Giudizio Universale

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di Fabrizio Motta

Giudizio Universale”, come noto, è il nome dato al contenzioso verso lo Stato italiano per chiedere l’abbattimento drastico e rapidissimo delle emissioni di gas serra, al fine di contrastare efficacemente gli impatti sul territorio nazionale dell’emergenza climatica in atto.

Esso si inserisce in un quadro mondiale di costante incremento di questo genere di iniziative, che – di recente – sono state segnate da due importanti novità:

– la prima, rilevabile dalle banche dati giurisprudenziali (v. qui e qui), evidenzia l’affermazione maggioritaria di una opinio iuris giurisprudenziale mondiale che non solo riconosce la legittimazione ad agire su questo tema, ma soprattutto imputa agli Stati convenuti una responsabilità extracontrattuale sul facere della mitigazione climatica, in quanto misura prioritariamente necessaria contro la minaccia esistenziale della vita umana;

– la seconda consiste nel diffondersi di azioni a livello internazionale, finalizzate ad elencare gli obblighi degli Stati di fronte appunto alla minaccia esistenziale della vita umana, alla luce del diritto internazionale, generale e convenzionale, e di quello diritti umani nel quadro dei principi “No Harm” e “neminem laedere”.

Quest’ultimo scenario condizionerà giocoforza il seguito dei contenziosi climatici nazionali ancora pendenti, incluso pure quello di “Giudizio Universale”, rafforzando le ragioni degli attori. Vediamo perché.

Le iniziative a livello internazionale sono quattro:

–  la richiesta, su impulso della Repubblica di Vanuatu (c.d. “Vanuatu ICJ Initiative”), di parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia, sfociata, il 20 febbraio 2023, in una proposta di Risoluzione all’Assemblea ONU che, con l’appoggio di oltre 100 Stati, incarica la Corte di definire, in ossequio al diritto delle “nazioni civili” (indicato dall’art. 38 dello Statuto della Corte) e dei principi “No Harm” (tra Stati) e “neminem laedere” (tra Stato e individui), l’insieme di tutti gli obblighi statali funzionali a garantire la protezione del sistema climatico dalle emissioni antropogeniche e rispondere delle conseguenze giuridiche per i danni, in corso e futuri, che colpiscono territori, popoli e individui delle generazioni presenti e future;

– l’istanza, formalizzata il 12 dicembre 2022 dalla “Commissione dei piccoli Stati insulari sui cambiamenti climatici” davanti al Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare, di parere consultivo dai contenuti analoghi a quello della “Vanuatu Initiative”, ma specificamente riferito alla vulnerabilità dei territori in condizioni di c.d. “hot-spot” climatico (ossia di forte esposizione ai punti di ribaltamento del sistema climatico);

– la “Solicitud” di Opinione Consultiva della Corte Interamericana dei Diritti Umani, avanzata da Colombia e Cile, mirante a qualificare nel dettaglio, in continuità con la precedente O.C. n. 23/17 della medesima Corte, gli obblighi, territoriali e trans-territoriali, di tutela dei diritti umani nell’inedito panorama dell’emergenza climatica;

–  i ricorsi cittadini alla Corte Europea dei Diritti Umani, tre dei quali riguardanti anche l’Italia (Duarte Agostinho et al. c. Portugal et al., rimesso alla Gran Camera della Corte; De Conto c. Italy et al.; Uricchio c. Italy et al.).

Tutte e quattro le iniziative sono a favore della promozione dei diritti umani. Esse, pertanto, suggelleranno opinioni condivise su fatti e situazioni normative riguardanti appunto la persistenza temporale dei diritti: da un lato, si dovrà decidere come inquadrare giuridicamente l’emergenza climatica e il suo aggravamento negli “hot-spot” climatici che vulnerano territori, popolazioni e individui; dall’altro, si dovrà procedere all’inventario, come diritto delle “nazioni civili” e dei diritti umani, degli obblighi tra Stati (in termini, quindi, di Responsibility secondo il principio del “No Harm”) e fra Stato  e individui (in termini, dunque, di Liability in nome del “neminem laedere”).

