Dalla Corte costituzionale un netto “stop” al neighbourhood watch in salsa veneta

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di Giuseppe Tropea

Con sentenza n. 236 del 12 novembre scorso la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della legge della Regione Veneto n. 34/2019 sul c.d. controllo di vicinato, definito come «forma di cittadinanza attiva… che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio» (art. 2, co. 2). Tutto ciò attraverso, essenzialmente: la stipula di accordi o protocolli di intesa in materia tra gli uffici territoriali del governo e le amministrazioni locali (art. 2, co. 4), il sostegno in vario modo delle attività (artt. 3 e 4), l’istituzione di una banca dati per il monitoraggio dei relativi risultati (art. 5).

La Corte ha ritenuto che detta legge, nonostante escludesse espressamente dai compiti di vicinato la possibilità di intraprendere iniziative per la repressione dei reati o incidenti sulla riservatezza delle persone, nel riferirsi alla «attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio» avesse di fatto richiamato la finalità specifica della «prevenzione dei reati», riconducibile all’ordine pubblico e sicurezza, di competenza statale, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. h, Cost. Inoltre, la legge regionale, disciplinando direttamente forme di collaborazione fra Stato ed enti locali con il sostegno della Regione, in una materia di competenza regionale, ha invaso la competenza statale anche con riferimento all’art. 118, co. 3, avendo disciplinato forme di coordinamento tra Stato ed enti locali in materia di ordine pubblico e sicurezza con modalità non previste e non consentite dalla legge statale stessa.

Una legge statale in materia, in effetti, esiste. È il d.l. n. 14/2017 convertito con modifiche nella legge n. 48/2017, che ha individuato il quadro delle procedure e degli strumenti pattizi entro il quale Stato ed enti territoriali possono collaborare per realizzare interventi congiunti di «sicurezza integrata». La definizione delle linee generali per la promozione della sicurezza integrata è affidata, in tale disegno, alla proposta del Ministro dell’interno, ma soggetta all’accordo in sede di Conferenza unificata (art. 2). La legge di conversione ha positivamente innovato, non solo nel senso di specificare i settori di intervento (scambi informativi e logistico-operativi tra polizia locale e forze di polizia, aggiornamento professionale congiunto), ma anche – e soprattutto – nel senso che le suddette linee generali debbano tener conto «della necessità di migliorare la qualità della vita e del territorio e di favorire l’inclusione sociale e la riqualificazione socio-culturale delle aree interessate» (art. 2, co. 1 bis). Le norme di principio in materia di «sicurezza integrata» e di «sicurezza urbana» sono definite, rispettivamente, in «linee generali» e in «linee guida» adottate con un accordo concluso, su proposta del Ministro dell’Interno, in sede di Conferenza Unificata e di Conferenza Stato – Città e Autonomie locali. Gli appositi patti stipulati tra il prefetto e il sindaco, di cui all’art. 5, co. 1, devono muoversi in coerenza con le previsioni recate dalle «linee generali» sulla sicurezza integrata e dalle «linee guida» sulla sicurezza urbana. Un provvedimento normativo in cui appare evidente la volontà di “cambio di passo” rispetto alle precedenti politiche pubbliche sul tema.

La Corte costituzionale ritiene che la legge veneta esuli dalle coordinate tracciate dalla sopra menzionata normativa statale, che ha invece trovato attuazione con le linee guida adottate il 26 luglio 2018 in Conferenza Stato-città ed autonomie locali. Questo in quanto il d.l. n. 14/2017 non conferisce alle Regioni la possibilità di legiferare con specifico riferimento alla promozione e organizzazione del coinvolgimento di «gruppi di soggetti residenti nello stesso quartiere o in zone contigue o ivi esercenti attività economiche» impegnati in attività di «osservazione, ascolto e monitoraggio» funzionali alla «prevenzione generale» e al «controllo del territorio».

La sentenza in esame merita convinta adesione.

Il Community Policing ha origini remote. Può infatti essere fatto risalire ai principi ispiratori del primo Corpo di polizia inglese, ideato dal ministro Sir Robert Peel, che nel 1828 presentò al Parlamento britannico un progetto di legge relativo alla costituzione della Polizia Metropolitana di Londra, meglio nota come Scotland Yard (istituita l’anno successivo, il 1829), i cui tratti essenziali sono caratterizzati da una polizia di tipo preventivo, posta al servizio dei cittadini, in stretta collaborazione con costoro. Tale modello è destinato a mutare radicalmente negli anni ’80 del secolo scorso. Si fa strada in tale periodo il c.d. neighbourwood watch, che si fonda sulla partecipazione diretta di una rete di persone “responsabili”, individuate fra i residenti, che vengono investite di compiti di sorveglianza in uno specifico settore ben determinato. Quest’ultimo tipo di approccio viene privilegiato soprattutto con l’affermarsi della strategia della Zero Tolerance, nell’ambito della quale la polizia deve soprattutto impegnarsi a spezzare la spirale del degrado urbano e dell’insicurezza evidenziati da Wilson e Kelling con la teoria del “vetro rotto”. Proprio in Gran Bretagna, a causa dell’influenza culturale statunitense, il modello tradizionale ha subito delle torsioni, anche a causa delle difficoltà ingenerate dalla disgregazione e disorganizzazione economica dell’epoca post-moderna, oltre ai conflitti derivanti dal pluralismo etnico e sociale e dalla molteplicità culturale degli stili di vita. In tal senso la polizia “dal volto umano” diventerà una componente minore di un insieme di procedure impersonali di controllo: sistemi di sorveglianza, controlli tecnologici, ampio ricorso ad attività di Neighbourhood Watch.

