Elezione diretta del premier e indiretta delle Camere. Il problema del voto degli italiani all’estero

Print Friendly, PDF & Email

di Roberta Calvano e Lorenzo Spadacini

Più ci si pensa più si disvela l’impatto potenzialmente devastante che la riforma del cd. Premierato (disegnata nel ddl AS 935 in discussione al Senato) è suscettibile di produrre sulla democrazia costituzionale. Si è discusso molto del suo svuotare tacitamente il ruolo di garanzia del Capo dello Stato. Un po’ meno attenzione è stata tributata a ciò che essa comporta per il Parlamento, e in definitiva se essa non sia qualitativamente diversa dalla mera revisione costituzionale di quattro articoli della Costituzione.

Ciò che a una riflessione più attenta appare evidente è che il nostro Parlamento, già in crisi da tempo per tanti motivi, diverrebbe organo eletto in via indiretta, la cui composizione sarebbe la risultante del voto per l’elezione diretta del Premier, che trascinerebbe con sé il riparto dei seggi tra le liste candidate nelle due Camere. Non si tratta solo di dinamiche politiche, ossia del fatto che la natura plebiscitaria del voto per una carica monocratica trascina con sé il consenso necessario alla lista che la sostiene. Ma della previsione per cui la lista del Premier (o la sua coalizione), in ragione di tale sostegno, godrebbe di un premio potenzialmente così significativo, da comportare l’attribuzione di un numero di seggi abnorme, prevedendo la riforma il risultato obbligato del 55% dei parlamentari per la lista che ottiene più voti (magari il 25%, come nelle ultime politiche).

Portare una lista ad ottenere più del doppio dei seggi rispetto a quanto le spetterebbe in forza del risultato elettorale sarebbe non solo lesivo (degli artt. 3 e 48) della Costituzione, come la Corte costituzionale ha già chiarito in passato, ma, ancor più grave, renderebbe il Parlamento organo ad elezione indiretta. Un numero decisivo di seggi sarebbe insomma il frutto non del voto popolare per la selezione dei parlamentari, ma dal meccanismo imposto dalla norma di revisione costituzionale dell’art. 92 Cost., che non a caso costituzionalizza il principio della governabilità ponendolo sullo stesso piano di quello supremo della rappresentatività, con effetti assolutamente dirompenti. La sovranità non apparterrebbe più al popolo, nelle forme e nei limiti della Costituzione, e cioè quelle della rappresentanza politica. La sovranità sarebbe del “Capo”, il Presidente del Consiglio, che ancor più di oggi sceglierebbe chi candidare all’elezione entro Camera e Senato, distribuendo seggi garantiti da un premio che prescinderà dal voto per eleggere deputati e senatori, che non sarebbe più personale, diretto, uguale e libero. Come ciò potrebbe esattamente prodursi naturalmente dipenderà dai dettagli del sistema elettorale. Ma dal punto di vista del possibile impatto della riforma, un baco nel progetto del governo sembra possa derivare dal voto degli italiani all’estero.

A dicembre 2023 i dati del Ministero dell’Interno dicono che gli italiani all’estero iscritti all’AIRE, quindi potenziali elettori, sono arrivati a toccare quasi i sei milioni, e risultano in costante crescita negli ultimi anni. Ma come incide il voto degli italiani all’estero sulla riforma proposta dal Governo Meloni? È possibile distinguere le due elezioni “contestuali” che la riforma prefigura: l’elezione del Presidente del Consiglio e quella delle Camere.

