di Fulvio Cortese
Che il “governo” dell’immigrazione costituisca, oggi, uno dei nodi più problematici da sciogliere è un dato di fatto. Non si può dire, tuttavia, che vi sia, nel dibattito pubblico (e politico…), una consapevolezza diffusa della singolare profondità delle questioni che il tema sollecita.
Non si tratta, semplicemente, di razionalizzare, o umanizzare, una sorta di insopprimibile e naturale pulsione, tipica di ogni comunità, a difendere le prerogative dei suoi membri di fronte alla minaccia che altri soggetti possano concretamente aspirarvi. Né si tratta di difficoltà puramente tecniche od organizzative. Ad essere in gioco è la tenuta effettiva del modo con cui, nella tradizione occidentale, lo Stato moderno si è costruito e rafforzato come Stato di diritto.
Nel suo ultimo lavoro, Rebus immigrazione, (il Mulino, Bologna, 2017- link: https://www.mulino.it/isbn/9788815271532), Giuseppe Sciortino – sociologo, tra i più autorevoli e stimati interpreti del fenomeno migratorio – muove proprio da questa prospettiva, per segnalare che è dal XVII secolo – e precisamente dai trattati che hanno posto fine alla Guerra dei Trent’anni – che, in Europa, si è formata una singolare asimmetria tra il diritto degli individui di uscire dal proprio paese e il diritto degli stati di determinare chi può entrare nel loro territorio.
L’atteggiamento guardingo con cui questo secondo diritto viene tuttora esercitato non sembra del tutto giustificato. Attualmente, infatti, la dimensione globale della circolazione migratoria è abbastanza piccola: soltanto il 3,3% della popolazione mondiale vive in un paese diverso da quello di nascita. Perché mai gli stati europei dovrebbero preoccuparsi così tanto? C’è anche un altro dato da considerare. Ad essere più esigenti di altri, nelle politiche di ingresso, sono proprio gli stati della tradizione liberale e democratica, non quelli autoritari: negli stati del Golfo Persico, ad esempio, gli stranieri sono quasi il 50% della popolazione, con punte (in Qatar) dell’85%. Il fatto è che essere liberale e democratico significa anche essere legato ad una certa stabilità egualitaria della popolazione e tendere così a riconoscere diritti con maggiore facilità. Se questa è l’identità forte, giuridica, delle nostre società, non possiamo certo stupirci che esse siano una delle mete più ambite.
Sciortino sviluppa quest’ultimo punto con attenzione, dimostrando passo dopo passo – ed avvalendosi a tale scopo dell’illustrazione di immagini ed episodi sintomatici – come dal Settecento ai giorni nostri vi siano state, in Europa, molteplici “crisi” migratorie, e come l’evoluzione storica delle politiche statali e internazionali (dall’età napoleonica alla grande guerra, dalla Convenzione di Ginevra alla comunitarizzazione delle politiche di asilo) si sia sempre giocata sul filo della ricerca, mai veramente risolta, di un complesso equilibrio tra le tensioni universaliste che alimentano la tradizione occidentale e le istanze protezionistiche che continuano a innervare i sistemi economici nazionali e le forme di garanzia del lavoro che a ciascuno sono di volta in volta correlate. La circostanza che queste tensioni abbiano diverse intensità e velocità, specialmente nel confronto tra i paesi dell’Europa settentrionale e quelli dell’Europa meridionale, ha dato luogo anche alle contraddizioni dell’odierna gestione europea delle frontiere.
Che fare, dunque? L’Autore, in primo luogo, evidenzia l’insostenibilità del “mostro gentile” ora operante, ossia dell’abbinamento, promosso anche dalle istituzioni europee, “di apertura normativa e restrizione fattuale”. In questo modello, del resto, c’è una certa ipocrisia. Ma Sciortino evidenzia anche la fallacia delle soluzioni estreme (quella populista, di destra; e quella internazionalista, di sinistra): sia perché, per un verso, una società omogenea, a ben vedere, mai c’è stata, ed è arduo quindi che vi sia in futuro; sia perché, per altro verso, l’apertura assoluta dei confini impedirebbe la continuazione, all’interno degli stati, di reali ed effettive politiche redistributive.
L’appello di Sciortino, in definitiva, è per una accurata e paziente “gestione”: abbandonando gli approcci emergenziali; chiarendo il regime normativo dell’ingresso (e rendendolo più certo); scoraggiando i comportamenti opportunistici legati ai molti privilegi che sono riconosciuti a talune categorie specifiche di migranti; optando per una più esplicita politica del lavoro; mutando comunque anche le regole per l’acquisto della cittadinanza; e distribuendo, infine, tra gli stati europei quote di rifugiati e costi per i controlli in modo più uniforme di quanto non accada oggi, senza dimenticarsi di immaginare misure di incentivo per la collaborazione attiva dei paesi di transito.
In altri termini, “quello che è veramente urgente è riportare l’immigrazione allo stato laicale”, perché “l’immigrazione non è il tramonto delle nostre società, e neanche la loro palingenesi”; l’immigrazione “è solo un problema da gestire, al pari di tanti altri”, dove “i buoni (o malvagi) sentimenti non potranno mai sostituire la competenza e la buona amministrazione”.