di Andrea Pisaneschi
Le recenti vicende relative alla nomina del Governatore di Banca d’Italia, preceduta da mozioni in Parlamento tese a incoraggiare il Governo verso una generica “discontinuità”, seguita da contrapposte prese di posizioni del Presidente della Repubblica finalizzate a ribadire l’indipendenza dell’organo, nel quale si è inserito poi il solito, triste, dibattito politico asfittico tendente a guadagnare i voti del populismo della prima ora, hanno lasciato in ombra un vero problema giuridico e istituzionale. E’ giusto che il Parlamento dibatta della nomina del Governatore della Banca d’Italia e in che termini può dibatterne ?
La legge 262 del 2005 (c.d. legge sulla tutela del risparmio) prevede all’art. 19 comma 8 che il Governatore della Banca d’Italia sia nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio Superiore della Banca d’Italia. Può essere revocato con la stessa procedura, dura in carica sei anni ed è rinnovabile una sola volta. La legge fu introdotta dopo le dimissioni del Governatore Fazio in presenza allora di un sistema normativo che prevedeva la nomina a vita del Governatore e nessuna norma sulla revoca.
Nel mondo certamente vario delle c.d autorità indipendenti questa procedura si pone come un unicum. Nell’ambito delle autorità in qualche modo “finanziarie” il presidente dell’Antitrust è nominato dai Presidenti di Camera e Senato, dura in carica sette anni e non è rinnovabile. Nessuna norma è prevista per la revoca (massimo distacco teorico dalla politica). Più vicino al modello Banca d’Italia il procedimento previsto per la nomina del Presidente della Consob: delibera del Consiglio dei ministri, proposta del Presidente del Consiglio e decreto del Presidente della Repubblica. Tuttavial a differenza del Governatore di Banca d’Italia, il Presidente della Consob ha una durata in carica di sette anni non rinnovabile; nessuna norma è prevista per la revoca.
La procedura di nomina del Governatore di Banca d’Italia non ha dunque la funzione di porre una muraglia cinese tra Governo e Governatore. L’atto di nomina è certamente un atto duale, frutto della convergenza delle due volontà di Governo e Presidente della Repubblica; il potere di revoca presuppone la possibilità di un giudizio – evidentemente politico – da parte del Governo sull’operato del Governatore; la possibile rielezione è uno strumento classico per sancire l’accountability di un organo che invece è esclusa da quei modelli che prevedono un solo mandato. La mancata conferma è infatti espressione implicita di un giudizio negativo .
Questa procedura di nomina del Governatore dipende dalle funzioni svolte dalla Banca d’Italia. Anche se la Banca d’Italia nel contesto della moneta unica ha perso i poteri di politica monetaria che maggiormente condizionano la politica economica dei Governi, ed anche se ormai ha perso quasi tutti i suoi poteri di vigilanza bancaria nel completarsi dell’Unione Bancaria, essa rimane pur sempre titolare dei poteri di vigilanza sulle banche di dimensioni più ridotte e comunque coopera con la BCE nell’esercizio delle funzioni di vigilanza incardinate su quest’ultima autorità.
Il sistema bancario costituisce il primo anello della circolazione della liquidità in un paese, ed è pertanto irragionevole pensare che un Governo possa disinteressarsi completamente dello stato di efficienza del suo sistema bancario. Per altro verso, una ingerenza eccessiva del sistema politico in questa area, è dannosa proprio per la tendenza dei governi ad utilizzare il sistema bancario per fini di sviluppo economico, normalmente penalizzandone la stabilità e minandone la natura di soggetti privati che agiscono non per fini di pubblica utilità, ma per scopi di lucro all’interno di un mercato competitivo. La ricerca di equilibrio tra indipendenza e accountability costituisce perciò il leit-motiv di ogni normativa relativa agli organi che esercitano la vigilanza bancaria, e costituisce anche la ragione della previsione di un atto duale nel nostro sistema.
Tuttavia indipendenza non significa esclusione del potere di dare un giudizio, men che meno quando questo sia espresso a posteriori e dunque non sia finalizzato al condizionare le decisioni dell’organo; non implica la impossibilità di dare un indirizzo di metodo; men che meno significa che in astratto sia contrario a tale indipendenza la possibilità di selezionare, con procedure trasparenti ed indirizzi parlamentari, il responsabile primo della vigilanza bancaria.
