La querelle sul velo e la dimensione
pubblica dei diritti individuali

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di Andrea Guazzarotti
Le sentenze della Corte di giustizia dell’UE sul velo islamico indossato sul luogo di lavoro sono due e sono state emesse lo stesso giorno: gli esiti, però, sono opposti.

Nel primo caso http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=188852&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=555708 , la Corte dà ragione al datore di lavoro, che aveva licenziato la dipendente musulmana per essersi rifiutata di togliersi il velo sul lavoro. Nel secondo caso http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf;jsessionid=9ea7d0f130d664bc5e465fda467aa8dcd69f88e6765e.e34KaxiLc3eQc40LaxqMbN4PahuSe0?text=&docid=188853&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=555151 , la Corte dà invece ragione alla lavoratrice, ritenendo il licenziamento discriminatorio.

A fare la differenza, per la Corte, sono i motivi del licenziamento: questo è, in astratto, legittimo, quando adottato in applicazione di un ‘codice’ di condotta dell’impresa ispirato alla ‘neutralità’ (niente segni distintivi dell’appartenenza religiosa, ideologica o filosofica). A rafforzare la legittimità della scelta dell’impresa sta il fatto che la lavoratrice col velo era a contatto con la clientela. Nel secondo caso, invece, l’unica giustificazione addotta dal datore di lavoro era quella di tener conto del desiderio di alcuni clienti che i servizi (consulenze ingegneristiche fatte all’esterno della sede del datore di lavoro) non fossero più materialmente forniti da una dipendente col velo islamico. La mera idiosincrasia dei clienti dell’impresa datrice di lavoro non può essere considerata tanto importante da trasformare in requisito essenziale e determinante della prestazione la ‘neutralità religiosa’ dell’abbigliamento della dipendente. Dunque, le sentenze si distinguono.

Ma, per qualcuno, si tratta di un ben tenue distinguo: v’è, infatti, una linea sottilissima tra il sostenere che il velo islamico della dipendente non può essere bandito solo perché i clienti lo pretendono, da una parte, e permettere al datore di lavoro di bandirlo (con codici di ‘neutralità’ dell’abbigliamento) allo scopo di anticipare le possibili reazioni dei clienti. Una finzione legale al limite del bizantinismo http://eulawanalysis.blogspot.it/2017/03/headscarf-bans-at-work-explaining-ecj.html .

Sebbene nel caso in cui ammette il licenziamento la Corte di giustizia faccia riferimento a un precedente della Corte europea dei diritti dell’uomo (competente a pronunciarsi sulle violazioni della CEDU e non sul diritto dell’UE), il caso Eweida e altri c. il Regno Unito del 2013 http://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-115881%22]} , quel caso ci dice molto di più di quanto la Corte UE si limita a citare (la liceità, in astratto, della scelta del datore di lavoro di dare un’immagine di neutralità dell’impresa verso i propri clienti). E sebbene si tratti di un precedente di un’altra Corte europea, responsabile di un diverso sistema giuridico (la CEDU), tale precedente riveste, in principio, forza vincolante per l’ordinamento UE e la Corte di giustizia: ai sensi dell’art. 52.3 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (avente lo stesso valore dei Trattati sull’UE), laddove la Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, «il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione».

In entrambe le ‘Carte’, viene garantita la libertà religiosa (art. 10 della Carta dell’UE, art. 9 della CEDU), ivi compresa la facoltà di manifestare in pubblico la propria convinzione religiosa. Ebbene, quel precedente della Corte EDU compie una serie di passaggi assai più stringenti e impegnativi della decisione della Corte di giustizia UE nel caso Achbita. Innanzitutto, la Corte EDU afferma che, vista l’importanza della libertà religiosa in una società democratica, non è sufficiente a sottrarsi dall’obbligo di rispettare le convinzioni religiose del proprio dipendente offrire a quest’ultimo una mansione diversa, che lo nasconda alla vista della clientela (soluzione che sembra invece suggerita dalla Corte di giustizia). In secondo luogo, non è sufficiente neppure l’approccio ‘liberale’ dell’eguaglianza formale: il divieto di indossare simboli religiosi, filosofici o ‘ideologici’ (il basco del Che?) era previsto per tutte le convinzioni dei propri dipendenti, dunque, nessuna discriminazione nei confronti della lavoratrice islamica.

Per la Corte EDU, si viola l’eguaglianza anche quando si omette di trattare in modo diverso persone la cui condizione è significativamente diversa da quella degli altri. Il velo islamico, piaccia o meno, è considerato da una parte non irrilevante dei fedeli musulmani una componente identitaria fondamentale, la cui funzione è proprio quella di intrattenere relazioni tra sé (il proprio corpo) e gli altri (specie, l’altro sesso) secondo un codice religioso ispirato alla pudicizia. Considerato che la gran parte del tempo della vita è un ‘tempo di lavoro’ e che per tutto questo tempo la lavoratrice è chiamata a relazionarsi con altre persone, non può presumersi che basti imporre a tutti il divieto di mostrare la propria identità religiosa sul posto di lavoro per mettersi in pace con l’obbligo di garantire la libertà religiosa. Per la Corte EDU, si tratta di un diritto fondamentale la cui garanzia va interpretata alla luce della necessità che una società democratica sana ha di tollerare e sostenere il pluralismo e la diversità, oltre alla luce della volontà individuale di centrare la vita attorno alla propria scelta religiosa, tanto da voler rendere nota agli altri tale scelta. Tale diritto, ovviamente, va bilanciato con la volontà dell’impresa datrice di darsi una certa immagine, ma quest’ultima non deve assumere un peso eccessivo (come invece, nel caso Eweida, la Corte EDU ha ritenuto).

Quel che rileva, al di là delle sempre cangianti circostanze dei casi concreti, non è l’esito finale delle due decisioni, bensì il fatto che per la Corte EDU, la libertà religiosa del lavoratore fa scattare un obbligo positivo del datore di lavoro (l’esigenza di farsi carico, fintanto che possibile, delle pretese identitarie della propria dipendente), il che appare qualcosa di diverso e di livello superiore rispetto alla semplice indagine sull’intento non discriminatorio del licenziamento.

Al fondo dei casi sul velo sta un’esigenza vecchia come il mondo, almeno come il mondo uscito dalla fine del politeismo: la società si cementa attraverso una comune religione (oggi: una comune ideologia, fosse pure quella tiepida del consumismo e dell’autoimprenditorialità neoliberista); le religioni di minoranza sono tollerabili purché si rendano invisibili nello spazio pubblico. Nel lontano 1986, la stessa Corte EDU aveva ritenuto legittimo bandire dalla scuola pubblica della Germania ovest docenti appartenenti al partito comunista (casi Glasenapp e Kosiek c. Germania del 28 agosto 1986); meno di dieci anni dopo, la Corte ribalta quei precedenti, condannando la Germania per aver licenziato una docente attivista del partito comunista (caso Vogt c. Germania del 26 settembre 1995). Cos’era successo nel frattempo? Era caduto il muro di Berlino e il comunismo non faceva più paura a nessuno.

carta dei diritti fondamentali, Mi pare che l’Islam, oggi, sia una delle poche ideologie non ancora addomesticate dai valori capitalistici (turbo-capitalistici) e capace di agglutinare (pericolose) sacche di ribellione presenti nella società. Ma l’Islam è una realtà talmente plurale da non poter essere appiattita su un’unica versione identitaria. Tollerare l’ostentazione pubblica dell’appartenenza all’Islam con modalità non estremistiche (come potrebbe essere il velo integrale o burqua) sarebbe un segno di maturità da parte di chi ha il potere di decidere e di … discernere!

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