L’economia non osservata: l’evasione fiscale è una presunzione o una certezza?

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Camilla Buzzacchi

Mentre Parlamento e Governo si accingono a riscrivere le regole del sistema di imposizione, che da anni sono oggetto di avvio di riforma senza che l’intento sia mai stato realizzato, il giudice delle leggi prende posizione rispetto ad uno degli aspetti più macroscopici di distorsione del meccanismo di prelievo fiscale: con la sentenza n. 112 la Corte costituzionale si è pronunciata su una disciplina regionale che effettuava un differente trattamento in riferimento alla tipologia del reddito. 

La decisione presenta profili interessanti per qualche riflessione sugli elementi patologici del sistema fiscale italiano e sui riflessi che tali distorsioni producono in termini di giustizia sociale.

La legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2009, n. 27 in materia di edilizia residenziale pubblica è stata sottoposta a sindacato nelle sue previsioni relative ai canoni di locazione previsti per le abitazioni dell’edilizia popolare: la scelta del legislatore regionale era di individuare due categorie di canone in ragione della forma di reddito dei nuclei famigliari che usufruiscono di questi beni, andando a determinare il canone di locazione c.d. «sopportabile» e riservandolo ai soli titolari di reddito da lavoro dipendente. Infatti un’area c.d. di «protezione» comprendeva canoni di particolare favore per i beneficiari, ovvero di livello minimo; mentre un’area c.d. dell’«accesso» fissava i canoni ad un livello più alto. La prima area era rivolta ai redditi da lavoro dipendente ed alle pensioni, la seconda ai redditi da lavoro autonomo: l’elemento di probabile discriminazione era costituito dal fatto che la base di riferimento fosse la medesima, ovvero la classe ISEE-ERP non inferiore a 9.001,00 euro, cosicché un reddito da lavoro autonomo anche inferiore a tale classe non poteva godere di un canone in regime di «protezione». Il parametro rispetto al quale il Tar Lombardia ha sollevato ricorso è evidentemente l’art. 3 della Costituzione: poiché nella determinazione dei canoni di locazione «sopportabili» non era possibile la collocazione nell’area della «protezione» a soggetti che percepiscono redditi da lavoro autonomo, entrava in gioco il profilo del trattamento diverso di situazioni sostanzialmente uguali e della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore. L’irragionevolezza emergeva dalla scelta di escludere i nuclei familiari con un reddito da lavoro autonomo con ISEE-ERP di entità inferiore alla soglia dei 9.000,00 euro – situazione in cui versava la ricorrente nel giudizio a quo – dalla possibilità di vedersi collocati nella più favorevole categoria della «protezione», che risultava riservata ai soli nuclei familiari con reddito da pensione e da lavoro dipendente.

L’argomento impiegato dal Tar Lombardia per motivare l’impugnazione andava dritto al cuore del problema della tipologia reddituale e del relativo trattamento fiscale: il remittente contestava che la differenza di trattamento potesse «trovare valida ragione giustificatrice nella differente tipologia di rapporto lavorativo che viene in rilievo», e dunque che si potesse accettare un maggior favore nei confronti delle entrate da lavoro dipendente e pensionistiche per il fatto che «le stesse provengono da tipologie lavorative sottoposte a un controllo a monte, mentre tipologie diverse di entrate non sarebbero soggette ad alcun tipo di verifica». Il giudice amministrativo osservava che le modalità con cui si attuano i controlli di natura tributaria non inficerebbero la loro effettività, ben potendo l’accertamento a posteriori sulle entrate derivanti dal lavoro autonomo essere effettuato in maniera non meno efficace del vaglio operato a priori.

