Il “premierato” è una bufala, e ha due corni

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di Roberto Bin

Ormai tutto è chiaro e il gioco è scoperto. Presentando una proposta di revisione costituzionale che rasenta il ridicolo (come già ho sottolineato in un precedente commento), il Governo non ha l’obiettivo di modificare davvero la Costituzione, ma semplicemente di mostrare la propria efficienza e di mantenere gli impegni assunti con il programma elettorale. In vista del referendum.

A dir il vero agli elettori si era prospettata una riforma costituzionale di segno presidenziale, che è cosa ben diversa dal “premierato” elettivo che la riforma vorrebbe introdurre (come rileva Antonio Cantaro). Ma queste sono finezze rispetto allo slogan che ha preso forma esplicita nei discorsi della premier: l’obiettivo è comunque di dare agli italiani il potere di scegliersi (finalmente!) chi li governerà! Uno slogan che sentiremo ripetere all’infinito se mai la riforma passerà in Parlamento e sarà sottoposta al referendum confermativo. Ecco, appunto, quel che si dirà agli elettori: chi si oppone alla riforma vuole togliere agli elettori stessi la scelta del capo del governo per consentire i soliti “inciucci” dei partiti e le scelte antidemocratiche del Presidente della Repubblica, tutti felici di gabbare la volontà degli elettori imponendo loro l’ennesimo Governo tecnico!

Ma questo slogan è una bufala e, come tutte le bufale che si rispettino, a due corni. 

Il primo corno appare evidente se solo si ragiona su cosa significherebbe “dare agli italiani il potere di scegliere chi li governerà”. Non è immaginabile che gli italiani vadano al voto senza un’indicazione elettorale dei candidati alla presidenza del consiglio: quanti saranno non lo si può prevedere, ma siccome verrebbe eletto chi prende un voto di più dei concorrenti, la partita si risolverà nella scelta tra due o tre candidati. Un’elezione a turno unico finirebbe in uno scontro all’ultimo voto tra concorrenti scelti dai partiti: gli italiani non avrebbero alcun potere in più di quanto possono già ora esercitare se si fronteggiano due coalizioni sufficientemente organizzate. Insomma, per il potere di scelta degli elettori non cambierebbe praticamente nulla. Il premierato elettivo (a turno unico) da questo punto di vista è sicuramente una bufala.

Ma la stessa conclusione si può raggiungere se solo si ragiona sulla situazione attuale (ecco il secondo corno). Giorgia Meloni mena vanto (e a ragione) di essere stata scelta dagli italiani: è stato un accordo tra partiti stretti in una coalizione di proporre alla guida del Governo il leader del partito che avesse preso più voti. E così è andata. Ma allora che cosa cambierebbe con la riforma? Proprio nulla quanto al potere di scelta degli elettori – scelta che è stata già pienamente esercitata nell’ambito dell’attuale costituzione e dell’attuale (pur orribile) sistema elettorale. Forse cambierebbe invece quanto a garanzia di stabilità del Governo “eletto”?

Solo in apparenza. La riforma prevede che se cade il premier, quale ne sia il motivo, si sciolgono le Camere e se ritorna al voto: se così fosse davvero, al Presidente della Repubblica non resterebbe alcun potere di scelta. Ma non è così: gli si dà la possibilità di ridare l’incarico al premier dimissionario/sfiduciato oppure ad un altro parlamentare esponente della stessa maggioranza. Come è stato subito segnalato, questa soluzione ricorda la malfamata “staffetta” dei governi di centro sinistra, che a metà legislatura sostituivano il capo del governo dando spazio ad altre forze della maggioranza. Non sarebbe un’ipotesi verosimile se la Lega ottenesse un grande successo nelle elezioni europee (ipotesi però inverosimile) inducendo il suo leader nella tentazione di ripetere il goffo tentativo di ribaltare il Governo Conte I, nell’estate 2019? Sarebbe così improbabile un “Governo Giorgetti”, magari con un forte caratura “tecnica”? Non sarebbe di certo la riforma costituzionale ad impedirlo!

Ecco perché la riforma è una bufala: non offrirebbe nessun potere in più agli elettori, né darebbe maggiori garanzie di stabilità ai governi “eletti dal popolo”. Perché la scelta del candidato a cui affidare il Governo e la sua stabilità non dipendono dalle regole costituzionali, ma dal gioco dei partiti. E’ la compattezza della coalizione a prospettare agli elettori il candidato a presiedere il governo; è la compattezza politica della coalizione a garantire la stabilità del governo. Il resto sono bufale,

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2 commenti su “Il “premierato” è una bufala, e ha due corni”

  1. Condivido l’aspra critica del prof. Bin.

    PdC governo e maggioranza spacciano l’incompetenza per coerenza ed affidabilità fingendo di mantenere a tutti i costi un impegno mal definito assunto nella campagna elettorale.

