Sbarchi: Dublino è ancora applicabile?

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di Glauco Nori

Sui migranti, a quanto sembra, si comincia a proporre qualche cosa di concreto, mettendo temporaneamente da parte quelle che fino ad ora sono state polemiche politiche. Per questo sembra il caso di soffermarsi su qualche punto che finora sembra sia stato dato come scontato.

Nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 è previsto il c. d. “non respingimento”: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Lo Stato è quello nel quale il rifugiato si trova.

Secondo il c.d. “sistema di Dublino”, formato dalla Convenzione del 1990 e dai Regolamenti n. 343 del 2003 e 604 del 2013 e successivi, lo Stato competente a provvedere è quello che per primo ha ricevuto la domanda di protezione, considerata proposta nel primo Stato di approdo, come effetto praticamente automatico. Non si può dire che sia vera domanda, espressione della volontà dell’autore: domandare, nella accezione comune, significa chiedere qualcosa che si vuole. Di questa volontà, invece, non si tiene conto, come non è preso in nessuna considerazione che, entrando in Italia, il rifugiato entra in Europa, anche essa ente territoriale.

Nel 1990, quando fu conclusa la Convenzione di Dublino, il movimento dei rifugiati non era comparabile con quello attuale. Per i trattati internazionali vige il principio “rebus sic stantibus”, norma di diritto internazionale consuetudinario, ripresa dall’art.62 della Convenzione di Vienna del 1969. Ci si può ritirare da un trattato per un mutamento fondamentale delle circostanze, esistenti al momento della conclusione, che abbiano costituito la base essenziale del consenso delle parti, con l’effetto di trasformare radicalmente il peso degli obblighi che restano da seguire.

Che le condizioni del tempo in cui la Convenzione fu conclusa siano radicalmente mutate non sembra che possa essere messo in dubbio, come pure che, a quelle attuali, il consenso dell’Italia non ci sarebbe stato. Se ce ne fosse bisogno, lo confermerebbero le argomentazioni in base alle quali l’Italia continua a sollecitare l’Intervento dell’Unione Europea.

L’Italia, pertanto, potrebbe ritirarsi dalla Convenzione di Dublino. Quali sarebbero le conseguenze sui Regolamenti, dove sono fissati i luoghi di presentazione della domanda di asilo e lo Stato competente ad esaminarla? Se i Regolamenti non fossero più applicabili per aver formato con la Convenzione un complesso articolato ed interdipendente, verrebbero meno anche i criteri per l’individuazione dello Stato competente a provvedere sulla domanda.

La questione dovrebbe porsela l’Unione. Il fatto che si parli di “Sistema di Dublino” fa pensare che la inscindibilità non dovrebbe essere esclusa, almeno in via di principio.

Se ci fosse bisogno di qualche modifica dei Trattati. i tempi sarebbero lunghi dal momento che nel frattempo, per ammettere l’Ucraina, si dovrebbero ammettere diversi altri Stati. L’esperienza, già vissuta, rende pessimisti.

Quando fu preparato il testo di Costituzione Europea (si era, come noto, nei primi anni 2000) ci fu chi suggerì che solo dopo la sua approvazione fossero ammessi gli Stati, a quel tempo richiedenti, in buona parte ex URSS. Si sarebbero ottenuti due risultati: gli Stati contrari avrebbero assunto un immagine negativa nei confronti dei richiedenti e questi non avrebbero avuto quel potere di veto che hanno acquistato con l’ammissione. Malgrado qualche posizione favorevole, non se ne fece niente per ragioni di pura opportunità.

In attesa che emerga la soluzione definitiva, si può cercare di individuare gli effetti di una eventuale inapplicabilità anche dei Regolamenti, provocata dalla perdita di efficacia della Convenzione nei confronti dell’Italia.

Diventerebbe applicabile la norma internazionale secondo la quale la nave costituisce parte del territorio dello Stato di cui porta la bandiera, territorio sul quale verrebbero a trovarsi gli imbarcati.

Non sembra che in contrario possa sostenersi che con la perdita di efficacia della Convenzione di Dublino, atto di diritto internazionale, non verrebbe meno anche quella dei Regolamenti, atti dell’Unione ai quali non è applicabile la clausola “rebus sic stantibus”. Trattandosi di atti che operano su piani diversi, non sono soggetti agli stessi principi. Questo, peraltro, potrebbe non bastare a considerarli senza alcun collegamento.

Nell’ipotesi che i Regolamenti non abbiano vita autonoma, quali sarebbero le conseguenze? Alcune delle navi, che prestano soccorso in mare, non potrebbero pretendere di sbarcare in Italia i rifugiati che soccorrono: dovrebbero portarli nello Stato di bandiera. Un motivo contrario ricorrente è che una navigazione lunga potrebbe mettere in pericolo la sopravvivenza. L’argomento non sembra risolutivo. Ogni nave, che parte con il compito di prestare soccorso, dovrebbe essere attrezzata per il trasporto sicuro all’interno dello Stato di appartenenza. Non farlo, verrebbe ad essere un accorgimento per scaricare la responsabilità su un altro Stato, solo per la loro posizione geografica, anche se con i rifugiati non ha avuto nessun rapporto. Non sarebbe più possibile, come lo è oggi, avere una attrezzatura solo sufficiente per l’imbarco del maggior numero di persone per un periodo breve, sapendo che andranno a sbarcate in Italia.

Il problema non sarebbe risolto dato il numero dei rifugiati soccorsi da navi battenti bandiera straniera, ma l’Italia non sarebbe più obbligata a riceverli.

Venute meno le norme, che fissano il Paese a cui presentarla, la domanda dovrebbe essere intesa come vera domanda, vale a dire come scelta da parte del richiedente del Paese di destinazione.

Questa facoltà sarebbe coerente anche con la normativa comunitaria: come è stato rilevato, ogni confine nazionale è anche confine comunitario, con gli Stati membri in condizioni di uguaglianza, senza rilievo della loro dislocazione.

Si profilerebbe così la necessità per l’Unione di introdurre in materia nuove norme, che tengano conto della situazione attuale e dei suoi sviluppi prevedibili. Che possa avvenire, è improbabile; sarà necessaria una evoluzione della cultura dei Paesi membri in senso realmente comunitario. Malgrado le difficoltà, sarebbe comunque utile stimolarla.

Una via potrebbe essere quella dell’art. 20 TUE. Gli Stati disponibili, comunitarizzando alcuni di quelli che sino ad oggi sono stati poteri nazionali, creerebbero una entità con maggiore potere comunitario, non accessibile ai non aderenti che, vedendone i vantaggi, potrebbero essere indotti a chiedere l’ammissione. Andrebbe, naturalmente, adottato Il principio maggioritario, che nella situazione attuale, è uno strumento ormai indispensabile.

Per le nuove ammissioni sembra che si cercherà di abbreviare i tempi, senza prendere in considerazione i pregiudizi che potrebbero derivare dalla unanimità che fosse richiesta ad una Unione di più di trenta Stati. Superarla nei settori operativi più sensibili, potrebbe essere l’avvio di un procedimento per portare l’Unione ad occupare la posizione corrispondente alla propria struttura economica e sociale.

La situazione attuale non è la più adatta per sperare in qualche risultato in tempi ragionevoli. Se l’Italia facesse presente che la Convenzione di Dublino non è più applicabile nei suoi confronti, forse gli altri Membri sarebbero indotti a prendere posizioni meno ambigue.

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