La causa climatica italiana “Giudizio universale” inizia finalmente a costituire oggetto di approfondimento monografico da parte della dottrina. È un riscontro importante, perché la vicenda è inedita nel panorama dell’esperienza giuridica nazionale e perché l’emergenza climatica ha, ad oggi, appassionato poco o nulla l’opinione dei giuristi del nostro Paese (a differenza dell’inflazionata passione per l’emergenza Covid).
Due monografie, in controtendenza, dedicano un apposito capitolo al fatto. La prima è di Attilio Pisanò (Diritto al clima. Il ruolo dei diritti nei contenziosi climatici europei), che si sofferma sulla rivendicazione, da parte degli attori, del diritto umano al clima stabile e sicuro. La seconda è a firma di Luciano Butti e Stefano Nespor (Diritto del clima) e si concentra sulla necessità del bilanciamento costituzionale nella soluzione della controversia italiana.
Richiama l’attenzione quest’ultimo lavoro, in quanto il suo contenuto evidenzia una contraddizione, presente, prima ancora che nel libro, nel tema discusso: il rapporto tra emergenza climatica e bilanciamento costituzionale.
Secondo gli autori, l’emergenza climatica sarebbe una “tempesta morale perfetta”. In proposito, citano il celebre saggio di Stephen Gardiner del 2011 (A perfect moral Storm: The Ethical Tragedy of Climate Change). Com’è noto, una tempesta è detta “perfetta” allorquando, nello stesso tempo e nello stesso spazio, convergono più fattori perturbatori e distruttivi, che si alimentano e potenziano reciprocamente, determinando i c.d. “effetti a cascata” (o “domino”) che ogni singolo fattore, da solo, non sarebbe stato in grado di provocare.
Effettivamente, l’emergenza climatica è proprio questo: una convergenza distruttiva di aumento della temperatura globale, perdita di biodiversità, inquinamento, zoonosi, desertificazione, estinzioni di massa ecc…: processi tutti causati dal costante e irrefrenabile aumento della pressione umana sul pianeta (cfr. M. Carducci, L’emergenza climatica ed ecosistemica come ingiustizia “di specie”). Secondo alcuni Autori, essa è una manifestazione non tanto del c.d. “Antropocene”, quanto della sua fine (R.E. Kim, Taming Gaia 2.0: Earth system law in the ruptured Anthropocene).
Questa “tempesta”, però, non è solo “morale”: è soprattutto “reale”. Di conseguenza, la sua “tragedia” non è semplicemente “etica”. La Banca Internazionale dei Regolamenti l’ha denominata “tragedia dell’orizzonte temporale” (BIS, The Green Swan), in quanto il vettore determinante della sua catena degenerativa è il poco tempo rimasto per contrastare o comunque contenere contemporaneamente tutti i fattori che rendono “perfetta” la “tempesta”.
Certo, se la “tragedia” fosse solo “morale”, il bilanciamento sarebbe tranquillamente perseguibile. Ma se lo scenario è quello di una “minaccia esistenziale” per l’umanità, determinata dal poco tempo a disposizione, come esplicitamente dichiarato dalla UE con il Reg. n. 2021/1119, che si fa?
Al netto dei negazionismi da social o da conflitto di interessi, la domanda è ineludibile, perché il fatto emergenziale non sembra conoscere confutazione scientifica dimostrabile (stando almeno ai resoconti offerti – e votati dagli Stati – nei Rapporti dell’IPCC dell’ONU).
Butti e Nespor sembrano concludere (alle pagg. 258-259) che la soluzione starebbe comunque nella replica del bilanciamento costituzionale di diritti e interessi ad oggi sperimentato da legislatori e giudici; e questo per il fatto che «nessun diritto costituzionale (nemmeno quello alla salute o alla salubrità ambientale) può essere ‘tiranno’ rispetto ad altri diritti costituzionali, essendo invece sempre necessario un bilanciamento». A supporto, citano, quasi in scontata ovvietà, l’arcinota sentenza della Corte costituzionale sul caso ex Ilva di Taranto n. 85/2013.
Questa conclusione contiene una fallacia deduttiva, che è bene evidenziare, non a fini di recensione critica del volume, bensì per contestualizzare l’effettiva posta in gioco che la causa “Giudizio universale” (la prima che assume il fatto emergenziale climatico come illecito di cui rispondere), offre all’esperienza giuridica.
In primo luogo, bisogna scongiurare la citazione parziale e decontestualizzata della sentenza costituzionale n. 85/2013. Per farlo, conviene leggere la sentenza successiva sempre della Corte costituzionale e sempre riferita al caso ex Ilva: la n. 58/2018. Quella pronuncia, riprendendo esplicitamente il testo del 2013, ci dice che il bilanciamento in presenza di una situazione di grave pericolo (qual è l’emergenza climatica, ambientale e sanitaria di Taranto) deve essere rapportato al fattore tempo, più precisamente al tempo definito dai poteri per porre rimedio all’emergenza, dato che il dovere prioritario da perseguire resta comunque «rimuovere prontamente i fattori di pericolo» in quanto «condizione minima e indispensabile» affinché qualsiasi attività «si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona». Se è così, il bilanciamento non è libero: è condizionato dal tempo. E se lo è per una emergenza “locale” come Taranto, perché mai non dovrebbe esserlo per una emergenza nazionale, europea e planetaria, come quella climatica?