    Nel merito si persiste nell’errore pensando che sia possibile e opportuno creare una governabilità certa con riforme costituzionali ed elettorali senza travolgere i principi della democrazia parlamentare. L’equilibrio precario creato nel 1948 è stato scosso dopo tangentopoli da una serie di riforme del Parlamento che hanno omogeneizzato i due rami e da alcuni tentativi di presunto ammodernamento di natura elettorale e costituzionale, finora tutti falliti, abortiti o censurati dal popolo o dalla Consulta, tranne l’ultima (pessima) legge elettorale, la quale sembra tenere le promesse, se si considera solo l’ultimo periodo dal 2023 in poi. Perché allora cambiare anche la Costituzione?

    Dov’è l’errore?

    E se fosse errata l’idea di poter creare istituzioni democratiche e addirittura parlamentari che assicurano la governabilità?

    30 anni fa credevo anch’io che una buona legge elettorale uninominale a doppio turno calcata sul modello francese avesse potuto realizzare la quadratura (governabilità) del cerchio (parlamento sovrano). Intanto la legge Mattarella sporcava l’idea originaria aggiungendo un’ampia quota proporzionale a liste bloccate. Non sappiamo che cosa il modello puro avrebbe prodotto; sicuramente non un sistema bipolare: basta rileggere Duverger e osservare la realtà oltralpe dove il modello è pure rinforzato dal semi-presidenzialismo.

    Come creare allora la governabilità certa?

    Sorvoliamo i tentativi goffi dei modelli detti “majority-assuring” (chi soccombe ancora al potere magico delle formule vuote in inglese?) attraverso premi di maggioranza, poi censurati, anche se in modo forse non abbastanza severo, dalla Corte Costituzionale.

    Siamo tornati al punto di partenza, alla domanda iniziale. Solo che nel frattempo (sono passati 30 anni!) abbiamo perso la capacità di analisi e di giudizio sia dei modelli elettorali e della loro conformità ai principi democratici (abbiamo provato e discussi troppe bizzarrerie ingegneristiche), sia delle forme di governo: il modello americano ha rivelato le sue inadeguatezze anche ai suoi più bigotti ammiratori e pure il bipartitismo britannico non convince più; ovunque è proprio la polarizzazione che non convince più.

    Sono allora credibili coloro che stanno proponendo un modello parlamentare nuovo, finora inesistente, di governabilità sicura, polarizzando attraverso la figura del candidato premier, che a molti sembra incoerente ed inefficace? Non è preferibile seguire i modelli parlamentari consensuali, di governabilità conquistata sul campo, dell’Europa continentale?

    Se rinunciamo all’idea di governabilità assicurata dal sistema costituzionale ed elettorale, diviene in realtà più facile concentrarci sul compito più umile di governabilità da realizzare sul terreno attraverso il dibattito, il convincimento, il compromesso, il consenso, modalità che dipendono in larga misura dal carattere, dalle capacità e dalla buona volontà degli attori politici, dei rappresentanti eletti. Scegliamoli allora bene!

    La legge elettorale deve rispettare l’art. 67, base della democrazia rappresentativa. Prima regola: la scelta deve essere di candidati individuali. Nella logica democratica liberata dai pregiudizi di falsa scienza politica non esiste un’alternativa fra maggioritario e proporzionale; il principio maggioritario vale sempre; ma non deve essere applicato abusivamente; e per essere equa la rappresentanza eletta deve riflettere certe proporzioni; la rappresentanza proporzionale dei partiti non può tuttavia sostituire la regola maggioritaria sia per eleggere sia per deliberare fra rappresentanti senza vincolo di mandato.

    I sistemi elettorali tendono a produrre una frammentazione più o meno accentuata del Parlamento in gruppi; quindi le liste elettorali; e quindi i partiti politici. La rappresentatività democratica ed equa non implica però la massima frammentazione, un’aberrazione, ma solo la possibilità di affermare nuove iniziative significative, l’apertura, la contendibilità. In quest’ottica circa 5 partiti parlamentari bastano e i parlamentari possono essere eletti facilmente in piccole circoscrizioni di 3 a 5 seggi, non di più, su liste aperte, con una sola preferenza che vale per il candidato e per la lista, e ripartizione rigorosamente con la formula D’Hondt.

    Le coalizioni di governo indicano un PdC e dei ministri, non necessariamente fra i parlamentari.

    Governi consensuali formati secondo questi principi sono più faticosi a formare, ma tendono a reggere bene e soprattutto a promuovere legislazione coerente, efficiente, costante e durevole.

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  2. Addendum: La legge Mattarella era molto distante dal presunto ideale dell’uninominale a doppio turno: non c’erano solo le liste bloccate per un quarto degli “eletti”, ma per vincere nei collegi bastava la maggioranza relativa in una sola votazione. La quota proporzionale con sbarramento al 4% apriva a gruppi minoritari, ma il maggioritario secco spingeva alla polarizzazione.

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