Nella prima, il Premier sarà eletto da tutti i cittadini maggiorenni che godono dei diritti politici, che siano residenti in Italia o all’estero e ovviamente sarà eletto chi ottiene più voti. La seconda elezione prevista, che consideriamo tale perché determinata dal voto nella prima, è quella per il Parlamento. La legge elettorale per le due Camere potrà essere diversamente configurata dal legislatore ma, in ogni caso, dovrà prevedere “che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio”. In particolare, la legge elettorale per la Camera dei deputati dovrà fare in modo che il 55% dei 400 seggi della Camera – quindi ben 220 – siano assegnati alla lista o alle liste collegate al Presidente del Consiglio. Lo stesso dovrà prevedere la legge elettorale per il Senato, che dovrà garantire sempre alle liste collegate al Presidente vincente almeno 110 seggi su 200. Per garantire questo risultato, la rappresentanza complessiva e quella espressa da ciascuna delle circoscrizioni elettorali deve essere alterata in modo potenzialmente molto consistente, così da assegnare molti più seggi (rispetto ai voti conseguiti) a chi abbia ottenuto il premio a livello nazionale, a discapito di chi sia risultato soccombente.

La combinazione delle due elezioni fa sì che l’esito che conta davvero è ovviamente quello per l’elezione del Presidente del Consiglio, perché questa elezione non determina solo l’individuazione del vertice del Governo, ma anche l’assegnazione alla sua coalizione del 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere, a prescindere dai voti che tale coalizione abbia ottenuto.

Si consideri, a questo punto, il seguente scenario: che sia eletto Premier un candidato risultato minoritario tra gli elettori residenti in Italia, ma vittorioso nel complesso dei votanti in ragione del suo vantaggio di voti all’estero. In tal caso, la legge elettorale dovrà necessariamente prevedere che alla sua coalizione sia assegnato il 55% dei seggi in entrambe le Camere. La maggioranza dei deputati e senatori, dunque, sarà individuata sulla base del voto decisivo degli italiani all’estero. Ne consegue che in ogni circoscrizione italiana i seggi da assegnare alla coalizione del Presidente del Consiglio eletto, minoritaria in Italia, dovranno essere “gonfiati”, in modo da raggiungere un numero tale da costituire, nel complesso delle circoscrizioni, il 55% dei parlamentari. Corrispondentemente, in ogni circoscrizione italiana, la coalizione maggioritaria in Italia (e le altre coalizioni minoritarie) dovranno cedere seggi a quella vittoriosa nel complesso, in quanto maggioritaria all’estero.

Si tenga conto, peraltro, che il grado di questa “alterazione” dei risultati elettorali a seguito dell’attribuzione del premio all’una o all’altra coalizione, può essere molto elevato. Nelle elezioni del 2013, regolate dal c.d. porcellum, con analogo premio del 55%, circa un terzo dei seggi della Camera è dipeso dall’attribuzione del premio. Ciò significa che anche in ciascuna delle 27 circoscrizioni in cui è suddiviso il territorio nazionale, circa un terzo dei seggi potranno essere attribuiti non tanto in funzione dei voti espressi dagli elettori di quella circoscrizione ma a causa del voto espresso dagli italiani residenti all’estero.

Non si tratta nemmeno di ipotesi del tutto improbabili. Nel 2013, per esempio, il divario tra il centrosinistra e il centrodestra fu di soli 125 mila voti circa e nel 2006 di soli 24 mila, scarti facilmente ribaltabili dal voto degli italiani all’estero, che alle ultime elezioni hanno votato in circa un milione e 250 mila. Peraltro, il Maie da solo, un partito degli italiani all’estero radicato in Sud Amer,ica, che ha votato la fiducia sia a governi di centrodestra, che di centrosinistra e anche al governo c.d. giallo-verde, nelle ultime elezioni ha ottenuto 146 mila voti, sufficienti cioè a ribaltare, con appositi accordi, l’esito delle elezioni in Italia almeno nei due casi indicati.

Con l’elezione diretta del Premier, il voto degli italiani all’Estero potrebbe dunque diventare decisivo non solo per tale scelta, ma anche per l’elezione di un numero potenzialmente molto elevato di parlamentari delle circoscrizioni in Italia. Ciò avverrebbe nonostante il fatto che gli italiani della Circoscrizione Estero dovrebbero eleggere solo 4 senatori e 8 deputati (numeri limati dalla riduzione del numero dei parlamentari). Il voto degli italiani all’estero verrebbe invece usato due volte, per eleggere i 12 parlamentari spettanti alla Circoscrizione estero, ai sensi degli articoli 56 e 57 Cost., e – in contrasto con tale previsione – per l’elezione di tutti quelli corrispondenti all’abnorme premio di maggioranza.

