Può un deputato ritirare la firma dalla sua proposta di legge?

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di Alessandro Gigliotti

Nelle scorse settimane la Camera dei deputati ha esaminato la proposta di legge, presentata dai gruppi di opposizione, avente ad oggetto l’istituzione del salario minimo, tema notoriamente molto divisivo e su cui lo scontro politico è stato particolarmente acceso. L’esame parlamentare, al di là delle questioni di merito, pone interessanti profili di ordine procedimentale, in relazione alla possibilità per un deputato di ritirare la sottoscrizione ad una proposta di legge presentata a sua prima firma.

Prima ancora di affrontare il tema sul piano del procedimento legislativo occorre riepilogare brevemente i fatti.

In materia di salario minimo i diversi gruppi di opposizione avevano presentato diverse proposte di legge – rispettivamente, la n. 141 a prima firma on. Fratoianni (AVS), la n. 210 dell’on. Serracchiani (PD-IDP), la n. 216 dell’on. Laus (PD-IDP), la n. 306 dell’on. Conte (M5S), la n. 432 dell’on. Orlando (PD-IDP), la n. 1053 dell’on. Richetti (A-IV-RE) e, infine, la n. 1275 dello stesso on. Conte – che sono state conseguentemente abbinate, ai sensi dell’art. 77, comma 1, del regolamento della Camera, e discusse nella XI commissione permanente (Lavoro pubblico e privato). In occasione della seduta del 12 luglio 2023, la commissione aveva deliberato di adottare la proposta di legge n. 1275 come testo base, ai sensi dell’art. 77, comma 3, del regolamento, anche alla luce del fatto che detta proposta era stata firmata da parlamentari di diversi gruppi di opposizione e costituiva, per esplicita ammissione degli stessi, una sorta di sintesi delle posizioni dei medesimi gruppi. Nel frattempo, la Conferenza dei Capigruppo della Camera aveva deliberato di avviare l’esame in Assemblea a partire dalla seduta di venerdì 28 luglio 2023; si trattava di un tema inserito nel calendario dei lavori in quota opposizione, ai sensi dell’art. 24 del regolamento.

La proposta di legge n. 1275 recava la firma dell’on. Conte ed era stata sottoscritta anche dagli onorevoli Fratoianni, Richetti, Schlein, Bonelli, Magi, Evi, Francesco Silvestri, Zanella, Sottanelli, Braga, Guerra, Barzotti, Mari, D’Alessio, Scotto, Aiello, Carotenuto, Fossi, Gribaudo, Laus, Sarracino, Tucci, Grimaldi, Serracchiani e Orlando. Essa, in estrema sintesi, introduceva l’obbligo per i datori di lavoro di corrispondere ai lavoratori dipendenti – nonché ai parasubordinati – una retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, da intendersi come trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal rispettivo contratto collettivo nazionale di lavoro, fermo restando l’obbligo di corrispondere un trattamento economico minimo orario non inferiore a 9 euro lordi.

L’esame in commissione non è stato lineare, a motivo della contrapposizione tra i gruppi di opposizione e quelli di maggioranza, decisamente poco propensi all’istituzione di un salario minimo predefinito per legge, al punto da non consentire di ultimare i lavori in tempo utile per l’esame in Assemblea. In particolare, nel corso della seduta del 25 luglio l’Ufficio di Presidenza della Commissione aveva convenuto unanimemente che non vi fossero le condizioni per procedere alla votazione degli emendamenti – invero non particolarmente numerosi – e conferire il mandato al relatore. Presso l’Aula, l’esame era stato quindi avviato il successivo 27 luglio con la discussione sulle linee generali, mentre nella seduta del 3 agosto era stata approvata una questione sospensiva, presentata dai deputati di maggioranza, che prevedeva – ai sensi dell’art. 40, comma 1, del regolamento – la sospensione dell’esame per un periodo di sessanta giorni. L’esame era quindi ripreso nella seduta del 18 ottobre e in quella circostanza l’Aula aveva deliberato il rinvio in commissione del testo, al fine di svolgere un’ulteriore fase istruttoria anche alla luce di un approfondimento realizzato dal CNEL sul tema del salario minimo e del lavoro povero.

Senonché, nel corso dei lavori di commissione susseguenti al rinvio la contrapposizione tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione, anziché stemperarsi, si è progressivamente acuita. Non solo e non tanto per via dell’abbinamento di una nuova proposta di legge, questa volta di maggioranza, recante disposizioni in materia di retribuzione equa del lavoro subordinato e agevolazione fiscale a sostegno dei lavoratori a basso reddito (A.C. 1328 dell’on. Barelli, gruppo  FI) e ritenuta estranea al tema del salario minimo, quanto per la presentazione, a seguito della riapertura dei termini, di un emendamento di maggioranza, presentato dall’on. Rizzetto (FDI) e finalizzato a sostituire l’intero articolato con disposizioni recanti una delega al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva. L’emendamento, secondo i gruppi di opposizione, stravolgeva totalmente il testo e la cosa, a loro dire, si rivelava inopportuna anche in considerazione del fatto che l’esame verteva su una proposta di legge in quota opposizione.