Una dimostrazione di quanto non solo questo sia possibile, ma in un mondo ideale anche auspicabile, ci viene dalla normativa europea relativa all’accountability della BCE.
A livello europeo la questione dell’accountability della BCE – in relazione alle sue funzioni di vigilanza bancaria – è risolta dal regolamento 1024 del 2013, che istituisce il Single Supervisory Mechanism (la normativa che ha trasferito la vigilanza bancaria dalle banche centrali degli Stati alla BCE). Questo regolamento non è stato approvato sin tanto che non fossero stati precisati i meccanismi della c.d. responsabilità democratica (o meglio accountability, come scritto nel testo inglese, che ha un significato diverso) della BCE, rispetto alla quale il Parlamento europeo aveva chiesto specifiche garanzie. Queste garanzie si sostanziano in poteri del Parlamento di rivolgere interrogazioni e richieste di chiarimenti al Presidente del Consiglio di Vigilanza, oltre alla previsione di vari momenti di interlocuzione tra Presidente del Consiglio di Vigilanza e Parlamento stesso. Tali poteri sono stati ad esempio recentemente esercitati dal Presidente del Parlamento Europeo nel momento in cui la BCE ha annunciato nuove guidelines sul trattamento in bilancio delle banche dei non performing loans (NPL), che comporterebbe inevitabilmente nuovi aumenti di capitale per le banche e/o una nuova fase di restrizione del credito.
Un accordo interistituzionale (tra Parlamento e BCE), sempre del 2013, ha poi previsto ulteriori strumenti di collegamento tra i due organi specialmente in relazione alla nomina del Presidente del Consiglio di Vigilanza. Ad esempio i criteri di selezione dei candidati sono inviati ad una commissione del Parlamento insieme alla lista dei candidati. La commissione parlamentare può presentare interrogazioni sui criteri e sull’elenco. Dopo la scelta del candidato da parte della BCE si svolge un’audizione pubblica ed è il Parlamento a decidere se approvare o meno la candidatura. Nel caso di bocciatura la BCE può attingere alla lista dei candidati preesistente o rinnovare completamente la procedura.
In conclusione, nella visione europea, discutere, anche pubblicamente, dei profili tecnici e della visione economica dei candidati per una carica di tale rilievo non lede necessariamente l’indipendenza dell’organo, ma anzi ne rafforza la legittimazione tecnica.
In Italia invece indipendenza e accountability sono considerati concetti contrapposti. Si preferisce tutelare l’indipendenza non attraverso una pubblica cross examination ex ante del candidato, ma con strumenti di scelta oscuri e opachi, dove però si annidano spesso compromessi non noti.
In questo “decennio terribile” (2008-2018) la Banca d’Italia ha fatto alcune scelte di fondo, condivisibili o meno. Gli Stati europei hanno investito circa il 3% del PIL di tutta l’Europa per la ricapitalizzazione pubblica delle banche (la sola Germania ha investito circa 200 miliardi di euro tra ricapitalizzazioni e acquisto di asset c.d.“tossici”) nel momento nel quale la Commissione europea, in seguito ad una comunicazione del 2008, aveva introdotto criteri più elastici sugli aiuti di Stato in materia bancaria. In quello stesso periodo la vigilanza italiana ha ritenuto di non dover segnalare criticità che giustificassero interventi pubblici straordinari. Terminate le ricapitalizzazioni pubbliche in tutta Europa, la Commissione nel 2013 ha cambiato orientamento – ritenendo ormai la crisi finanziaria risolta – e la successiva direttiva BRRD del 2014 ha previsto il principio della liquidazione delle banche in crisi come regola e solo in via eccezionale la possibilità del c.d. bail in (salvataggio con i costi a carico degli azionisti e obbligazionisti).
Può essere stata una scelta giusta non porre a carico dei contribuenti gli oneri del salvataggio delle banche, ma è evidente che questa scelta, al di là del problema della tutela dei risparmiatori, presenta il trade off di far innalzare in Italia il costo del credito rispetto agli altri paesi europei, e dunque rallentarne la ripresa economica. E’ davvero un tema sul quale un vero Parlamento, non percorso solo da pulsioni populiste, non avrebbe alcun titolo per intervenire ?