Temi e problemi del quesito referendario sulla legge Severino

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di Alessandro Gigliotti

Il primo quesito referendario sul quale gli italiani saranno chiamati a votare il prossimo 12 giugno è tra i più semplici e lineari, avendo ad oggetto l’abrogazione totale di un atto legislativo – cosa che, ormai, rappresenta quasi un’eccezione, dato che nella stragrande maggioranza dei casi i quesiti sono non soltanto parziali ma altresì redatti utilizzando la tecnica del ritaglio di singole porzioni di testo, non sempre aventi un autonomo valore linguistico prima ancora che normativo – e ponendo pertanto l’elettore di fronte alla scelta se abrogare un intero e sistematico apparato di norme o mantenerlo in vigore. Si tratta, peraltro, dell’unico non propriamente riconducibile in senso stretto al tema della giustizia, poiché esso verte sull’istituto dell’incandidabilità per le cariche elettive e di governo in conseguenza di sentenze definitive di condanna in sede penale, attualmente disciplinato dal decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, meglio noto alla cronaca come “legge Severino” dal ministro della giustizia del governo Monti che lo adottò, quasi dieci anni fa.

Com’è noto, il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, dispone un riordino delle disposizioni normative in tema di incandidabilità per le cariche politiche regionali ed amministrative, già vigenti da diversi anni, e vi aggiunge anche norme che si applicano alle cariche politiche di vertice – parlamentari, governative ed europee – nei cui confronti l’istituto dell’incandidabilità, sino a quel momento, non era previsto. In particolare, per quanto concerne le cariche di livello nazionale ed europeo, il decreto prevede che un soggetto, a seguito di condanna definitiva a pene superiori a due anni di reclusione per una serie di reati espressamente indicati (in particolare, associazione di stampo mafioso, terrorismo, delitti contro la pubblica amministrazione, delitti non colposi per i quali siano prevista una pena massima non inferiore ai quattro anni di reclusione) non possa: 1) essere candidato presso la Camera dei deputati, il Senato della Repubblica ed il Parlamento europeo o comunque mantenere la carica precedentemente assunta; 2) ricoprire cariche governative, nelle figure del Presidente del Consiglio dei ministri, del Ministro, del Vice Ministro, del sottosegretario di Stato o del commissario straordinario del Governo. La preclusione all’assunzione di tali cariche ha effetto dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e ha una durata corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, in ogni caso non inferiore a sei anni.

La ratio dell’istituto è sin troppo evidente e consiste nell’evitare che un soggetto condannato in via definitiva possa ricoprire – o mantenere, nel caso la ricopra già – una carica elettiva o di governo. A tal proposito, occorre precisare che l’incandidabilità non ha la natura giuridica di sanzione penale accessoria – sul punto, si veda in particolare la sentenza 19 novembre 2015, n. 236, della Corte costituzionale, che reca ulteriori richiami giurisprudenziali – e va pertanto distinta dalla suaccennata interdizione temporanea dai pubblici uffici. Pur avendo conseguenze di ordine pratico sostanzialmente simili, tra interdizione e incandidabilità sussistono quanto meno tre significative differenze: in primo luogo, l’interdizione comporta la perdita di tutti i diritti politici e non soltanto dell’elettorato passivo, mentre il soggetto incandidabile conserva la pienezza di tali diritti salvo, per l’appunto, la capacità elettorale passiva; in secondo luogo, l’incandidabilità preclude – come suggerisce del resto il nomen iuris – la presentazione della candidatura e la sua cognizione è pertanto demandata agli uffici elettorali, mentre l’interdizione e l’ineleggibilità che ne consegue operano sul piano della validità dell’elezione ed il relativo accertamento è posticipato alla fase della convalida anziché avvenire in quella preparatoria del procedimento elettorale; infine, mentre l’interdizione temporanea è una sanzione che viene comminata volta per volta dal giudice, il quale ne fissa altresì la durata da un minimo di un anno ad un massimo di cinque, l’incandidabilità opera in via automatica e ha una durata minima, come si è visto, di sei anni.