Posto in votazione, l’emendamento 1.6 dell’on. Rizzetto veniva quindi approvato, determinando la preclusione di tutte le altre proposte emendative e consentendo il conferimento del mandato al relatore in tempo utile per l’esame in Assemblea, fissato per i giorni immediatamente successivi. Si giunge così alla seduta del 5 dicembre 2023, nella quale l’on. Conte, primo firmatario della proposta di legge n. 1275, una volta preso atto che l’Aula aveva bocciato una sua proposta emendativa finalizzata a reintrodurre, nella sostanza, le disposizioni contenute nella sua originaria proposta, ha chiesto di ritirare la sua firma come gesto di disapprovazione verso la nuova formulazione che stravolgeva completamente il suo testo. A quel punto, nel corso della stessa seduta tutti gli altri firmatari hanno progressivamente chiesto la parola per ritirare anch’essi la propria sottoscrizione. Ciononostante, la proposta di legge è stata approvata nella seduta del giorno successivo e trasmessa quindi al Senato, dove è stata numerata come disegno di legge n. 957 – secondo la differente terminologia del regolamento di Palazzo Madama – ma con la peculiarità di essere un testo di legge completamente privo di sottoscrittori.

Prescindendo dalla vicenda politica, la questione procedimentale da chiarire è se il primo firmatario di una proposta di legge possa ritirare la propria firma, nonché quella strettamente correlata dell’idoneità di una proposta di legge a continuare il suo iter pur in assenza di soggetti titolari dell’iniziativa. A tal proposito, occorre anzitutto osservare che, di principio, un deputato può sottoscrivere una proposta di legge di un altro componente della Camera dei deputati e può in seguito ritirare la sua sottoscrizione, così come avviene del resto per ogni altro atto parlamentare. Il ritiro della sottoscrizione non produce effetti procedurali significativi – salvo quello di espungere, per l’appunto, la firma in questione – in quanto la proposta non viene meno e, se l’esame è già avviato, questo prosegue senza che vi siano conseguenze di sorta: la sottoscrizione di un atto individuale, come una proposta di legge, è infatti da considerare un mero elemento accessorio e quindi non essenziale ai fini della sua validità.

Diverso, invece, dovrebbe essere il caso del ritiro della sottoscrizione da parte del primo firmatario, poiché in tal caso la firma rappresenta un elemento essenziale, la cui presenza diviene pertanto un requisito di perfezione dell’atto: una proposta di legge, così come ogni atto parlamentare, non può essere priva di un firmatario. Questo non significa, naturalmente, che un deputato non possa tornare sui suoi passi, quale che sia la ragione che lo induca ad operare in tal senso: egli è sempre libero di ritirare la sua proposta di legge – l’intera proposta –, così come ogni singolo atto parlamentare può essere ritirato su iniziativa del suo proponente. Si tratta di una facoltà che è connaturata al potere di iniziativa e che ha importanti conseguenze sul piano procedimentale, in quanto in tali frangenti il relativo iter si ferma venendo a mancare il presupposto, cioè l’esistenza di un atto parlamentare idoneo ad avviare il relativo procedimento. Ne consegue che il primo firmatario di una proposta di legge – e, più in generale, di un atto parlamentare – non può ritirare la propria sottoscrizione, o per meglio dire può farlo nella misura in cui tale richiesta produca i medesimi effetti del ritiro dell’atto nel suo complesso.

La presente ricostruzione non trova però corrispondenza nei citati lavori parlamentari in ordine alla proposta di legge n. 1275, durante i quali – come accennato – la Presidenza dalla Camera dei deputati ha dato seguito alla richiesta dell’on. Conte di ritirare la (sola) firma senza farne discendere la decadenza della proposta di legge nel suo complesso. Orbene, in situazioni del genere, quando nel corso dell’esame di una proposta di legge vengano apportate modifiche tali da indurre il primo firmatario a disconoscerla, la modalità più fisiologica dovrebbe essere quella del ritiro, cui l’interessato deve ottemperare prima dell’approvazione definitiva da parte dell’Assemblea. Salvo ritenere, naturalmente, che tale facoltà sussista solo in una fase preliminare del procedimento e non anche in quelle successive, ad esempio durante l’esame in commissione o in Assemblea.

