La fiction Rai “Stato civile”
e il pluralismo del servizio pubblico

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di Lucilla Conte

La riprogrammazione della docu-fiction “Stato civile-L’amore è uguale per tutti” nella fascia oraria prime time (che in Italia si colloca indicativamente tra le 20 e le 21) e in occasione delle festività natalizie è stata accolta con numerose critiche.
Trasmesse prima della fiction di ambientazione partenopea “Un posto al sole” che da più di venti anni gode di un successo di pubblico quantificabile in oltre due milioni di telespettatori, le sei puntate prodotte dalla Panama Film hanno reso visibile, nella fascia oraria di massima diffusione e trasversalità dell’utenza, le storie di coppie same sex che grazie alla legge del 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) hanno potuto unirsi civilmente.

Lo stile della narrazione appariva sobrio e in linea con quello di altre trasmissioni andate in onda sulla stessa rete e nel medesimo orario, come “Sconosciuti-La nostra personale ricerca della felicità”: viene raccontata una quotidianità (spesso già) familiare che oscilla tra le gioie e i dolori dell’umana esistenza. Per tutti un happy end: il riconoscimento giuridico della propria unione.
Tutte le sei puntate, inoltre, iniziavano con una breve infografica che presentava i contenuti della nuova disciplina delle unioni civili: pochi cenni, sufficienti per rendere conoscibile al grande pubblico l’esistenza di questa innovazione normativa.

Nonostante le caratteristiche sopra indicate, la polemica è infiammata non tanto per i contenuti della docu-fiction in sé, ma per l’orario in cui è stata riprogrammata. Se poteva andare bene la “riserva indiana” della seconda serata (la prima puntata è stata trasmessa giovedì 3 novembre 2016 alle ore 23.15), risultava per alcuni inaccettabile la fascia dell’access prime time, con intere famiglie radunate attorno alla tavola (e davanti alla televisione) nelle giornate del 26, 27, 28, 29 e 30 dicembre alle ore 20.06

Mentre la Senatrice Monica Cirinnà applaudiva sulla sua pagina Facebook al coraggio della direttrice di rete Daria Bignardi, Mario Adinolfi parlava di “vergogna di stato”, “indottrinamento forzato che non ha precedenti nella storia della tv italiana”. Secondo il “popolo della Famiglia” non si sarebbe dovuto “fare indottrinamento gender a spese delle famiglie italiane nei giorni delle festività natalizie”, mentre l’Osservatorio gender non esitava a parlare in proposito di vero e proprio “gender diktat”.

Più sottile risultava la critica ricevuta da Massimiliano Padula, presidente dell’ Aiart (Associazione italiana telespettatori onlus) in una lettera del 20 dicembre 2016 su Avvenire.it, tesa a svolgere una più complessiva riflessione sul tema del pluralismo radiotelevisivo, racchiusa nella seguente domanda: “Perché la Rai non prova a superare la logica del sensazionalismo per investire su programmi che sappiano raccontare bene anche la famiglia etero, quella ‘noiosa’ composta da madri, padri e figli? (…) È questa la sfida che poniamo al servizio pubblico: scrivere e realizzare un format che riesca a raccontare la fatica e la gioia della normalità, a dare spazio alle contraddizioni e alle imperfezioni che oggi una coppia uomo-donna (sposata in Chiesa o civilmente) vive, nonostante le tante iniquità sociali ed economiche che spesso impediscono di generare figli e progettare il futuro”.

La richiesta appare sorprendente, per argomenti fattuali e argomenti giuridici di immediata evidenza.
Il racconto della famiglia etero (chissà perché poi definita noiosa?) costituisce ormai un solido e fortunato genere televisivo. Numerosissime fiction, soprattutto del servizio pubblico radiotelevisivo, hanno avuto ad oggetto la famiglia in tutte le sue contraddizioni e imperfezioni. A partire da “Un medico in famiglia” -trasmesso per la prima volta nel 1998 e giunto alla decima stagione- e dalla soap-opera “Un posto al sole”, la famiglia (o le famiglie: nucleari, ricomposte, allargate…) è stata la vera protagonista della programmazione del servizio pubblico, fino a giungere alle fiction più recenti come “Una grande famiglia” prodotta da Rai Fiction e trasmessa in prima serata su Rai 1 a partire dal 15 aprile 2012 e fino alla primavera del 2015 -avente ad oggetto le alterne vicende di di una famiglia di industriali lombardi- e “Tutto può succedere” andata in onda dal 27 dicembre 2015 al 13 marzo 2016, su Rai 1 (adattamento italiano della serie televisiva statunitense del 2010 Parenthood, trasmessa sulla NBC).

Appare dunque non corrispondente a realtà l’affermazione che l’immagine della famiglia (più o meno) tradizionale sia sottorappresentata nell’offerta radiotelevisiva del servizio pubblico.
Oltre alla dimensione della fiction, risulta inoltre presente anche quella che attraverso lo strumento della docu-fiction che tratta argomenti particolarmente sensibili quali la violenza – anche endofamiliare – sulla donne (è il caso della trasmissione di Rai 3 “Amore Criminale”, in onda dal 2007 e trasmessa sia in seconda che in prima serata).