In effetti, ha ragione la Banca Internazionale dei Regolamenti: l’emergenza climatica è una “tragedia” non “morale” ma “del tempo” e al fattore tempo va parametrata l’operazione di bilanciamento.
Un primo tassello nel mosaico costituzionale delle argomentazioni sostenibili è stato inserito.
Vediamo il secondo: quali dovrebbero essere gli elementi da bilanciare per scongiurare “tirannie” di diritti, se, a essere “tiranno”, non è un diritto ma appunto il tempo, da cui dipende la sopravvivenza di tutti i diritti?
La questione è veramente seria. Con l’aumento del riscaldamento globale e il crollo degli equilibri ecosistemici, muteranno irreversibilmente le nicchie climatiche ed ecologiche della vita (non solo umana). Diversi studi hanno calcolato che il superamento della temperatura media globale oltre la soglia di 1,5°C (attualmente siamo già a +1,1°C), concordata dagli Stati nel Glasgow Climate Pact del 2021, condurrà il 40% della popolazione mondiale, inclusa quella delle sponde del Mediterraneo, a vivere in condizioni impossibili di adattamento alle trasformazioni biosferiche (cfr. J. Dinneen, 40 per cent of people could live outside ‘human climate niche’ by 2100).
Noi siamo stati educati, come giuristi, a predicare e praticare proporzionalità e bilanciamento nella “normalità” dei fatti e nella duplice presunzione che l’emergenza sia sempre una “parentesi” nella continuità dell’esperienza giuridica e che i diritti umani siano una variabile “resistente” al tempo. L’emergenza climatica ci smentisce: non inaugura l’ennesima parentesi ma una trasformazione degenerativa; di fronte a essa, i diritti sono destinati a non resistere nel tempo, diventando qualitativamente “a scadenza” (da questo punto di vista, la categoria di “intertemporale Freiheitssicherung” – messa in sicurezza intertemporale delle libertà – elaborata dalla Corte costituzionale tedesca nel caso climatico “Neubauer”, è straordinariamente esplicativa).
I problemi “teorici” del bilanciamento (su cui si v. la sintesi in P. Chiassoni, Tre problemi di teoria del bilanciamento) sono diventati “esistenziali”: che ce ne facciamo di un bilanciamento che non ci salva dalla catastrofe? Questo significa che siamo alla “fine” dell’era del bilanciamento? Oppure dobbiamo cambiare il “fine” del bilanciamento?
La domanda rintraccia risposte nelle istituzioni scientifiche, prima ancora che nelle accademie di giurisprudenza. La prospettiva c.d. “One Health-Planetary Health” ne offre il contenuto. Nel dicembre 2021, è stata consolidata a livello globale la c.d. “Tripartite +”, un’alleanza istituzionale e scientifica che ha voluto elaborare, mediante un comitato di esperti (il One Health High Level Expert Panel), una definizione formale di One Health, sintetizzata dall’«approccio integrato e unificante che punta a bilanciare e ottimizzare, in modo sostenibile, la salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi». Ecco l’altro tassello: il mandato costituzionale di ottimizzazione dei diritti (quello che ha reso celebre nel mondo Robert Alexy), transita dalla dimensione umana a quella biofisica della salute di tutte le componenti vitali della biosfera. Il nuovo “fine” del bilanciamento non coincide più con l’ormai insostenibile endiadi “diritti e interessi” solo umani e sociali; si apre alla vita del sistema Terra, senza la quale non sopravvivono né diritti né interessi né società.
Certo, tutto questo comporta e comporterà costi, di cui tener conto nel bilanciamento, al fine di renderlo “ragionevole” e “proporzionato”. Ma siamo sicuri che ragionevolezza e proporzionalità vadano parametrati ai costi e non invece ai risparmi?
Questo è l’ultimo tassello della “fine” del bilanciamento ad oggi praticato, che integra il nuovo “fine” delle operazioni future, di cui dovranno tener conto anche i giudici.
Per esempio, secondo il Global Turning Point Report 2022 di Deloitte, accelerare nel mondo l’abbandono delle risorse fossili per il 2030 potrebbe far guadagnare 43trilioni di dollari al 2050, mentre, solo per l’Italia, la persistente inerzia potrebbe costare circa 115 miliardi al 2070, l’equivalente di una caduta del 3,2% del PIL. Ed è un conteggio economico.
Ma quante morti si eviterebbero per ogni tonnellata di gas serra eliminata? Il “mortality cost of carbon” risponde alla domanda definendo il criterio di equivalenza tra costi e benefici dei nuovi “fini” del bilanciamento.
E quali sarebbero i costi della irreversibilità delle trasformazioni del sistema climatico? Gli “Economic impacts of tipping points in the climate system” servono allo scopo.
Insomma, gli elementi per discutere del nuovo “fine” del bilanciamento ci sono e non possono essere più ignorati, se non vogliamo la “fine” di questo sistema climatico e dei suoi insostenibili bilanciamenti solo umani.
In fin dei conti, si tratta di dare contenuto, accertabile e verificabile rispetto alla variabile del poco tempo rimasto, al rapporto