La riforma del Patto di stabilità e il sadomasochismo del nuovo MES

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di Andrea Guazzarotti

Il traguardo finale della revisione del Patto di stabilità e crescita – agognata da più parti già da prima della pandemia – è quasi raggiunto, ma l’obiettivo rigorista di Germania e Frugali è procrastinato. Non si delineano chiaramente, per ora, i vincitori e i vinti, posto che la decisione del Consiglio (Ecofin), per quanto presa all’unanimità, non può azzerare le posizioni di Commissione e Parlamento europeo, cui ora è passata la palla (sulle procedure legislative da seguire per modificare il Patto: Guazzarotti). Pur trattandosi di una Commissione e un Parlamento uscenti (le elezioni europee si terranno a inizio giugno 2024), sta a loro provare a riprendere il boccino in mano e correggere il mostriciattolo partorito dalle defatiganti negoziazioni nel Consiglio. Un mostriciattolo del quale il ministro delle finanze tedesco Lindner, il cui partito liberale è in caduta nei sondaggi, aveva estremo bisogno in vista dei prossimi appuntamenti elettorali nazionali ed europei. Quel che è certo è che la sospensione delle regole attuali è procrastinata al dopo-elezioni europee del prossimo giugno 2024, per ovvi motivi (nessuno, nell’attuale composita “maggioranza Ursula”, vuole innescare negli elettorati degli Stati più indebitati reazioni antieuropee per effetto dell’attivazione del “braccio correttivo” del vigente Patto di stabilità, con le vecchie, assurde, regole).

L’accordo franco-tedesco è passato, tanto per cambiare, sopra la testa dell’Italia e mette ancora una volta nell’angolo il nostro governo, che – al di là delle dichiarazioni ufficiali – non ha trovato sponde per portare avanti il proprio interesse a non subire anni di austerity micidiali per le prospettive di crescita futura. Per cui, alla fine, si è accontentato di scaricarle su altri governi futuri.

Sembra di assistere a un déjà vu: nel fatidico 1997, in cui venne varato l’originario Patto di stabilità e crescita (i regolamenti 1466/97 e 1467/97), la proposta dell’allora Ministro delle finanze tedesco Waigel di irrigidire il parametro del deficit (3% su Pil), senza ricorrere alla modifica del Protocollo annesso al Trattato, fu subito ritenuta “legittima” dall’omologo francese (D’Andrea, 157). Si trattò di un ricatto nei confronti degli Stati membri più indebitati del Club Med, Italia in primis, i quali rischiavano, in assenza dell’approvazione del Patto, di non venir ammessi nell’Eurozona assieme con i primi della classe (Germania, Francia e gli altri Paesi ‘core’). «Ottenere consensi formalmente volontari, sostanzialmente coatti, è un metodo che anche in seguito sarebbe stato praticato» nell’UE [Guarino, 11]. Ma questo Guarino lo scriveva nel 2012: all’epoca del Patto di stabilità tirava un’altra aria: «chi non ha virtù può solo sperare di obbligarsi a marciare al passo dei paesi virtuosi» [Cassese, 8]. Ma di quali virtù si tratta? Di quelle che hanno imposto all’Eurozona ritmi di crescita sempre al di sotto del potenziale e una divaricazione tra economie forti e deboli sempre crescente [Ciocca, 187s.]? In piena pandemia, un autorevole esponente della scuola cassesiana ebbe l’ardire di criticare duramente quella mossa tedesca del 1997, descrivendo il Patto come «(i)l cedimento della Commissione e degli altri governanti nazionali alla sconsiderata richiesta tedesca d’irrigidire le regole della finanza pubblica» [Della Cananea, 207]. Ci piacerebbe che quel giudizio fosse confermato anche riguardo al nuovo Patto che si va profilando oggi.

Quali le novità rispetto alla proposta della Commissione dello scorso aprile? Quest’ultima prevede che, per gli Stati più indebitati, sarà necessario adeguarsi alla “traiettoria tecnica” imbastita dalla Commissione, ossia al percorso di riduzione del debito operato sulla base di analisi sulla sostenibilità del debito condotte secondo metodologie già attualmente in uso (c.d. Debt Sustainability Analisys), della cui attendibilità si è già efficacemente dubitato [Cesaratto; Clericetti].  Questo elemento della riforma era stato fatto oggetto di critiche, quanto ai rischi di opacità di tali metodologie e analisi, oltre al dubbio (quasi una certezza) circa la loro non democraticità [Heimberger]: ma sono regole tecniche, no? A che serve sottoporle a discussione parlamentare e alla critica dell’opinione pubblica?