È del tutto improbabile che i quattro giudizi internazionali si andranno a contraddire o elidere a vicenda. La Corte Interamericana sui Diritti Umani si è già espressa su “No Harm” e “neminem laedere” nel cambiamento climatico antropogenico, con la precedente cit. O.C. n. 23/17 (cfr. T.F. García Garcés et al. 2020), sicché sarebbe surreale immaginare decisioni di contrario avviso, nel passaggio degenerativo dal mero cambiamento climatico alla minaccia esistenziale dell’emergenza planetaria. La Corte Internazionale di Giustizia presenta già una giurisprudenza consolidata in tema di responsabilità civile ambientale nella tutela anche dei diritti umani (cfr. S. Poli 2016) e sul “No Harm” come Jus cogens (cfr., per es., Certain Activities Carried Out by Nicaragua in the Border Area: Costa Rica v. Nicaragua), mentre, sempre a livello ONU, il Comitato sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha già riconosciuto l’effetto dannoso dei cambiamenti climatici sui diritti dei minori e la responsabilità transfrontaliera degli Stati nei loro confronti (cfr. il Comunicato dell’11 ottobre 2021). Infine, la Corte Europea detiene un consolidato orientamento sui doveri statali di prevenzione del rischio ambientale e connessa responsabilità in situazioni di minaccia, ai sensi degli artt. 2 e 8 CEDU (cfr. ECHR, Environment and the European Convention on Human Rights).

Insomma, gli ancoraggi di previsione ci sono tutti, rafforzati – ora – da un corpo di precedenti giurisprudenziali nazionali di condanna degli Stati, che ha messo all’angolo pure l’ultimo scudo di immunità giurisdizionale in materia climatica: il paragrafo 52 della Decisione 1/CP21 dell’UNFCCC del 2015. Questo recita che «Article 8 of the Agreement [in tema di “danni e perdite” da cambiamento climatico nei rapporti tra Stati, ndr] does not involve or provide a basis for any liability or compensation». Ma, nel diritto climatico, “danni e perdite” (“Loss & Damage”) indicano le conseguenze materiali del cambiamento climatico, non invece gli “Harm” come lesioni dei diritti umani nei rapporti transfrontalieri (cfr. M. Carducci 2021). Del resto, sui diritti umani vale quanto indicato dal Preambolo dell’Accordo di Parigi: promuoverli nelle decisioni statali sul clima, invece che causarne la regressione o la lesione interna e transfrontaliera.

Ecco perché nessuna delle Corti internazionali interpellate potrà concludere per una soluzione regressiva della tutela dei diritti: non è stato fatto negli scenari fattuali “normali” di singoli danni ambientali (come “Harm” e come “neminem laedere”), figuriamoci nello scenario “catastrofale” dell’emergenza climatica planetaria, base comune delle quattro istanze menzionate.

Stando così le cose, i condizionamenti sui contenziosi climatici nazionali risulteranno inevitabili. Ad essere messo in gioco non sarà, ovviamente, il libero convincimento del giudice, declinato sulle singole vicende processuali, ma l’insieme delle argomentazioni scettiche sulla legittimazione ad agire dei singoli cittadini e sull’ammissibilità di condanne al facere statale contro l’emergenza climatica.

Il discorso vale anche per “Giudizio Universale”, fermo ancora al primo grado e riferito a un contesto fattuale – quello italiano – di “hot-spot” climatico.

Le domande ineludibili da porsi sono tre:

– il giudice italiano potrà ignorare gli esiti delle quattro iniziative internazionali, considerata la loro influenza sugli artt. 10, 11, 101 comma 2 e 117 comma 1 della Costituzione, cui quel giudice è subordinato?

– potrà farlo, quando lo stesso procedimento analogico, di cui all’art. 12 delle Preleggi, è aperto anche alle fonti del diritto internazionale (cfr. Commentario breve al Codice civile 2022, sub art. 12)?

– potrà permetterselo alla luce di una giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui «il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il valore di principio fondamentale, riducendo la portata e l’ambito di altri principi ai quali tale ordinamento si è tradizionalmente ispirato …» (cfr. Cass. civ. SSUU n. 762/2017)?

In conclusione, sembra che le ragioni degli attori avranno tutto da guadagnare dai recenti fermenti del panorama internazionale. Il che è una buona notizia per tutti, perché il dovere di combattere l’emergenza climatica non può conoscere esenzioni.

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