Sul punto, in assenza di disposizioni regolamentari esplicite, non resta che affidarsi alla prassi, la quale registra alcuni precedenti di notevole rilievo. Per quanto concerne l’ipotesi di ritiro di una proposta nel suo complesso, in particolare, va detto che si tratta di una prassi non così infrequente: nella XVII legislatura, ad esempio, ci sono stati 87 casi alla Camera e 59 al Senato, nella XVIII 104 alla Camera e 57 al Senato, nella presente legislatura 26 a Montecitorio e 7 a Palazzo Madama. Dai resoconti, del resto, si evince che nella stragrande maggioranza dei casi si è trattato del ritiro di atti il cui esame non era stato ancora avviato presso la commissione competente o, comunque, il cui iter in commissione era in una fase molto embrionale. Non mancano, tuttavia, eccezioni. Si pensi, in particolare, al caso dell’Atto Camera n. 294 dell’on. Giorgia Meloni (XVIII legislatura), in materia di contribuzione previdenziale per i lavoratori che svolgono attività sindacale: nonostante l’esame in commissione fosse ormai in una fase avanzata, nel corso della seduta del 31 luglio 2019 la prima firmataria ha chiesto il ritiro della proposta in senso di disapprovazione verso le modifiche apportate dalla commissione stessa, bloccando l’iter quando ormai era prossimo il conferimento del mandato al relatore. Parimenti, va citato il caso della legislatura in corso relativo all’Atto Camera n. 103, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, che l’on. Serracchiani, prima firmataria, ha ritirato dopo che in commissione erano stati approvati alcuni emendamenti che andavano in una direzione non auspicata dalla proponente. In dettaglio, nel corso della seduta della commissione giustizia del 23 marzo 2023, il Presidente ha comunicato che nella riunione dell’Ufficio di Presidenza l’on. Serracchiani aveva notificato il ritiro, avvenuto il giorno stesso, e che pertanto la commissione non avrebbe proseguito i suoi lavori in quanto l’iter si arrestava in conseguenza del ritiro. Sembra pertanto che la prassi alla Camera vada nel senso di consentire la facoltà di ritiro di una proposta di legge anche in presenza di un iter già avviato, quanto meno durante l’esame in commissione.

Per quanto concerne il mero ritiro della sottoscrizione da parte del primo firmatario, invece, è significativo il precedente della XIII legislatura, in cui si è registrato un caso sostanzialmente analogo a quello in commento, nel quale tutti i firmatari di una proposta di legge all’esame dell’Aula – anch’essa presentata da un gruppo di opposizione e come tale calendarizzata in Assemblea – avevano chiesto il ritiro delle sottoscrizioni in quanto, dopo le modifiche apportate dalla commissione, essi non si riconoscevano più nel testo. Nel corso della seduta del 20 gennaio 2000, il Presidente della Camera Luciano Violante si è pronunciato in favore dell’ipotesi del ritiro, ritenendo che i deputati sottoscrittori “possano ritirare le firme quando non si riconoscono più nel provvedimento, con effetti diversi, a seconda che ciò avvenga entro il momento in cui si dà l’incarico al relatore in Commissione o, successivamente, quando il provvedimento è giunto all’esame dell’Assemblea. Se tutti i colleghi ritirano le firme in Commissione prima di dare l’incarico al relatore, non riconoscendosi più in un testo completamente diverso da quello che avevano presentato, il provvedimento si intende ritirato. Se, invece, esso è giunto all’esame dell’Assemblea, la proposta è della Commissione e del relatore, perché è stato nominato un relatore e la Commissione ha modificato il testo come ha voluto. In questa fase, a mio avviso, è comunque ammissibile il ritiro delle firme, ma ciò non fa decadere il provvedimento che resta del relatore e della Commissione che l’ha presentato”. La proposta di legge n. 5808, presentata dall’on. Fini e da altri deputati del gruppo di Alleanza Nazionale ed avente ad oggetto modifiche al testo unico sull’immigrazione, è stata quindi approvata il giorno stesso e trasmessa al Senato nonostante tutti i firmatari avessero ritirato la sottoscrizione (ad eccezione di tre deputati che, alla data del 20 gennaio 2000, non erano più in carica).

Parimenti, nel corso della XIV legislatura vi è stato un precedente analogo nel quale il primo firmatario ha ritirato la propria sottoscrizione senza che tale richiesta venisse interpretata come ritiro della proposta nel suo complesso. Si tratta della nota proposta di legge dell’on. Edmondo Cirielli, recante modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi e di termini di prescrizione del reato (proposta di legge n. 2055), in relazione alla quale l’allora deputato chiese di ritirare la firma – in data 25 novembre 2004 – quando il testo era già all’esame dell’Assemblea per esprimere la sua mancata adesione alle modifiche in corso di approvazione. L’iter è infatti proseguito regolarmente, giungendo all’approvazione da parte della Camera nella seduta del 16 dicembre 2004 e, successivamente, all’approvazione in via definitiva l’anno successivo. In virtù delle vicende richiamate, la legge 5 dicembre 2005, n. 251, è generalmente ricordata come ex Cirielli, proprio per rimarcare la scelta del suo primo firmatario di disconoscere il provvedimento. Va detto che, nel caso della proposta Cirielli, i sottoscrittori che chiesero di ritirare la firma erano nel complesso tre su un totale di 28 (gli altri 25 non si sono avvalsi della facoltà di ritiro).

