Salvataggio in mare: cosa dice il diritto (e cosa non dice)

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di Irini Papanicolopulu*

Le recenti vicende legate al salvataggio effettuato dalla nave Aquarius e al rifiuto dell’Italia di accogliere le persone salvate ha riportato all’attenzione del pubblico più vasto la questione del soccorso in mare e della relazione tra esso e le politiche migratorie di uno Stato.

La questione è squisitamente politica e necessita di essere affrontata in maniera coerente e completa, coinvolgendo tutti gli Stati delle regioni Mediterranea ed Europea e proponendo soluzioni che tengano conto di tutti gli aspetti della questione. Ma, essendo l’Italia uno Stato di diritto, qualunque soluzione dovrebbe tenere debito conto delle varie norme giuridiche che prevedono diritti ed obblighi per gli Stati e tutti gli altri soggetti coinvolti nella vicenda. Sembra così utile indicare alcuni dei principi e delle norme applicabili al soccorso in mare, peraltro già richiamati in una lettera aperta preparata da giuristi italiani esperti di diritto del mare tra cui l’autrice di questo articolo.

Il primo principio da tenere in mente – e quello più rilevante – è il dovere di tutelare la vita umana in mare. Questo principio, che risale ad un’antica consuetudine, è stato ripreso dal principale trattato internazionale che si applica agli spazi marini, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. L’obbligo di soccorrere le persone in pericolo di perire in mare è imposto a tutti gli Stati; agli Stati di bandiera, per il tramite dei comandanti delle loro navi e dei rispettivi equipaggi, e agli Stati costieri attraverso l’obbligo di creare e operare sistemi di ricerca e soccorso (search and rescue).

L’obbligo di tutelare la vita umana in mare è generale e si applica a tutti, navi militari comprese. Esso si applica con riferimento a qualunque persona in pericolo, senza tenere conto della sua nazionalità, del suo status, o delle circostanze che hanno condotto questa persona ad essere in pericolo. L’unica eccezione all’obbligo riguarda quei casi in cui sia materialmente impossibile prestare soccorso, per esempio a causa delle condizioni meteorologiche, oppure l’attività di soccorso creerebbe un serio rischio per la nave soccorritrice.

L’attività di ricerca e soccorso ad opera degli Stati costieri è stata disciplinata in maggiore dettaglio da altri due trattati, la Convenzione SOLAS del 1974 e la Convenzione SAR del 1979. Entrambi i trattati poggiano su alcuni principi cardine, tra cui l’obbligo per gli Stati costieri di agire proattivamente per soccorrere chi è in pericolo, e l’obbligo di cooperazione tra tutti gli Stati coinvolti (stati costieri, ma anche stati di bandiera delle navi che navigano nella zona interessata).

In particolare, per la natura stessa dell’obbligo di tutelare la vita umana in mare, il mancato adempimento da parte di uno Stato non costituisce adeguato fondamento per il rifiuto di ottemperare opposto da un altro Stato.

Una volta soccorse, le persone in pericolo devono essere trasportate in un luogo sicuro. Luogo sicuro vuol dire non solo un luogo dove la persona salvata non corra il rischio immediato di annegare, ma anche un luogo dove questa persona non debba temere per la propria incolumità, per esempio perché potrebbe essere uccisa o torturata. Salvare una persona dalla morte in mare solo per consegnarla a chi la torturerà o la ucciderà, infatti, sarebbe un palese controsenso, nonché una violazione della norma che impone di condurre le persone salvate in un luogo sicuro.

Questo principio è saldamente previsto nelle Convenzioni SOLAS e SAR. Il problema, che genera situazioni quali quelle della nave Aquarius, è che questi trattati non contengono norme attuative idonee ad identificare, in ogni singolo caso, in quale tra i vari Stati potenzialmente coinvolti si trovi questo luogo sicuro. Questa lacuna genera situazioni in cui ognuno degli Stati potenzialmente coinvolti si rifiuta di accogliere le persone soccorse, ritenendo che lo debba fare un altro Stato.

Questa lacuna, tuttavia, non può essere interpretata dagli Stati nel senso da esimerli da ogni responsabilità di accogliere le persone soccorse, per esempio perché un altro Stato ha coordinato le operazioni di soccorso. Tale interpretazione, oltre a non trovare fondamento nelle norme di riferimento, disincentiverebbe ogni attività di coordinamento dei soccorso, con effetti contrari allo spirito stesso di cooperazione sotteso all’esistenza di una rete internazionale di centri di soccorso.

La necessità di condurre le persone salvate in un porto sicuro influisce anche sulla possibilità di “chiudere” i porti. In generale, i porti fanno parte del territorio dello Stato, che può disciplinare le modalità di accesso ad essi, arrivando a proibire l’ingresso a navi che battono bandiera diversa. Ma questo potere incontra delle eccezioni, la più importante delle quali riguarda quelle navi che, trovandosi in difficoltà, pongono un rischio per la vita delle persone a bordo.

In queste circostanze, che vanno valutate caso per caso, il rifiuto dello Stato costiero di accogliere in porto una nave potrebbe configurare una violazione del dovere di salvaguardare la vita umana in mare – previsto dalle convenzioni summenzionate – del dovere di tutelare il diritto alla vita – previsto dai trattati in materia di diritti umani, tra cui la Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – e potrebbe perfino risolversi in una forma di respingimento di massa, anch’esso vietato dai trattati sui diritti umani.

Infine, la chiusura dei porti – o la minaccia di chiuderli – non può essere usata come contromisura, per rispondere ad un’eventuale violazione dei propri obblighi da parte di un altro Stato (Stato di bandiera della nave, altro Stato costiero, altro Stato in generale). Il diritto internazionale è chiaro sul punto: le contromisure non possono mai essere usate se violano i diritti umani fondamentali.

Questo non vuol dire che gli Stati non abbiano strumenti per far rilevare le violazioni altrui. In particolare, nel caso di violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la Convenzione stessa prevede la possibilità di sottoporre la questione ad un giudice internazionale, che deciderà con effetto vincolante per le parti. Se l’Italia quindi ritiene che Malta, o altri Stati, abbiano violato i propri obblighi, ha a disposizione mezzi che non violano i diritti umani per affermare le proprie ragioni.

* Professore associato di diritto internazionale, Università di Milano-Bicocca

 

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2 commenti su “Salvataggio in mare: cosa dice il diritto (e cosa non dice)”

  1. Quando intervenire e soccorrere un uomo in mare? Quando un uomo è in pericolo di vita? Quando sta affogando in acqua o quando si può trovare in un’altra imbarcazione pur solida ed efficiente come una ONG? Altrimenti chiunque può dichiararsi in pericolo di affogare, e perciò naufrago, senza essere pescato in acqua. Gli italiani, da quello che sento, considerano la vicenda e i giudizi su di essa come frutto del politicamente corretto da cui non si uscirà fin quando l’interpretazione delle regole del mare si presterà alla sola sensibilità umane e non alla lettura fredda della scrittura.

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