Dal canto suo la difesa della Regione si richiamava ad una ragione storica, ovvero la circostanza che in un risalente passato la realizzazione dell’edilizia residenziale pubblica fosse avvenuta grazie all’esclusivo contributo finanziario dei soli lavoratori dipendenti, che pertanto avrebbero titolo ad un minor canone avendo già in parte sostenuto i costi relativi a questo intervento pubblico. Tuttavia il giudice costituzionale ha aderito al ragionamento del Tar e ha accolto il ricorso, contestando la ragionevolezza della disparità di trattamento, che «non può spiegarsi né sotto il profilo della differente disciplina tributaria che caratterizza le varie tipologie di reddito, né con riguardo al contributo finanziario offerto dai lavoratori dipendenti».

Interessa ora ragionare soprattutto sulla prima prospettiva affrontata dalla Corte, quella che riguarda il meccanismo impositivo, che caratterizza i redditi da lavoro autonomo e li differenzia da quelli da pensione e da lavoro dipendente. Il giudice sostiene che «supporre che una simile divergenza possa giustificare la normativa censurata equivarrebbe a presumere iuris et de iure la non veridicità delle dichiarazioni fiscali effettuate dai lavoratori autonomi, sì da ritenere tale categoria di assegnatari a priori meno meritevole di beneficiare di politiche di giustizia sociale». Sarebbe inutile, secondo la Corte, interrogarsi sulla possibilità, che il sistema tributario dischiude ai lavoratori autonomi, di dichiarare il proprio reddito con margini di libertà che ammettono anche l’errore o la negligenza: questa sarebbe una presunzione inaccettabile e dunque, esclusa questa ipotesi, il giudice ha sanzionato la legge regionale che effettua una discriminazione tra questi lavoratori e quelli che non hanno alcuna opportunità di incidere sull’entità del reddito che il datore di lavoro per loro dichiara.

La posizione del giudice è condivisibile laddove evidenzia che il trattamento eterogeneo, sotto il profilo della determinazione dei canoni di locazione, incide sul godimento di un diritto inviolabile, che dovrebbe invece essere riconosciuto indistintamente a qualsiasi lavoratore, se si vuole effettivamente salvaguardare il principio dell’art. 35 Cost. di tutela del lavoro «in tutte le sue forme». Tuttavia il giudice sembra non volere mostrare consapevolezza di quanto ormai è un dato certificato da analisi di ogni natura, e che di recente è stato riconfermato da Corte dei conti e Ufficio parlamentare di bilancio in occasione delle audizioni parlamentari nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario dello scorso febbraio.

Le affermazioni di tali attori istituzionali lasciano pochi dubbi in merito alla presunzione che la Corte costituzionale esclude radicalmente. Si legge nell’audizione dell’UPB che «le detrazioni più elevate per i redditi da lavoro dipendente e da pensione rispetto a quelle da lavoro autonomo sono giustificate, non solo, dal loro accertamento al lordo delle spese di produzione, ma anche dalla maggiore evasione che caratterizza i redditi da lavoro autonomo»; e che «nel complesso circa l’81 per cento dell’imposta è versata da lavoratori dipendenti e pensionati, un dato che sostanzialmente riflette la composizione della platea dei contribuenti, costituiti per l’87 per cento dall’insieme di queste due categorie di percettori». E circa il fenomeno dell’evasione dell’Irpef, esso è espressamente collegato ai lavoratori autonomi e alle imprese ed è «determinato dall’occultamento di tutto o di parte del reddito netto e quindi dalla sopravvalutazione dei costi o dalla sotto-dichiarazione di ricavi». Tale fenomeno, che dà luogo alla c.d. «economia non osservata» poggia, tra l’altro, sul «sommerso economico, essenzialmente derivante dal valore aggiunto occultato attraverso comunicazioni volutamente errate del fatturato e/o dei costi (rilevante principalmente per la stima dell’evasione dell’IVA e dell’Irpef dovuta dai lavoratori autonomi e dalle imprese)».

