di Alessandro Lauro
In questi giorni di fremito pre- e post-elettorale, gli italiani hanno per un momento “riscoperto” la politica: grazie al tam tam sui social network, ai link che piovono magicamente ovunque per calcolare le affinità politiche, agli illuminati appelli “ad informarsi”, si è aperto innanzi al cittadino elettore un universo di sigle, simboli, nomi che prima erano sconosciuti o quasi.
Al centro di tutto questo movimento ci sono stati loro, i programmi, parametro che sofisticati test e complicati algoritmi assumevano per offrire al cittadino la giusta lista da votare.
Vorrei per un istante richiamare l’attenzione sull’etimologia di questa parola (“programma”) ed in particolare su quel prefisso “pro”. Il programma è ciò che viene “scritto prima”, evidentemente per essere realizzato poi. È un pro-getto (proiectum: gettato in avanti), una pro-messa… insomma, è tutta una pro-iezione nel futuro.
È questa la parola magica, il valore fondativo del programma: il futuro.
Ma sorge un dubbio assillante: può una democrazia vivere di solo futuro?
Secondo un filosofo israeliano, docente presso l’università di Princeton – Avishai Margalit – le democrazie non hanno un gran bisogno della memoria del passato: esse traggono la loro legittimazione dalle elezioni celebrate nel presente. Margalit stesso, però, riconosce che le democrazie costituzionali si fondano, viceversa, su un “documento” che nel passato ha trovato la sua origine: la Costituzione, appunto.
Seguendo questo ragionamento, possiamo allora dire che la democrazia costituzionale vive in una perenne tensione “temporale” , fra uno ieri, un oggi ed un domani. Ed il fulcro, il centro di equilibrio di questa tensione sta nel momento elettorale, punto più alto dell’espressione e della partecipazione democratica.
Le elezioni “presenti” non sono solo strumento di proiezione a (breve-) medio termine nel futuro (i cinque, o forse meno, anni di una legislatura). Sono e restano il principale strumento – forse l’unico, se nell’accezione di elezioni si fa rientrare un po’ atecnicamente anche il referendum, come manifestazione della volontà popolare – di sanzione politica, che il corpo elettorale ha nei confronti dei suoi rappresentanti.
Per non complicare troppo il discorso, limitiamoci a constatare – per inciso – che conseguentemente il sistema deputato a trasformare i voti dei cittadini in seggi (e quindi in rappresentanti, persone fisiche) dovrebbe garantire che le scelte dei cittadini determinino chiaramente, sanzionando e premiando, l’individuazione dei loro rappresentanti.
Ciò detto, una sanzione non può che arrivare ex post, per colpire determinate condotte, per dissociarsi da certe posizioni assunte, per contrastare talune decisioni prese, per far valere la responsabilità politica di chi ha detenuto il potere. Ecco perché questo afflato alle visioni pro-grammatiche, al calcolo percentuale di compatibilità fra un elettore e un pro-getto elettorale, finanche la tendenza a vedere nelle scelte elettorali una mera adesione alle sirene populistiche di questa o quella pro-posta “appiattiscono” la complessità democratica.
La democrazia non può vivere solo nella rincorsa all’incerto futuro, deve confrontarsi con un fugace presente e soprattutto con un passato acquisito: non si può credere che, al momento del voto, il corpo elettorale soffra di una amnesia collettiva indotta dalla lettura (o dall’ascolto) di un programma.
Per decidere nel presente bisogna basarsi in primis sul passato: il domani non basta.