Queste profonde trasformazioni socio-economiche si riflettono, in Italia, in politiche pubbliche la cui misura chiama fortemente in causa le tensioni che si danno sul piano del riparto delle competenze legislative in materie fra Stato e Regioni.

L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, culminata nella sentenza qui annotata, riflette bene questi aspetti.

Con la sentenza n. 196/2009 la sicurezza urbana viene considerata parte dell’ordine pubblico, una sicurezza pubblica “minore”. Tutto ciò finisce per determinare una potenziale indebita sottrazione di competenze regionali esclusive o concorrenti, rispetto a materie che ben potrebbero riguardare appunto la sicurezza urbana (es. formazione professionale, tutela e sicurezza sul lavoro, servizi sociali, attività culturali e istruzione, attività produttive, urbanistica, edilizia).

In direzione diversa si muove la successiva sentenza n. 226/2010, con riferimento al potere di stabilire le condizioni alle quali i comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio. Con riferimento alle «situazioni di disagio sociale», esso viene considerato elemento spurio ed eccentrico rispetto alla ratio della disciplina statale, e ricondotto alla sicurezza sociale, rientrante nella competenza regionale residuale.

Orbene, la sentenza n. 236/2020, pur non menzionando espressamente tale scarto esegetico, appare avere ben metabolizzato le trasformazioni che esso implica, nonostante un passaggio iniziale in cui sembrerebbe fermarsi al precedente del 2009.

Trasformazioni che, si badi bene, non evocano banalmente una schematica separazione fra una legislazione regionale sempre “buona” e una legislazione statale sempre “cattiva”, in quanto tarata su politiche pubbliche di mera repressione e controllo sociale.

Un precedente importante sul punto, anche se non esplicitamente richiamato dalla Corte, è quello in base al quale la concessione regionale di un sostegno economico ai cittadini che, vittime di un delitto contro il patrimonio o contro la persona, affrontano un procedimento penale con l’accusa di aver colposamente ecceduto i limiti della legittima difesa, è stato giustamente considerato manifestazione di un indirizzo regionale in tema di prevenzione dei reati e di contrasto alla criminalità, materia riservata allo Stato: un indirizzo regionale che necessariamente incide sulla percezione dei consociati circa l’atteggiamento, in questa materia, delle autorità pubbliche. È, dunque, la ratio ispiratrice della disposizione ad interferire anche con la materia «ordine pubblico e sicurezza». Attraverso il sostegno economico nel procedimento e nel processo è, infatti, incoraggiato (o non scoraggiato), in ambito regionale, il ricorso alla “ragion fattasi” (sentenza n. 172/2017).

Centrale nel ragionamento della Consulta, e questa volta espressamente richiamato, è invece una recente decisione, frutto di una raggiunta piena maturazione esegetica in materia, che, distinguendo tra «sicurezza in senso stretto (o sicurezza primaria)» e «sicurezza in senso lato  (o sicurezza secondaria)», ritiene consentito alle Regioni «realizzare una serie di azioni volte a migliorare le condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito di competenze ad esse assegnate in via residuale o concorrente, come, ad esempio, le politiche (e i servizi) sociali, la polizia locale, l’assistenza sanitaria, il governo del territorio», rientranti appunto nel genus della sicurezza secondaria (Corte cost., n. 285/2019).

In tal senso risulta ad esempio legittima una disciplina regionale che mira a contrastare il cyberbullismo attraverso programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica (sentenza n. 116 del 2019), mentre è incostituzionale la legge regionale istitutiva di una banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, in ragione della sua interferenza con i compiti della Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia (sentenza n. 177 del 2020).

In quest’ottica, e in conclusione, politiche regionali volte ad incentivare un Neighbourhood Watch che impatti in senso esclusivamente – o eminentemente – securitario sul controllo del territorio, sono destinate all’invalidazione perché, lungi dal rappresentare e incentivare fenomeni di “cittadinanza attiva”, rientrano nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza (primaria), così come, al contrario, una normativa statale che confonde la sorveglianza col disagio sociale è destinata ad essere caducata in quanto rientrante nella nozione di sicurezza secondaria.

Il welfarismo criminologico, grande rimosso degli ultimi decenni a causa delle politiche neoliberali elaborate sull’onda lunga delle teorizzazioni della scuola di Chicago, è tornato ad essere un convitato di pietra ben presente nei ragionamenti del nostro giudice delle leggi. È questo il profilo di fondo più importante che emerge dalla sentenza n. 236/2020. Deve però fare i conti con la perdurante, se non accresciuta a causa della crisi pandemica, profonda (e incompiuta) ristrutturazione dello Stato sociale.

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