La “questione del Governo” passa dalla mediazione parlamentare. Il resto sono solo chiacchiere

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di Antonio D’Andrea

Ci sono due brevi considerazioni che mi sembrano avere valenza istituzionale e che perciò richiamo all’attenzione di quanti si apprestano a seguire l’avvio della XVIII Legislatura e, conseguentemente, la eventuale definizione di accordi tra le forze politiche finalizzati ad individuare una maggioranza parlamentare. Maggioranza che, come richiesto da dettato costituzionale, consenta la formazione di un Governo in grado di operare nell’ordinamento nella pienezza dei poteri. La necessità di dare vita ad accordi post-elettorali tra i Gruppi parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato è indotta dall’esito del voto politico che non consente – di per sé – né alla coalizione di centrodestra né al Movimento 5 Stelle di poter pensare di ottenere l’approvazione della mozione di fiducia rispetto ad un Governo espressione esclusiva della prima o del secondo.

Occorre in sostanza che si verifichi quantomeno un sostegno parlamentare (che potrebbe passare anche da qualche forma di “benevola” astensione) nei confronti di un Esecutivo di centrodestra ovvero di marca pentastellata così da consentire l’approvazione a maggioranza semplice della rispettiva mozione di fiducia e non già il suo sicuro rigetto. In assenza di un accordo tra il centrodestra (o una parte di questo) e il Movimento 5 Stelle, o di una precisa volontà di sommare a uno di questi due schieramenti voti “esterni” (in particolare quelli che sono in dotazione ai Gruppi parlamentari del Pd) così da dar vita ad una maggioranza diversa  rispetto a quella prospettata al corpo elettorale allorché si è trattato di chiedere il consenso per poter governare in esclusiva (spingendosi sino ad individuare il leader che avrebbe guidato il Governo e nel caso del Movimento 5 Stelle presentando addirittura una compagine ministeriale), non resterebbe altro che avviarsi verso un rapido ricorso alle urne così da ritornare alla casella di partenza e verificare, ancora una volta, l’orientamento del corpo elettorale.

So bene, naturalmente, che questa evenienza passa attraverso le valutazioni – anche di ordine temporale – del Capo dello Stato e che ci si potrebbe arrivare con modalità differenti (ad esempio un Governo di minoranza piuttosto che la permanenza in carica del dimissionario – ovviamente – Governo Gentiloni). Tuttavia, prima che dalle chiacchiere delle forze politiche ancora impegnate in atteggiamenti propagandistici si passi ai fatti concreti – le determinazioni del Presidente della Repubblica e dei Gruppi parlamentari – è opportuno insistere su quanto viziata sia la corretta dinamica parlamentare da improvvide iniziative delle forze politiche e di chi ne viene, per esplicita licenza legislativa, incoronato “capo”.

Se c’è un elemento da considerare con estremo favore a proposito del sistema di governo parlamentare quando si esaminano le caratteristiche strutturali dell’organizzazione degli Stati democratici (la c.d. forma di governo) è la peculiare duttilità di quest’ultimo tanto più quanto l’impatto avviene con un contesto politico variegato e instabile come quello italiano nel quale operano – in realtà da sempre – diverse formazioni politiche (il c.d. multipartitismo esasperato). In occasione delle elezioni del 4 marzo scorso si è dimostrato come i meccanismi elettorali non sono i grado di assicurare ex ante l’individuazione di una maggioranza di governo. Sarà pure colpa di qualcuno, ma è così, oggi come ieri e come domani, a meno di non puntare sull’elezione del capo del Governo sganciandolo dalla necessità di un sostegno parlamentare; e sempre che non si voglia nuovamente ricorrere ad artifici legislativi illegittimi perché preoccupati solo di dispensare sempre e comunque premi in seggi senza tenere conto dell’effettivo peso elettorale ottenuto dalla lista o dalla coalizione.

È dunque pacifico che la “questione del Governo” debba necessariamente ricadere nella responsabilità delle forze politiche considerate nella loro “vera” dimensione parlamentare così come determinata dagli elettori. Se questo accade, mi chiedo se abbia senso irrigidire artificiosamente il funzionamento del sistema di governo prescelto dalla Costituzione annunciando insensatamente l’indisponibilità preventiva a concludere dopo il voto accordi di maggioranza con altre forze politiche e arrivando a precostituire la leadership del Governo espressa da questo o quel partito come se davvero questo aspetto dovesse essere risolto in anticipo dagli elettori e non già in sede parlamentare con il determinante “concorso” del Capo dello Stato. E sempre partendo dalla indispensabile mediazione politico parlamentare che, per definizione, coinvolge necessariamente gli organi rappresentativi della volontà popolare.

Stupisce inoltre che dopo aver enfaticamente discusso di “primarie aperte” e altre amenità simili, che hanno solo provocato la destrutturazione di quel poco che restava della “forma partito” e della sua militanza di “stretta osservanza”, si senta il bisogno di evocare una sorta di referendum tra gli iscritti (pochi) per posizionare nella inevitabile trattativa per il Governo il proprio Gruppo parlamentare (ancora in corso di definizione). È davvero possibile evocare metodiche estemporanee che snaturano e mortificano, ancora una volta, il senso della rappresentanza parlamentare di una forza politica (e della sua classe dirigente) che non viene considerata neppure in grado di stabilire una strategia operativa che prenda atto di una cocente e sonora sconfitta elettorale?

Per fortuna tornerà a parlare il dettato costituzionale e molti velleitarismi dovranno essere accantonati, pagando tuttavia un prezzo non banale alla scarsa credibilità del sistema politico italiano, debole ma parolaio.

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