A sua volta la Corte dei conti ha segnalato «l’elevato grado di evasione» e a tale proposito ha segnalato che «il divario tra gettito teorico ed effettivo (tax gap) per diverse categorie di reddito – anche se non completamente ascrivibile a evasione – appare più ampio nel caso dei redditi di lavoro autonomo che non in quello dei redditi da lavoro dipendente. In base ai dati presentati nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva allegata alla NADEF 2020 (aggiornati a seguito della revisione dei conti nazionali apportata dall’Istat), la propensione al tax gap – in ambito Irpef – è stata pari (nel 2018) al 2,8 per cento per i redditi da lavoro dipendente (4,4 mld di euro) e al 67,6 per cento per i redditi da lavoro autonomo e di impresa (32,7 mld di euro)».

Sono dati rispetto ai quali sembra difficile ragionare astrattamente sull’attitudine di quei lavoratori, che possono liberamente disporre delle proprie dichiarazioni di reddito, di farlo con assoluta obiettività e veridicità.  La presunzione, che il giudice rifiuta, è quella che non ammette alcuna prova in contrario, ed è evidente che quest’ultima è invece assolutamente riconoscibile nel sistema della fiscalità dello Stato: nessuno si permetterebbe di sostenere che la totalità dei lavoratori autonomi forniscono dichiarazioni non veritiere. E tuttavia la presunzione che viene respinta trova il suo fondamento nelle rilevazioni quantitative effettuate in molteplici sedi ufficiali e obiettive – anche ad opera dell’Istat – che ormai presentano un dato difficilmente negabile: 2,8 contro 67,6 per cento in relazione al divario tra gettito teorico ed effettivo costituisce un’evidenza numerica che indiscutibilmente dà la misura di quanto i lavoratori dipendenti sostengano le entrate dello Stato.

Anche il successivo passaggio nelle argomentazioni della decisione, quello in tema di giustizia sociale, risulta ulteriormente viziato dal mancato confronto con dati ufficiali. Se si riflette sul fatto che l’art. 53 Cost. chiede a tutti i consociati di concorrere alle spese pubbliche, affinché i diritti sociali possano essere garantiti indistintamente a tutti i lavoratori, non si può pretendere tale orizzonte di equità e di redistribuzione qualora un elevato numero dei medesimi lavoratori si sottraggano al dovere costituzionale di contribuire alla raccolta delle risorse tributarie.

Ma proprio rispetto a questa prospettiva di rilievo costituzionale il giudice delle leggi correttamente ha sanzionato il legislatore regionale. È vero infatti che non spetta alle Regioni correggere le disfunzioni e le patologie del sistema tributario dello Stato, andando a introdurre elementi di discriminazione tra i contribuenti: la soluzione a meccanismi ormai distorti, che non garantiscono l’equa distribuzione dei carichi fiscali, non può essere lasciata a discipline regionali che, al contrario, non possono che aggravare le inaccettabili differenze di trattamento delle diverse categorie di lavoratori. Pertanto inevitabile e condivisibile è stato l’annullamento della previsione della legge lombarda, certamente poco idonea ad assicurare obiettivi di eguaglianza sostanziale.

E tuttavia rimane enigmatico il punto di vista del garante della Costituzione, che non lascia spazio neanche al minimo dubbio che il sistema tributario nazionale abbia ormai raggiunto livelli gravi e oggettivi di disparità di trattamento dei contribuenti e di tolleranza nei confronti di un fenomeno di evasione, che sfortunatamente non è una presunzione ma una certezza: la formula che descrive questa realtà – economia non osservata – appare quanto mai emblematica. La battaglia del fenomeno è affidata a tutte le istituzioni e alla stessa società, e dunque anche ai privati, nei limiti di quanto possono adoperarsi per eliminare propri e altrui comportamenti che si allontanano dai principi che discendono dall’art. 53 Cost.: sicuramente un primo contributo significativo può essere rappresentato dal pieno riconoscimento da parte di tutti – istituzioni e società – che l’evasione fiscale non è un comportamento degno del cittadino e che solo la sua eliminazione può avvicinare il Paese a risultati di maggiore giustizia sociale.

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