Da queste poche righe si evince già un primo tema rimesso alle valutazioni dell’elettore, il quale potrebbe ben notare che l’esigenza di evitare che un soggetto condannato in via definitiva per un reato di una certa gravità possa ricoprire cariche pubbliche è già soddisfatta dall’istituto dell’interdizione dai pubblici uffici, sia essa perpetua o meramente temporanea e prescindendo dalla differente natura giuridica tra tale istituto e quello dell’incandidabilità. Al momento di emettere una sentenza di condanna, al giudice compete valutare, caso per caso, se alla pena principale debba conseguire quella accessoria dell’interdizione, che ha effetti sostanzialmente analoghi a quelli che discendono dalla “legge Severino” la cui disciplina, pertanto, tende a sovrapporsi ad un’altra già esistente e dalle finalità – sotto questo profilo – non dissimili. Non si vede bene, infatti, per quale ragione ad un soggetto condannato in via definitiva, nei cui confronti il giudice non abbia ritenuto di dover disporre l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, debba essere precluso l’accesso ad una carica elettiva o di governo. E se l’interdizione opera, è difficile comprendere quale utilità pratica possa avere un’ulteriore limitazione del diritto di elettorato passivo, se non quella di allungarne la durata rispetto alla sanzione accessoria.

In senso contrario, tuttavia, si potrebbe sostenere che l’istituto dell’incandidabilità è stato introdotto proprio per sopperire ad alcuni limiti intrinseci dell’interdizione e che, del resto, la stessa Costituzione prevede che la legge possa fissare i requisiti per consentire l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 51). L’incandidabilità, come ha evidenziato più e più volte la Corte costituzionale – ma in senso conforme si è pronunciata anche la Corte di Strasburgo –, viaggia su binari propri ed ha logiche che attengono all’individuazione di requisiti soggettivi per l’accesso alle cariche pubbliche, in attuazione dell’art. 51 della Costituzione e in combinato disposto con l’art. 65 che rinvia alla legge per la determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità con le cariche parlamentari. L’automatismo, la durata minima superiore a quella delle principali cariche considerate e l’impossibilità per il soggetto condannato di prendere parte alla competizione elettorale – il relativo accertamento, come si è visto, avviene nella fase preparatoria del procedimento elettorale – sono del resto fattori che rendono obiettivamente meno probabile che un soggetto condannato in via definitiva possa ricoprire una carica elettiva o di governo.

Le considerazioni sin qui svolte sono del tutto estensibili anche alle cariche regionali ed a quelle amministrative, anch’esse disciplinate dalla “legge Severino” – nei capi III e IV – ma con differenze non di poco conto rispetto a quelle parlamentari, europee e governative. Per le cariche in oggetto, infatti, il decreto legislativo prevede non soltanto l’incandidabilità in caso di condanna definitiva per una serie di delitti espressamente indicati – tra cui l’associazionismo di tipo mafioso o finalizzato al traffico di sostanze stupefacenti, quelli contro la pubblica amministrazione e, più in generale, i delitti non colposi che diano luogo a condanne ad una pena non inferiore a due anni di reclusione – ma altresì la temporanea sospensione dalla carica in caso di condanna non definitiva per i medesimi reati o di misura preventiva, anch’essa non definitiva, in quanto si sia indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso. Anche in questo caso, l’incandidabilità e la sospensione operano non solo per le cariche elettive ma anche per quelle di “governo”, vale a dire per gli assessori, nonché per gli amministratori e per i componenti degli organi delle aziende sanitarie locali, per i presidenti e i componenti del consiglio di amministrazione dei consorzi, per i presidenti e i componenti dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, per i consigliere di amministrazione e i presidenti delle aziende speciali e per i presidenti e componenti degli organi delle comunità montane.

