La fine dell’uso “aziendale” della Costituzione nella saga ex Ilva

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di Michele Carducci

La vicenda dell’impianto siderurgico dell’ex Ilva è in una persistente situazione di stallo: gli altiforni funzionano a regime ridottissimo; i soci si riuniscono in Consiglio d’amministrazione per deliberare di rinviare qualsiasi decisione a future convocazioni; le parti sociali si sentono ripetere dal Governo che non è in discussione l’impegno alla prosecuzione dell’attività produttiva e al mantenimento dei livelli occupazionali (cfr. Ex Ilva, ancora fumata nera: nuovo incontro a Roma il 9 gennaio). Insomma, proclami e dichiarazioni si rincorrono senza che nulla di concreto si profili all’orizzonte (cfr., per un’aggiornata ricognizione, G. Leone, Ex Ilva, la soluzione si troverà(?)).

Per quanto inverosimile possa sembrare, la ragione di questa prolungata inconcludenza è costituzionale e riguarda la tutela del diritto fondamentale alla salute. Lo si desume dalla lettura del contratto di affitto con obbligo di acquisto di rami d’azienda (consultabile dal portale LavoroSì), originariamente stipulato tra Ilva in amministrazione straordinaria e AM InvestCo Italy, la versione italiana del colosso privato mondiale ArcelorMittal. Quel contratto è stato modificato (se ne veda la sintesi in Legal Community) a seguito della costituzione di Acciaierie d’Italia holding, la nuova società subentrata ad AM InvestCo e ora a capitale misto privato-pubblico con Invitalia, l’Agenzia statale per lo sviluppo d’impresa.

Il nuovo accordo contempla due rilevanti novità:

– la proroga della durata dell’affitto sino al 31 maggio 2024, per poi procedere all’acquisto da parte di Invitalia;

– il verificarsi di alcune condizioni a esclusivo interesse del socio privato, ovvero di AM InvestCo Italy.

Le condizioni a favore del privato sono tre, elencate dall’art. 26 del contratto:

– adozione di un atto formale del Governo sulla compatibilità ambientale e sanitaria dell’impianto oppure esito positivo della procedura di valutazione del danno sanitario;

– autorizzazione ad aumentare i livelli di produzione dell’acciaio a otto milioni di tonnellate l’anno;

– sottoscrizione, da parte dei sindacati dei lavoratori dell’impianto di Taranto, di un accordo che si conformi a un nuovo piano industriale e includa, per i dipendenti esodati, opportunità di lavoro alternative.

In quanto apposte nel dichiarato interesse del privato, le tre clausole formalizzano un vero e proprio meccanismo di “cattura del regolatore”, per cui è inevitabile chiedersi perché mai siano state accolte dal socio pubblico e quindi dallo Stato.

La ragione è molto semplice e si può far risalire alla famosa sentenza della Corte costituzionale n. 85/2013, dallo Stato costantemente sbandierata come salvacondotto del proprio operare con leggi-provvedimento sull’impresa tarantina, da ultimo con il Decreto legge n. 2/2023, intitolato “misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale” ma di fatto applicabile al solo polo siderurgico jonico (cfr. E. Verdolini, Un nuovo capitolo nella saga Ilva: commento al decreto-legge n. 2 del 2023). Il «bilanciamento tra le esigenze della produzione e dell’occupazione e quelle della salute e dell’ambiente», evocato in quella decisione, è stato assunto a presupposto della fattibilità delle condizioni poste dal socio privato.

Tuttavia, questo uso “aziendale” della Costituzione è andato incontro a due ostacoli, ampiamente sottovalutati dalle parti:

–  da un lato, il consolidamento della giurisprudenza CEDU a tutela dei diritti dei residenti tarantini, nonostante appunto gli interventi statali pro-Ilva (si pensi alla condanna dell’Italia nel “caso Cordella” del 2019, cui hanno fatto seguito le quattro ulteriori condanne del 2022 nei casi  “Ardimento”, “Briganti”, “A.A. e altri” e “Perelli”: cfr. M. Greco, Il caso “ex-Ilva” ritorna davanti la Corte europea dei diritti dell’uomo: quattro nuove condanne per l’Italia);

– dall’altro, l’azione inibitoria collettiva ex art. 840 sexiesdecies c.p.c., proposta da un centinaio di genitori tarantini presso il Tribunale di Milano, fondata, tra le altre cose, sulla declaratoria di nullità proprio dell’art. 26 del contratto d’affitto per violazione del diritto europeo (cfr. Ex Ilva: class action risarcitoria).

Su entrambi i fronti, sia lo Stato, in sede CEDU, che Acciaierie d’Italia Holding, davanti al giudice di Milano, avevano argomentato il “bilanciamento ragionevole” a fondamento costituzionale del proprio agire contrattuale. L’evocazione, tuttavia, non ha impedito la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo, mentre, sul fronte dell’azione collettiva, essa ha addirittura spalancato le porte ai quesiti pregiudiziali sulla conformità europea della c.d. “legislazione salva Ilva” nell’interesse del privato.

Adesso, tutto dipende dalla Corte di Giustizia UE (causa C-626/22) e lo scenario non si profila roseo per l’Italia, dato che sia la Commissione Europea che l’Avvocato generale presso la Corte non solo hanno riconosciuto la violazione del diritto europeo, ma hanno persino perorato, alla luce anche delle sentenze CEDU, la priorità della tutela della salute umana sugli interessi industriali (cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale del 14 dicembre 2023), in ragione della drammatica situazione sanitaria della città pugliese, dall’ONU rubricata a «zona di sacrificio» e «macchia sulla coscienza collettiva dell’umanità» (cfr. il Report del 2022 su The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environmen), per di più nel suo triste primato di «capitale italiana dei gas serra» (cfr. Legambiente, Città di Taranto).

Ecco allora che le riunioni di queste settimane ruotano intorno alle preoccupazioni del socio privato sulle sorti di quell’art. 26. Sorti comunque ormai compromesse anche per un’altra ragione, ulteriormente trascurata dai negoziatori: i riformati artt. 9 e 41 della Costituzioni, al cui cospetto gli “interessi strategici nazionali” non sembrano più godere di incondizionata parificazione con diritti già accertati lesi.

Non è dato sapere se l’ex Ilva chiuderà. Comunque sia, ha i mesi contati l’uso predatorio del bilanciamento costituzionale.

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