Un simile esito preoccupa anche alla luce delle molte contestazioni che sin dalla sua introduzione hanno caratterizzato il voto per corrispondenza. Non avendo il nostro ordinamento un giudice del contenzioso elettorale, in caso di contestazioni del risultato elettorale l’organo competente quale potrebbe essere? Per la sua elezione come parlamentare, competente sarebbe la giunta per le elezioni della Camera in cui il Premier si candida. Questa soluzione potrebbe applicarsi anche all’elezione come Presidente del Consiglio, considerato che la giunta è composta dai parlamentari che si vedono attribuire i seggi nell’ambito del medesimo procedimento elettorale che potrà essere oggetto del contenzioso? Si può considerare una garanzia sufficiente attribuire il contenzioso per l’elezione del Premier a una decisione della sua stessa maggioranza parlamentare?

Questa lacuna va considerata insieme all’indebolimento delle altre garanzie costituzionali che deriverebbe dal premio del 55%. Tale norma regalerebbe potenzialmente ad un solo partito, per di più minoritario, la scelta sull’elezione del Presidente della Repubblica, sulla revisione costituzionale, sull’elezione dei giudici costituzionali e dei membri laici del CSM… siamo proprio sicuri che dati i contenuti, si sia nei limiti di ciò che può ancora essere considerato una revisione costituzionale? Toccando solo quattro articoli si riuscirebbe a trasformare le Camere nel fantoccio di un organo rappresentativo (e il Capo dello Stato in un impotente comprimario). Il dubbio è se questa operazione non ci porti al di fuori dalla forma dello Stato costituzionale di diritto, in definitiva fuori dal novero delle democrazie liberali.

Please follow and like us:
Pin Share
Condividi!

1 commento su “Elezione diretta del premier e indiretta delle Camere. Il problema del voto degli italiani all’estero”

  1. Piuttosto che dei falsi Italiani residenti alcuni da più generazioni all’estero dove pagano le tasse mi preoccuperai dei veri Italiani che da decenni vivono in Italia senza avere la cittadinanza e quindi il diritto di voto.

    La procedura di naturalizzazione, considerata in Italia una concessione dello Stato e non un diritto di coloro che la richiedono, dura anni; qualche tempo fa la legge prevedeva quattro anni, nel frattempo ridotti di nuovo a due, senza però che il ministero competente abbia l’obbligo di rispettare i tempi.

    Quando con i documenti richiesti in mano, in particolare i casellari dei vari paesi dove avevo vissuto in precedenza, tutti arrivati in pochi giorni, mi recai su appuntamento in prefettura a Milano, la responsabile mi spiegò: “sono quattro anni per legge, ne conti cinque!” e io risposi “allora se la tenga!”

    Non mi faccio umiliare per ottenere una cittadinanza che tutto sommato mi darebbe solo il diritto di voto, una prerogativa politica che comunque non mi permetterebbe di scegliere, o di candidarmi, come posso nel mio paese di origine.

    Rispondi

Lascia un commento

Utilizziamo cookie (tecnici, statistici e di profilazione) per consentire e migliorare l’esperienza di navigazione. Proseguendo con la navigazione acconsenti al loro uso in conformità alla nostra cookie policy.  Sei libero di disabilitare i cookie statistici e di profilazione (non quelli tecnici). Abilitandone l’uso, ci aiuti a offrirti una migliore esperienza di navigazione. Cookie policy

Alcuni contenuti non sono disponibili per via delle due preferenze sui cookie!

Questo accade perché la funzionalità/contenuto “%SERVICE_NAME%” impiega cookie che hai scelto di disabilitare. Per porter visualizzare questo contenuto è necessario che tu modifichi le tue preferenze sui cookie: clicca qui per modificare le tue preferenze sui cookie.