L’accordo confezionato il 20 dicembre scorso dal Consiglio-Ecofin pone correttivi alla discrezionalità della Commissione nel fissare tale “traiettoria tecnica”, ma a tal fine non punta certo sulla maggior trasparenza e contendibilità democratica delle metodologie da applicare, bensì sul ben collaudato metodo degli indicatori numerici. Come diceva Simone Weil, non c’è nulla di più chiaro e più semplice di un numero [Weil]!

Già prima della formulazione della proposta ufficiale della riforma da parte della Commissione, il governo tedesco aveva preteso l’introduzione di simili “garanzie numeriche”: la Commissione aveva, pertanto, fissato il requisito minimo di una riduzione del rapporto deficit/Pil dello 0,5% annuo, per i Paesi con disavanzo superiore al 3%, limitandosi a pretendere garanzie che, alla fine del periodo di aggiustamento concordato col singolo Stato interessato, fosse stabilmente rispettato il limite del 3% (come da Protocollo (n. 12) sui disavanzi eccessivi richiamato dall’art. 126.14 TFUE). L’accordo confezionato l’altro giorno dal Consiglio-Ecofin ha irrigidito quelle garanzie, giungendo a pretendere la riduzione annua del 1% del debito (in proporzione al Pil) per gli Stati più indebitati (oltre il 90%), e dello 0,5% per quelli mediamente indebitati (tra il 60% e il 90%). Ma non è tutto: il Consiglio ha preteso che il sentiero di riduzione del debito da prefigurarsi nella “traiettoria tecnica” dovrà garantire che venga stabilmente raggiunto un livello di deficit strutturale annuo non superiore all’1,5% del Pil, anziché il 3% contemplato (in termini nominali, però) dal citato Protocollo n. 12. Infine, la discrezionalità della Commissione nell’aprire una procedura per deficit eccessivo (il famigerato “braccio correttivo”) viene ridotta, sempre sulla base di indicatori numerici di sforamento dell’andamento del debito su Pil programmato per ciascun anno o cumulativamente (rispettivamente lo 0,3% e lo 0,6% del Pil).

Si è detto che, più il tempo passava, più il governo tedesco (e il suo ministro liberale dell’economia, Lindner) aggravava le sue pretese rigoriste (anche in vista delle prossime tornate elettorali e in reazione al calo di consensi che i liberali tedeschi stanno progressivamente subendo). Tanto valeva raggiungere un mediocre accordo tra i governi nazionali prima che quelle richieste si fossero fatte ancora più rigoriste [Fubini].

L’Italia del governo Meloni e del ministro leghista (pragmatico) Giorgetti si è piegata, dopo mesi di resistenza. Gli elementi di flessibilizzazione ottenuti dall’Italia (e dai Paesi più indebitati) sono di corto respiro (lo sconto dell’incremento dei tassi d’interesse sul debito e degli incrementi di investimenti su green e difesa fino al 2027) e non basteranno certo a invertire la filosofia di fondo dell’austerity e di una economia incentrata sull’offerta (e sulle esportazioni), anziché sulla domanda interna (mercantilismo).

Veniamo a ciò di cui meno si parla: l’assenza di vincoli per gli Stati con più margine di spesa (Germania e ‘Frugali’) e le interferenze del nuovo MES sulle valutazioni operate dalla Commissione circa la sostenibilità del debito.

Il problema di fondo dei Trattati europei, come noto, sta nel fatto che non vi sia un livello sovranazionale in grado di compensare, con un proprio bilancio e potere di spesa, le politiche restrittive dei singoli Stati membri eccessivamente indebitati, al pari di quanto avviene, invece, negli Stati Uniti. A questo problema potrebbe porsi parziale rimedio attraverso un efficace coordinamento delle politiche economiche che spinga i Paesi in surplus (e con minor livello di indebitamento) a fare politiche keynesiane di spesa in deficit nelle fasi di austerità imposta ai Paesi che debbono ridurre i propri disavanzi e/o debiti eccessivi. Negli anni della crisi dell’euro, abbiamo assistito all’autolesionistica politica dei Paesi dell’Eurozona sincronicamente impegnati a politiche di austerity [Blyth]. Oggi si ripropone lo stesso scenario, specie perché la Germania è il principale candidato a svolgere tale opera di compensazione e di aumento della domanda interna all’Eurozona. Peccato che la Germania – ‘forse’ prevedendo ciò – si sia già legata all’albero maestro, introducendo nella sua Legge fondamentale il famigerato Schuldenbremse (freno al debito), eliminando la possibilità di ricorrere all’indebitamento per investimenti e lasciandola solo per fronteggiare calamità naturali o disastri simili. E la recente sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco ha chiarito che non intende transigere sugli aggiramenti di quella clausola (nell’occasione, sono stati congelati 60 miliardi del Fondo per l’energia e il clima). Per tentare di risolvere questo grave problema di progettazione di Maastricht, nel 2011 si introdusse a livello di diritto derivato la Procedura sugli squilibri macroeconomici eccessivi, che avrebbe dovuto indurre Paesi come Germania e Olanda a ridurre i loro fantasmagorici surplus commerciali: ma quello strumento non ha i denti, e nulla ha potuto contro le inveterate tendenze mercantiliste di certi Stati membri. Questo grave squilibrio istituzionale non viene raddrizzato oggi, quando si programma la riapertura delle danze dell’austerity per alcuni (grandi) Paesi dell’Eurozona. Come già aveva ammonito lo scorso ottobre il nostro Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) rispetto alla proposta (più soft) della Commissione, si persevera nell’ignorare il problema dell’assenza di una valutazione complessiva dell’Eurozona: gli aggiustamenti fiscali applicati a troppi Stati membri in contemporanea comporta un grave rischio di recessione per l’intera area [Guarascio, F. Zezza].