Se l’incandidabilità conseguente alla condanna definitiva desta i medesimi dubbi di cui si è detto poc’anzi, legati alla sostanziale sovrapposizione con l’istituto dell’interdizione dai pubblici uffici, la sospensione temporanea in caso di condanna non definitiva pone l’ulteriore tema del rispetto di alcuni principi di ordine costituzionale quali in particolare la presunzione di non colpevolezza, sebbene la Corte costituzionale, in diverse pronunce, abbia sempre escluso che tale istituto si ponga in violazione dei vari parametri costituzionali volta per volta evocati, in quanto costituisce «il frutto di un ragionevole bilanciamento tra gli interessi che vengono in gioco nella disciplina dei requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche in questione, e quindi tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, dall’altro» (Corte costituzionale, sentenza 11 marzo 2021, n. 35). Ad ogni modo, anche prescindendo dalla presenza di eventuali vizi di legittimità costituzionale, resta pur sempre da valutare l’opportunità di una simile disciplina, che nel corso degli anni è divenuta sempre più stringente sino a generare non poche aporie: a tal proposito, occorre evidenziare che il testo originario dell’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, che ha introdotto per la prima volta l’istituto in questione, prevedeva la sospensione dalla carica per gli amministratori regionali e locali nel solo caso di rinvio a giudizio per il reato di associazionismo di stampo mafioso o per favoreggiamento, ovvero per applicazione di una misura di prevenzione, non definitiva, in quanto il soggetto fosse indiziato di appartenere ad una di tali associazioni. Dal 1992 in poi, sull’onda emotiva dell’inchiesta “Mani pulite”, le fattispecie che danno luogo alla sospensione sono state notevolmente ampliate con evidenti ripercussioni sul profilo della ragionevolezza: non soltanto per l’automatismo che poco si confà ad una misura cautelare, ma anche e soprattutto per la sproporzione esistente tra il numero di condanne non definitive e quello delle sentenze di condanna passate in giudicato per alcuni degli illeciti ivi ricompresi, quali in particolare l’abuso d’ufficio, il peculato, la corruzione e la concussione. Si ricorderanno, a titolo di esempio, i noti precedenti di Luigi De Magistris, che nell’ottobre 2014 fu sospeso dalla carica di sindaco di Napoli per via di una condanna in primo grado per abuso di ufficio – relativo all’inchiesta Why not – per poi venire assolto in appello l’anno seguente, e di Vincenzo De Luca, che nel 2015 fu sospeso dalla carica di Presidente della Regione Campania subito dopo l’elezione per via di una precedente condanna in primo grado – anche qui per abuso d’ufficio, contestatogli in ordine alla realizzazione del termovalorizzatore di Salerno – salvo poi essere assolto in appello l’anno successivo.

Obiettivo dichiarato dei promotori, del resto, è proprio quello di evitare che i titolari di cariche regionali ed amministrative possano essere colpiti da un provvedimento di sospensione in conseguenza di condanne non definitive, soprattutto alla luce dei numerosi casi di amministratori locali sospesi e successivamente assolti in via definitiva. Va del pari evidenziato che un’eventuale vittoria del “sì” avrebbe effetti ben più dirompenti di quelli prospettati, poiché il quesito – come si è visto – è stato formulato in modo tale da abrogare la “legge Severino” nella sua interezza e con la sua caducazione verrebbe meno non soltanto il contestato istituto della sospensione, ma anche quello dell’incandidabilità che ha presupposti ben diversi e che, discendendo da condanne passate in giudicato, non pone i suaccennati problemi. In conclusione, sembra doversi rilevare che, sotto questo profilo, sarebbe stato forse più opportuno distinguere i due temi e predisporre due quesiti autonomi, in modo da consentire l’abrogazione delle sole norme sulla sospensione senza travolgere anche quelle sull’incandidabilità.

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