La tortura tra antiche lacune normative e diritto penale simbolico

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di Lucia Risicato *

Con imbarazzante ritardo sulla Convenzione di New York del 1984 l’Italia ha approvato in via definitiva due distinte fattispecie incriminatrici in tema di tortura: l’art. 613 bis c.p., che descrive – come vedremo – una sorta di reato abituale, e l’ancora più improbabile art. 613 ter sull’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

Il disegno di legge giunto alla Camera per l’ultima lettura «non è esattamente quello che avremmo scritto ma ne auspico l’approvazione senza modifiche», ha dichiarato pochi giorni fa il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, evidenziando il percorso tortuoso e i rimaneggiamenti subiti nel corso del tempo da un testo troppo spesso interpretato, nel nostro Parlamento, come uno strumento inusitatamente costrittivo nei confronti di comportamenti “disinvolti” di certi pubblici ufficiali. La mente corre all’irruzione nella scuola Diaz-Pertini nei cupi giorni del G8 genovese del 2001: calci e micidiali manganellate, insieme a umiliazioni gratuite di ogni tipo, furono inflitti a persone inermi dalle nostre forze dell’ordine – con un’azione definita a dir poco teppistica nei vari gradi di giudizio – col pretesto di stroncare inesistenti resistenze di Black block.

Si punta al ribasso, nella convinzione che una cattiva legge sia meglio di una legge assente: il varo faticoso di una norma su un delitto impronunciabile viene spacciata per conquista di civiltà a fini di captazione del consenso elettorale prossimo venturo.

Il punto è che una cattiva legge non è meglio di nulla: una cattiva legge, nel caso di specie, tradisce sia la ratio ispiratrice della Convenzione di New York che le indicazioni puntuali fornite all’Italia dalla sentenza Cestaro della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con cui il nostro Paese è stato condannato nel 2015 per i fatti vergognosi della scuola Diaz.

La sentenza Cestaro, prevedendo un obbligo di criminalizzazione sostanziale e processuale della tortura ex art. 3 CEDU, si è inserita nel solco di importanti pronunce europee che hanno contribuito a far emergere una nuova dimensione dei rapporti tra diritto penale e tutela dei diritti fondamentali. Nel caso specifico, tra l’altro, il divieto di tortura è contemplato in primo luogo dal quarto comma dell’art. 13 Cost.: si tratta dell’unico obbligo di criminalizzazione espresso – e finora clamorosamente disatteso – contenuto nella nostra Carta costituzionale.

Il nuovo art. 613 bis c.p., invece, tutela i diritti fondamentali solo a condizioni inverosimili a livello probatorio-processuale. La tipicità traballante della fattispecie di nuovo conio descrive la condotta di chi, «con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà, cagioni acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, cura o assistenza, ovvero che si trovi in minorata difesa». Il fatto è però punibile solo «se commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».

Il testo eredita, se possibile, i lati peggiori della versione precedente, rappresentandone nel contempo un’ulteriore degenerazione (il testo precedentemente approvato dalla Camera dei deputati puniva « chiunque, con violenza o minaccia, ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche a causa dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose o al fine di ottenere da essa, o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o infliggere una punizione o vincere una resistenza»).

La tortura continua ad essere un reato comune, punibile se commesso da chiunque e non dal solo pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio: si tradisce, così, lo spirito di tutte le Convenzioni internazionali, che considerano la tortura come un delitto che gravita «intorno al rapporto tra autorità ed individuo di cui esprime una delle più odiose forme di perversione» (Tullio Padovani). Ma c’è di più: gli elementi della gravità della violenza o della minaccia, unitamente al dato surreale della verificabilità del trauma psichico, aggravano la prova della commissione di un fatto che assume qui l’incredibile veste di un reato abituale proprio, in cui i singoli episodi criminosi non costituiscono reato salvo che integrino gli estremi del trattamento disumano o degradante!

Le insidie di un testo così strutturato, soggetto a termini di prescrizione ordinari, sono talmente numerose che una loro avvilente esemplificazione non riesce a renderle tutte visibili: il fatto non sarà punibile se commesso con violenza o minaccia non grave (come se il nostro codice penale distinguesse violenze o minacce serie e facete), se il trauma psichico non sia “verificabile”, ovvero eziologicamente riconducibile in via esclusiva alla tortura, o se la sofferenza della vittima non dovesse essere ritenuta “acuta”.

Non meno discutibile è l’ipotesi criminosa di cui all’art. 613 ter c.p., che contempla un’eccezione al principio generale di cui all’art. 115 c.p. (in tema di non punibilità del c.d. tentativo di concorso) qualora «il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istighi in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di pubblico servizio a commettere il delitto di tortura». Questa disposizione, che pure appare coerente con le Convenzioni internazionali in materia, subordina la rilevanza penale della condotta istigatoria al dato opinabile dell’idoneità concreta della genesi o del rafforzamento del proposito criminoso nell’ambito dei rapporti di subordinazione gerarchica di diritto pubblico. E tuttavia non è questo l’elemento più problematico: a parte la questione della dubbia vis istigatoria di un semplice incaricato di un pubblico servizio, a suscitare enormi perplessità è l’individuazione dei destinatari della condotta istigatoria nei soli pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, col risultato paradossale che, se un pubblico ufficiale istiga in modo concreto alla tortura un privato cittadino (possibile soggetto attivo del reato di cui all’art. 613 bis), il fatto risulterà non punibile alla stregua dell’art. 115 c.p.

Siamo molto lontani dall’idea, cara alla CEDU, di un diritto penale inteso come strumento di tutela dei diritti umani. Parafrasando Baumann, siamo piuttosto in presenza di un diritto penale “liquido”, troppo spesso forgiato su esigenze politiche di consenso, troppo spesso baluardo inutile a tutela del nulla. Siamo ampiamente recidivi: pensiamo alle draconiane norme incriminatrici a tutela dell’embrione, alla contravvenzione di immigrazione clandestina, agli innalzamenti dei minimi edittali di pena che toccano sempre la tutela del patrimonio, segnando un diritto penale a due velocità.

Una cattiva legge è una cattiva legge. Il reato di tortura oggi esiste, col forte sospetto che sia stato calibrato per non esistere.

*Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Messina

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