Va premesso che cambiare la forma di governo parlamentare in chiave “presidenziale” è e resta una complicata ancorché di per sé legittima operazione di revisione costituzionale della struttura ordinamentale del Paese.Mi limito solo far rilevare a chi si accinge a governare con numeri – in apparenza – tranquillizzanti per la stabilità dell’Esecutivo che questa condizione è stata ottenuta – malgrado una legge elettorale irragionevole e dunque probabilmente illegittima – nel contesto parlamentare vigente. E non è certo la prima volta che i Governi italiani possono contare su una solida maggioranza parlamentare che poi, via via, trova il modo di dissolversi sino a giungere alla irreversibilità della crisi di maggioranza o, almeno, a rimaneggiamenti della struttura ministeriale. Posto che la Presidente Meloni ha avvertito il bisogno di spingere l’orizzonte del suo Governo verso la sponda del “presidenzialismo”, solleverei qualche questione metodologica sulla portata di questa impostazione ovviamente cruciale.
La prima. Sarebbe bene che il Governo attuale e la sua maggioranza – a maggior ragione volendosi caratterizzare per “pragmatismo” post ideologico – non ritenessero, ancora una volta, di provvedere in solitudine e senza un contributo – anche nel merito – quantomeno delle opposizioni più significative, ad apportare modificazioni costituzionali di così ampio raggio e rilevanti conseguenze, come accadrebbe se si mutasse l’attuale, tradizionale sistema di governo. Le revisioni costituzionali, come è noto non solo nell’ordinamento italiano, mettono in moto “percorsi parlamentari” lunghi e impegnativi che nel nostro caso potrebbero sfociare anche in una procedura referendaria determinante ai fini della loro definitiva approvazione; ed è bene non sottovalutare gli orientamenti espressi sul punto proprio dal corpo elettorale che ha già disatteso, in qualche caso clamorosamente, delibere parlamentari “spinte” solo dal Governo in carica e dalla maggioranza di riferimento contro le opposizioni.
La seconda. Se si vuole, il tema istituzionale, e certo anche di caratura costituzionale in senso proprio, più urgente e significativo, è e resta quello della rivitalizzazione della rappresentanza (il tema è la disaffezione al voto e l’asfissia della militanza partitica): è evidente come si debba tornare prima possibile a meccanismi razionali e logici per l’elezione dei membri delle Camere o anche di una sola Camera politica ove si fosse in grado di superare in modo adeguato l’attuale sistema bicamerale (tema che di per sé non tocca il sistema di governo di tipo parlamentare). Quello che non si può in ogni caso ignorare, una volta che si sollevano questioni di questo tipo nel momento stesso dell’insediamento del Governo ritenendo di indicare da subito la stella polare del “presidenzialismo”, è il destino che si pensa di riservare all’organo parlamentare e, inevitabilmente, al raccordo che si intende instaurare tra il futuribile “Governo del Presidente” e l’organo della rappresentanza politica generale o, se si vuole, nazionale. Come è noto da tempo, e oramai non solo ai costituzionalisti, guardare al modello semipresidenziale francese è cosa ben diversa dal considerare il modello presidenziale statunitense; così come è altresì noto che, per restare nell’ordinamento italiano, gli assetti ordinamentali dei maggiori Comuni e delle Regioni (in questo caso essendosi giunti persino ad una forma di governo standard trasfusa inopinatamente in formula costituzionale con l’avallo referendario quando, tra la fine degli anni novanta e il 2001, la maggioranza di governo era quella di centro-sinistra) realizzano assetti relazionali che non corrispondo né a uno e né all’altro modello. In ogni caso e pur restando sul vago circa il “tipo” di presidenzialismo preferito dall’attuale leadership governativa (nel nostro Paese ci sono da tempo e non solo a destra, “tifosi” del semipresidenzialismo alla francese) e anche senza ritornare sul tema della pur indispensabile riforma per l’elezione dei parlamentari, sarebbe indispensabile chiedere e ottenere un chiarimento almeno su quali nuovi poteri il Capo dello Stato direttamente eletto, potrebbe vedersi riconosciuti in aggiunta agli attuali, al fine di poter, più significativamente, agire sul terreno, così si dice nella vulgata, della stabilizzazione dell’indirizzo politico.
