischi della situazione, lo psicoterapeuta Alberto Pellai ha detto che: “Quando si confina a spazi limitati, quando la crescita viene compressa e repressa, diventa un meccanismo di bomba a orologeria, una specie di pentola a pressione: più pressione c’è al suo interno, più vedrai vapore che esce dalle valvole”. E, ancora più significativamente, lo stesso Pellai richiama l’idea del conflitto tra valori: “se decidiamo di portare i bambini fuori, rischiamo il contagio, ma rimane il dato di fatto, che prima o poi la pagheremo”.
Stiamo da giorni inseguendo i dati e i grafici: come sarebbe il grafico se mettessimo a confronto i benefici ed i costi del lockdown? E se dovessimo trasporre quanto detto prima su un altro grafico, potremmo trovarci nella situazione paradossale per cui ad una curva di decessi Covid, che lentamente scende, se ne potrebbe affiancare un’altra di decessi “indotti” destinata a salire? Dove si colloca il punto in cui il rimedio diventa peggiore del male?
Si tratta ovviamente di un ragionamento per paradosso che però consente di tornare sul tema del bilanciamento e dei conflitti tra valori e diritti. Come è stato detto in dottrina, ci sono conflitti intra-rights, dati dalla concorrenza di soggetti diversi nel godimento dello stesso diritto; ci sono conflitti inter-rights, dati dalla concorrenza di interessi individuali non omogenei, che hanno peraltro la peculiare caratteristica di poter vedere contrapposti non solo più soggetti titolari di diritti diversi, ma anche uno stesso soggetto titolare di due diritti in conflitto; e vi sono, infine, conflitti dati dalla concorrenza tra interessi individuali e interessi di altro tipo, ad esempio collettivi o istituzionali (PINO, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, 2006).
Quale che sia la natura del conflitto, una cosa è certa: “in un sistema basato sulla divisione dei poteri, il bilanciamento dei diritti e degli interessi è compito che spetta al legislatore” (BIN, Critica della teoria dei diritti, 2018). E’ al legislatore, al decisore politico, che spetta definire il punto di equilibrio tra gli interessi in gioco. A noi spetta il diritto di chiedere che questa operazione, certamente non facile, sia fatta, come vuole la Corte costituzionale, in modo adeguato, proporzionale e ragionevole.
* professore associato di Istituzioni di diritto pubblico, Università Telematica Internazionale Uninettuno
Rilevo purtroppo che viene fatta una sostanziale confusione tra poteri dello stato e che il termine legislatore è utilizzato genericamente per identificare il soggetto che abbia emanato una legge, ma il caso di una legge frutto dell’attività Parlamentare è ben diverso da quello di una legge emanata dall’esecutivo, in particolar modo, poi, quando la legge in parola è tesa ad avocare e a concentrare indebitamente, a mio parere, sull’esecutivo poteri non suoi e sostanzialmente illimitati (basterà all’uopo leggere il contenuto dell’art. 2 del D.L. 6/20). L’analisi esposta, poi, mi pare sostanzialmente in contrasto con un concetto cardine ma dimenticato ossia che, a differenza di quanto preteso dall’esecutivo, non esiste un ordine gerarchico di importanza dei diritti costituzionali, i quali tutti, mi pare di poter dire, siano sullo stesso piano. Ecco allora che le limitazioni imposte possono trovare una qualche giustificazione solo rispetto all’art. 16 Costituzione e, pertanto, solo rispetto al libero spostamento sul territorio nazionale per motivi sanitari, ma non certo, ad esempio e per citarne solo uno, rispetto al diritto al lavoro, decisamente compresso oltre ogni misura dalle statuizioni assunte.
Coi sensi della mia stima,
Federico