La pluralità dei temi e dei linguaggi appare dunque evidente. L’idea distorta contenuta nella generalità delle critiche alla nuova programmazione di “Stato civile” è quella di un pluralismo che si sviluppi “per differenza” e non “per inclusione e /o accrescimento”. In altre parole, conviene chiedersi se la programmazione in prime time di quella trasmissione debba essere intesa nel senso di una sottrazione di spazio alla rappresentazione della famiglia tradizionale, oppure nel senso di un arricchimento dell’offerta culturale da parte del servizio radiotelevisivo.

In una lontana sentenza in tema di disciplina della trasmissioni radiotelevisive su scala nazionale (n.826/1988), la Corte costituzionale ha fornito una definizione di pluralismo radiotelevisivo: «il pluralismo dell’informazione radiotelevisiva significa, innanzitutto, possibilità di ingresso, nell’ambito dell’emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici» (Considerato in diritto, punto n. 11).

In particolare, a giudizio della Corte, compito specifico del servizio pubblico radiotelevisivo è «dar voce – attraverso un’informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata nelle sue diverse forme di espressione- a tutte, o al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società, onde agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e culturale del Paese» (Considerato in diritto, punto n. 12).

Interessante, ai fini di una definizione del concetto di pluralismo, anche un risalente documento di indirizzo alla società concessionaria del servizio pubblico da parte della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (http://www.camera.it/_bicamerali/rai/attiprov/i970213.htm), in cui vengono individuate ulteriori declinazioni del pluralismo, in particolare il pluralismo sociale (sulla base del quale il servizio pubblico ha il compito di rappresentare la autonomia e la dialettica delle realtà sociali del nostro Paese in tutta la loro ricchezza, dando voce anche a chi spesso voce non ne ha); il pluralismo culturale (che risulta realizzato nella misura in cui possano emergere le diverse opzioni culturali presenti nel Paese); il pluralismo di genere e di età (per cui risulta necessario che il servizio pubblico radiotelevisivo si faccia promotore del principio delle pari opportunità tra uomini e donne facendosi carico, nello strutturare la programmazione, «della presenza, tra i radio e telespettatori, dei minori: grande attenzione va riservata alla loro tutela, non soltanto in termini di protezione dalle culture della violenza e della prevaricazione fisica e psicologica, ma anche e soprattutto nel senso della promozione positiva di valori»).

È dunque possibile, alla luce di questi indici interpretativi, ricostruire una nozione di pluralismo che pure nel rispetto delle diverse opzioni culturali anche all’occasione antitetiche, favorisca la presenza della più ampia varietà di contenuti, così da rappresentare nel modo più fedele possibile l’intero spettro della società italiana, rendendolo accessibile ai telespettatori.

Il concetto di accessibilità deve essere declinato anche nel senso della possibilità, per i telespettatori, di selezionare, sulla base delle loro preferenze e/o anche in relazione alla presenza di telespettatori minori, i contenuti resi disponibili per la visione.
Come già individuato a suo tempo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 826/1988, il pluralismo si manifesta «nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico al quale si rivolgono i mezzi di comunicazione audiovisiva non fosse in condizione di disporre, tanto nel quadro del settore pubblico che in quello privato, di programmi che garantiscono l’espressione di tendenze aventi caratteri eterogenei» (Considerato in diritto, punto n. 11).

Questa facoltà di scelta si trova oggi di fronte a un progressivo slittamento del concetto stesso di pluralismo «non più inteso come specchio riflettente il posizionamento e il peso elettorale dei partiti e delle collegate ideologie e narrazioni, ma piuttosto come capacità di leggere, analizzare, interpretare la molteplicità delle fonti sociali, culturali, artistiche e politiche di questa nuova stagione, caratterizzata dalla crisi delle ideologie e delle forme partito del novecento e dalle spinte dei movimenti e dei populismi» (E.Scotto-Lavina, Informazione e servizio pubblico. Il terzo tempo di un modello organico e le sue criticità, in Problemi dell’informazione, 3, 2016, p. 599).

L’ondata polemica che ha investito la riprogrammazione della docu-fiction “Stato Civile” ha, inoltre, posto in secondo piano la sua funzione prevalentemente informativa e ricostruttiva di esperienze portate all’attenzione dei telespettatori.

L’ access prime time o preserale fu la fascia oraria in cui andò in onda il 15 novembre 1960 la prima puntata della trasmissione “Non è mai troppo tardi”, in cui il maestro Alberto Manzi impartiva l’insegnamento della lingua italiana insieme ad alcuni rudimenti di cultura generale. La scelta della sua collocazione era sintomatica dell’esigenza di raggiungere il più vasto numero di telespettatori e di permettere anche ai lavoratori un momento di formazione. Il ruolo sociale, educativo e culturale di quella trasmissione è universalmente riconosciuto ancora oggi e può fornire uno spunto utile per meglio leggere questa polemica natalizia.

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