Dovrebbe essere scontato, almeno a mio avviso, che desiderandosi superare l’attuale sistema parlamentare, almeno su questo preliminare tema venga fornita una risposta, pur se vagamente collegata alla modellistica costituzionale sperimentata negli ordinamenti democratici occidentali. Senza alcuna cautela persino semantica, può darsi piuttosto l’impressione di parlare gergalmente di “presidenzialismo” sulla base di un approccio istituzionale poco meditato tutto proteso a dimostrare di essere in grado di investire, in forza di una opportuna riforma costituzionale che riecheggia altri ordinamenti, il corpo elettorale di una scelta decisiva tale da favorire l’affermazione di un coerente indirizzo politico maggioritario per tutto il tempo della durata in carica di un Presidente eletto.
In realtà, né negli Stati Uniti né in Francia – è bene rammentarlo – nonostante la diretta individuazione del “capo” del Governo, si perseguono le condizioni costituzionali per garantire la realizzazione certa di programmi e scelte presidenziali (pur se evidentemente “condivise” dalla maggioranza dei suoi elettori): la autonoma vitalità del Congresso statunitense, con i suoi periodici rinnovi parziali, come pure la stessa necessità di tenere conto degli equilibri politici interni all’Assemblea Nazionale francese – posto che non è detto si possano scongiurare ipotesi di cohabitation con un Primo Ministro e una maggioranza dissonante nonostante nel 2001 sia stato disposto il mutamento della tempistica elettorale al fine di favorire “il trascinamento” sull’elezione parlamentare di quella presidenziale – sono elementi strutturali capaci di correggere e superare in qualche non raro caso l’indirizzo propugnato dal “capo” del Governo, cui sono peraltro consentiti due soli mandati elettivi (rispettivamente di quattro ovvero di cinque anni ciascuno). Sembrerebbero cose oltre che pacifiche già verificatesi proprio recentemente nella prassi tanto negli Stati Uniti (si pensi alla contrapposizione frontale tra Trump e in particolare la Camera dei rappresentanti, non proprio o almeno non sempre risoltasi in favore del primo) quanto in Francia (la maggioranza parlamentare, dopo la rielezione di Macron, ha registrato un netto assottigliamento della forza politica di riferimento del Presidente, che ha imposto l’affermarsi di logiche coalizionali precedentemente escluse).
Per quanto attiene all’enfasi di qualche senatore oggi collocato all’opposizione a proposito di un possibile gioco di sponda con la maggioranza governativa con riguardo alla c.d. elezione del Sindaco d’Italia, proposta costituzionale con la quale il diretto interessato aveva tentato di consolidare la sua leadership di governo bocciata sonoramente dal corpo elettorale referendario nel dicembre del 2016, tramutandolo così, dall’oggi al domani, da “statista” in “stratega” per sé stesso e un manipolo di sostenitori fidelizzati, credo sia orami inutile spendere parole per tentare di confutare la insensatezza tecnica che nasconde la proposta di trasferire a livello di governo centrale l’assetto strutturale prodotto dalla legge del 1993 sull’elezione diretta del Sindaco e – si badi – contestualmente del “prono” Consiglio comunale che, almeno a mio modo di vedere, produce effetti non proprio apprezzabili già a livello regionale (penso ovviamente alla capacità di incidenza effettiva dei Consigli rispetto alle politiche dei rispettivi Presidenti o, come si dice, Governatori e non solo con riguardo ai gruppi collocati all’opposizione). In ogni caso non si tratta di “presidenzialismo” e neppure di “semipresidenzialismo” nel senso noto alla modellistica classica delle forme di governo.
In conclusione: mi pare che le gravi questioni che attendono il nuovo Governo, nel sempre giustamente richiamato e drammatico contesto europeo e internazionale, siano altre; e che tuttavia l’Esecutivo, insediatosi su una base parlamentare solida intorno ad una guida non discutibile sotto il profilo del consenso ottenuto, sia stato messo dal sistema nelle condizioni istituzionali per poterle affrontare “da maggioranza” e con “leader” riconducibile ad un chiaro orientamento del corpo elettorale.
Ed allora: era proprio necessario per la Presidente Meloni sollevare un tema, quale quello della riforma costituzionale in senso presidenziale, così complesso e sotto molti profili divisivo, probabilmente più di quello che si pensa persino dalle parti dell’attuale maggioranza, nel momento in cui è nato un solido governo parlamentare che si è oltretutto potuto giovare (finalmente verrebbe da dire) di una saggia e discreta regia del Capo dello Stato, il cui “magistero” è stato pubblicamente lodato dalla diretta interessata? Speriamo si sia trattato di un impulso giovanilistico poco meditato perché altrimenti si inizia proprio sul terreno che più scivoloso, quello dell’affidabilità costituzionale, a complicare la navigazione del Governo appena insediato.