Intercettazioni. Una replica a Antonio Ramenghi

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di Roberto Bin

Ne abbiamo discusso tante volte e, ben sapendo che non siamo del tutto d’accordo al 100%, ho sollecitato Antonio Ramenghi a scrivere l’editoriale sulla libertà di stampa e la pubblicazione delle intercettazioni. Il suo editoriale mi sembra un ottimo invito ad aprire il dibattito.

Qual è il punto del dissenso? Semplifico. Intercettare è un reato: salvo che non lo si faccia su autorizzazione del giudice nelle indagini per reati di un certo tipo, fermo restando che nulla può essere rilevato se non quello che il giudice ritiene necessario alle indagini e poi viene allegato agli atti del processo; solo per questa via il contenuto diventa legittimamente “pubblico”. Fuori da queste condizioni, qualsiasi “fuga di notizie” sulle comunicazioni intercettate è e resta un reato. Anche se la pubblicazione delle intercettazioni è utile all’informazione, che è un diritto dei lettori e un dovere del giornalista, è e resta un reato. Un reato grave, a mio modo di vedere, perché viola norme che sono poste a tutela di uno dei diritti fondamentali più gelosamente tutelati dalla Costituzione, la segretezza delle comunicazioni.

Siamo al solito conflitto tra diritti, l’art. 15 (corrispondenza) e l’art. 21 (libertà di stampa). Antonio ritiene che questa seconda debba prevalere e che bravo è il giornalista che rischia per adempiere al suo diritto/dovere di informare. Ma io non sono d’accordo. A che punto può spingersi il giornalista nella caccia alle notizie? Può pagare per ottenere ciò che è stato illecitamente sottratto dagli archivi? Può corrompere un pubblico ufficiale per farsi passare i dati? Può minacciarlo o rapinarlo? Può ricattarlo? Può sequestrarlo? Può uccidere? È evidente che non tutto può essergli concesso, ma chi è che decide dove fissare il limite in questa escalation? La coscienza professionale del giornalista o la legge?

In questi giorni si discute – anche su questo giornale – del caso del sikh che contrapponeva i suoi “valori” religiosi alla legge italiana che vieta di indossare armi. In che cosa è diverso il problema della pubblicazione illecita di intercettazioni? In un caso la legge vieta le armi per ragioni di sicurezza pubblica, nell’altro vieta la pubblicazione per ragioni di protezione dei diritti individuali; in un caso chi viola la legge dice di farlo per motivi religiosi, nell’altro per il sacro diritto/dovere dell’informazione quando ad essere intercettati siano personaggi pubblici. Sono entrambi casi di conflitto tra interessi costituzionali che chiede che sia la legge a fissare il punto di bilanciamento. Non posso tollerare che alla legge si sostituiscano i “valori” di una data comunità religiosa né quelli della corporazione dei giornalisti. Però mi piacerebbe discuterne.

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1 commento su “Intercettazioni. Una replica a Antonio Ramenghi”

  1. Io propendo a far mia la sua ottica (rigorosa, che non fa pieghe), ho letto entrambi gli interventi. Penso a giornalisti come Travaglio; all’inizio sembravano eroi… col passare degli anni, quelli un po’ più svegli, si sono resi conto che spesso c’era sotto poco – la dimostrazione visibile l’ha avuta anche la massa quando ci fu (un paio di anni fa) l’incontro Travaglio – Cavaliere a Santoro. Deludentissimo!

    Vorremo un giornalismo di informazione che non si soffermi sullo stralcio di telefonata rubato o la cosa detta che non ci stava, ma che ci parli dei trattati europei – semplificando magari ed essendo anche partigiano inevitabilmente -, che ci spieghi perché non ce la faremo a diminuire il debito di un ventesimo all’anno per una lunga sfilza di anni. Questi governanti dovrebbero poter essere giudicati per quello che NON fanno e per quello di cui non si occupano. Grave mancanza! Invece se ci soffermiamo su particolari così… alla fin fine nessuno risulta più intelligente di prima, anche se ha letto per 20 minuti o un’ora, tutto il suo bel giornale e si sente intimamente indignato, stufo e deluso. Non serve a nulla. È un micro contributo ad invogliare le persone ad occuparsi di altro, paradossalmente.

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