La filosofia di fondo dell’accordo faticosamente partorito al Consiglio Ecofin è, dunque, quella del ritorno dell’austerity, mascherato da ritocchi scadenti al pesante trucco dell’Eurozona. Il ministro dell’economia tedesco Lindner avrebbe fortemente voluto il vincolo del deficit strutturale all’1,5%, per garantire che, in caso di crisi future, non venga superato il fatidico limite del 3% posto dal Protocollo. È meno di quel che si pretese nel 1997 e poi nel 2011 (un pareggio o addirittura un avanzo), ma la filosofia di fondo resta la stessa. Si tratta dell’imposizione a tutta l’UE del paradosso che affligge la finanza pubblica tedesca, a seguito del citato Schuldenbremse: al debito si può ricorrere solo per fronteggiare le calamità naturali ed è proprio per prepararsi a quell’evenienza che bisogna risparmiare. Il freno all’indebitamento costringe lo Stato a lasciar inasprire le crisi prima che possano essere prese misure di indebitamento [Märtin, Mühlbach]. L’esito è sconsolante: la Germania ha registrato un gap in investimenti pubblici infrastrutturali (ma anche in investimenti privati) non degno di quell’economia. Non si può investire a debito per prevenire le calamità, lo si può fare solo per riparare i danni, dopo che quelle calamità si saranno verificate! Uno schema, questo, che potremmo applicare a vari ambiti, anche in Italia (si pensi alla prevenzione in sanità). Se, nel prosieguo della procedura legislativa europea, Parlamento e Commissione non avranno la forza di contrastare questa visione autodistruttiva, l’UE e i cittadini degli Stati europei si legheranno al collo un bel cappio, scaricando sul resto del mondo tensioni economiche destabilizzanti, come già avvenuto in passato.

Infine, un rapido sguardo al nuovo Trattato sul MES, di cui tanto (a sproposito) si parla in questi giorni, dopo che la Camera ha votato contro la sua ratifica. Quello di cui non si parla abbastanza è che il nuovo MES (di cui la Germania è azionista di maggioranza) avrà nuovi e più penetranti poteri nel valutare la sostenibilità del debito degli Stati-parte. Con il nuovo art. 3 del Trattato, in particolare, il MES sembra atteggiarsi a una sorta di agenzia di rating pubblica, con il potere (dovere?) di effettuare costanti monitoraggi della sostenibilità del debito.  A poco è servita l’opposizione dell’Italia «all’affidamento di compiti di sorveglianza macroeconomica degli Stati membri che rappresenterebbero una duplicazione delle competenze già in capo alla Commissione europea» [Guazzarotti]. È noto che un giudizio della Commissione (o della BCE) sulla non sostenibilità del debito italiano costituisce una profezia che si autoavvera, posto che avrà il potere di destabilizzare i titoli del debito pubblico sui mercati finanziari. La riforma del Patto di stabilità proposta dalla Commissione – e oggi irrigidita dal Consiglio-Ecofin – si incentra su questa leva, più di quanto non avvenisse già in passato: la Commissione è, contemporaneamente, giudice e parte in causa, posto che, a seconda di come valuterà la sostenibilità del debito di uno Stato membro (già nel formulare la famigerata “traiettoria tecnica” e poi nel negoziare il programma pluriennale con il governo nazionale interessato), influirà sui mercati nel prezzare il costo del debito, ossia influirà sull’effettiva sostenibilità di quest’ultimo [Heimberger]. Siccome la Germania e gli altri Frugali temono che la Commissione possa essere troppo morbida nel giudicare la sostenibilità del debito di alcuni Stati membri, ecco che il nuovo MES viene fatto scendere in campo, anche a prescindere dalla richiesta di assistenza da parte del singolo Stato membro. Il che dovrebbe togliere di mezzo l’obiezione fasulla di tanti sadomasochisti amanti del MES: anche se uno Stato si impegna a non chiedergli un prestito, il nuovo MES può far male!

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