Dall’analisi dei precedenti richiamati, si evince pertanto l’esistenza di una prassi che tende a differenziare l’ipotesi del ritiro della proposta di legge – che compete esclusivamente al primo firmatario e non anche a coloro che hanno apposto la firma – da quella del ritiro della sola sottoscrizione, che non va ad inficiare il procedimento – quanto meno in Assemblea – comportando la sola espunzione del sottoscrittore dall’elenco dei firmatari. Prassi che va ricondotta alla diversa fase del procedimento legislativo, nel senso che la possibilità di ritirare una proposta di legge è consentita nel corso dell’esame in commissione ma non anche in Assemblea, dove il deputato che voglia disconoscere la propria proposta di legge – a motivo, generalmente, di modifiche non in linea con la filosofia che l’ha ispirata – non ha altro strumento se non quello del ritiro della sottoscrizione.

Senonché, a questa prassi si potrebbero muovere due ordini di critiche. In primo luogo, essa differenzia – per ciò che concerne la facoltà di ritiro di una proposta di legge – l’esame in commissione da quello in Assemblea, sebbene non vi siano elementi tali da giustificare questo diverso regime. Una proposta di legge, sino a quando non è stata approvata dall’Assemblea – o dalla commissione in sede legislativa – è sempre suscettibile di modifiche o integrazioni, quanto meno quando il procedimento seguito è quello ordinario: il passaggio dalla commissione in sede referente all’Aula non è infatti sinonimo di “approvazione” definitiva del testo, poiché la commissione si limita a svolgere un lavoro istruttorio in funzione dell’esame in Assemblea. Essa, per l’appunto, “riferisce” attraverso un relatore coadiuvato da un gruppo ristretto di commissari – il Comitato dei nove –, riservando pertanto all’Assemblea la decisione definitiva. Si consideri, del resto, che in sede referente la commissione non approva formalmente la proposta nel suo complesso – e nemmeno i singoli articoli, peraltro – ma si limita a conferire il mandato al relatore a riferire in Aula su quel determinato testo. Ed è solo con l’approvazione in Assemblea, ovvero in commissione in sede legislativa, che la proposta di legge diventa non più modificabile, essendo trasferita al Senato dal Presidente della Camera ai sensi dell’art. 70, comma 1, del regolamento e cessando conseguentemente di essere nella disponibilità della Camera stessa.

Si potrebbe osservare, in senso contrario, che il passaggio in Assemblea ha pur sempre l’effetto di spostare l’oggetto della discussione da un testo – o da una pluralità di testi, come sovente avviene – ad un altro redatto dalla commissione, che si differenzia rispetto alla proposta originaria per l’approvazione di emendamenti o, nel caso di testi abbinati, per l’adozione di un testo unificato, che è “altro” rispetto a quelli assegnati in origine. Senonché, pur volendo accogliere la presente chiave di lettura, va detto che la prassi seguita alla Camera appare ad ogni modo contraddittoria nella misura in cui consente al primo firmatario di ritirare la propria sottoscrizione generando l’aporia di una proposta priva di proponente. Se infatti durante l’esame in Assemblea la proposta di legge non è più nella disponibilità del primo firmatario, essendo ormai un testo “diverso” dalla sua proposta originaria, a fortiori non dovrebbe essere possibile il ritiro della sottoscrizione, che avrebbe l’effetto di rimuovere il nominativo dalla lista dei sottoscrittori privando l’atto di un suo elemento essenziale. Tanto più se la firma viene ritirata da tutti coloro che l’avevano apposta, come avvenuto in questo frangente.

Non a caso, di tali incertezze si trovano puntuali conferme nei relativi atti parlamentari, dai quali si evince infatti che le sottoscrizioni, apparentemente sparite dagli atti della Camera, riappaiono in quelli del Senato, dove la proposta rimane in capo ai deputati che l’hanno sottoscritta in origine (come denota la scheda relativa all’Atto Senato n. 957) con la mera indicazione, in nota, della volontà di questi ultimi di ritirare la firma. Il che riduce però il ritiro ad una simbolica presa di distanza dal testo approvato, che non incide nella sostanza e che presenta forti analogie con il caso del parlamentare che, avendo sbagliato tasto al momento dell’espressione del voto, chiede di inserire a verbale una rettifica. Il voto, infatti, non cambia.

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