Fascismo e compiti della scuola

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di Giacomo Menegus

Qualcuno ricorderà come lo scorso mese una classe del liceo Socrate di Roma (Garbatella) sia finita sui principali quotidiani nazionali perché, nel mettersi in posa per la foto di classe, aveva alzato il braccio destro a rievocare il saluto romano.

Al di là del gesto, quello che aveva colpito l’opinione pubblica – e sollevato le proteste non solo di altri studenti e professori, ma pure di esponenti politici e della comunità ebraica – era il fatto che la Dirigente scolastica dell’istituto, consultato l’Ufficio ispettivo, aveva escluso provvedimenti disciplinari nei confronti dei ragazzi: «il saluto fascista non è reato se commemorativo e non violento» e pertanto il gesto dei ragazzi «va inquadrato tra le libertà di espressione e di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantite».

Ora che il clamore generato dalla vicenda si è acquietato, è possibile tornare a mente fredda sull’accaduto per svolgere qualche considerazione sul rapporto tra fascismo, compiti della scuola e diritto penale.

Conviene partire dalla lettura della singolare circolare con la quale la Dirigente scolastica esclude la necessità di convocare un Consiglio straordinario per (eventualmente) decidere delle sanzioni disciplinari a carico degli studenti coinvolti: la Dirigente comunica di aver preso visione della foto che ritrae la classe mentre fa il saluto romano e – nel dubbio se convocare o meno il Consiglio di cui si diceva – di aver frattanto incontrato i ragazzi e di averli fatti riflettere sul loro gesto.

La parte interessante della circolare è tuttavia la seconda. Qui la Preside dice di aver contattato per chiarimenti l’Ufficio ispettivo (si può supporre che sia quello provinciale), il quale le risponde che i ragazzi non vanno puniti: una sentenza della Cassazione penale, la n. 8108 del 2018, ha infatti assolto in via definitiva «due manifestanti, che durante una commemorazione nel 2014 a Milano organizzata da appartenenti al partito “Fratelli d’Italia”, avevano alzato il braccio destro rispondendo alla “chiamata del presente” ed effettuando il “saluto romano”». Se commemorativo e non violento, il saluto romano non integra alcuna fattispecie di reato e quindi – secondo il ragionamento dell’Ufficio ispettivo – non è vietato.

La circolare si conclude con l’applicazione della regola ricavata dalla sentenza citata al caso concreto; e qui la questione assume toni farseschi: «visto che i ragazzi (…) erano sorridenti e in posa (non avevano dunque volontà di violenza) né hanno testimoniato “la volontà di ricostituzione di organizzazioni fasciste” in relazione al momento e all’ambiente, lascio alle SS. LL. ogni riflessione del caso».

Va messo in chiaro sin da subito che tutto il ragionamento svolto dalla Dirigente scolastica è compromesso da un grave malinteso di fondo – probabilmente suggerito e incoraggiato dall’improvvido “parere” dell’Ufficio ispettivo – secondo il quale la scuola potrebbe e dovrebbe sanzionare solo comportamenti penalmente rilevanti. Che tale assunto sia gravemente erroneo (qui ci vorrebbe la proverbiale penna blu), lo si ricava da diversi argomenti, alcuni giuridici, altri di semplice esperienza.

Partiamo dalla sentenza citata (Cassazione Penale, Sez. I, 20 febbraio 2018, n. 8108), per comprenderne il senso (depurato dai frequenti fraintendimenti che accompagnano pronunce di questo tipo) e spiegare perché tale pronuncia della Cassazione non c’entra nulla con il caso del liceo romano.

I due imputati erano intervenuti ad una manifestazione (con tanto di croci celtiche, tamburi e tutto quello che accompagna questo genere di “ritrovi”) organizzata per commemorare “tre camerati” uccisi in quanto fascisti e, in questa circostanza, avevano fatto il saluto romano. Il reato per il quale erano stati inizialmente incriminati è quello di “Manifestazioni fasciste” previsto all’art. 5 della legge n. 645 del 1952 (c.d. legge Scelba), che contempla sanzioni detentive e pecuniarie per «chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste».

La Cassazione assolve i due imputati (confermando la sentenza della Corte d’Appello di Milano) perché offre una lettura costituzionalmente orientata del reato in esame, interpretazione che trova un’autorevole conferma in due notissime sentenze della Corte costituzionale (n. 74 del 1958 e n. 15 del 1973).

Il ragionamento per chi non si occupa di diritto costituzionale può apparire complesso e perciò vale la pena ricostruirne i passaggi.

  1. Condotte come quella considerata nella sentenza – “saluto romano” – rientrano di per sé nell’ambito delle molteplici forme di manifestazione del pensiero tutelate dall’art. 21 della Costituzione: una disposizione di legge che intendesse punire tali manifestazioni del pensiero per la pura e semplice ragione che si richiamano all’ideologia fascista potrebbe (in ipotesi) andare incontro ad una declaratoria di incostituzionalità.
  2. Ma bisogna a questo punto richiamare la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che al primo comma recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». È tale disposizione a rappresentare il fondamento di legittimità del reato in questione, che punisce condotte che rientrerebbero altrimenti nella tutela dell’art. 21 Cost.: il “saluto romano”, come altre espressioni simili, possono essere punite qualora siano idonee a ingenerare il pericolo della ricostituzione del disciolto partito fascista. La Corte costituzionale ha chiarito che possono essere perseguiti penalmente non soltanto «gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione, del tutto avulsi da ogni loro antecedente causale», ma pure «ogni comportamento che, pur non rivestendo i caratteri di un vero e proprio atto di riorganizzazione, fosse tuttavia tale da contenere in sé sufficiente idoneità a produrre gli atti stessi» (Corte cost. n. 74 del 1958).
  3. Si parla in proposito di reati di pericolo concreto, in rapporto ai quali il giudice è chiamato a verificare in concreto l’esistenza effettiva del pericolo contemplato dalla norma.
  4. Tornando alla sentenza citata dalla Dirigente, è presto spiegata l’assoluzione dei due manifestanti: trattandosi di una semplice commemorazione, i giudici hanno ritenuto – a torto o a ragione – che il saluto romano non fosse, in tale contesto, idoneo a generare il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista, interpretando in conformità alla Costituzione l’art. 5 della legge Scelba. I giudici escludono insomma che ai due manifestanti possano essere applicate delle sanzioni penali.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, cosa c’entri tutto questo con la Scuola. Per assurdo, se la Dirigente avesse davvero ritenuto di trovarsi di fronte ad un potenziale reato, avrebbe dovuto logicamente rivolgersi ai Carabinieri, piuttosto che all’Ufficio ispettivo. Perché limitarsi allora a svolgere valutazioni su (assenti) profili penali della vicenda, valutazioni che certo non competono alla Dirigente? La Scuola non aveva nulla di più e di diverso da dire in merito, come istituzione educativa di una Repubblica democratica che nasce dalle macerie e dagli orrori del Fascismo?

Il punto centrale della vicenda è che alla Scuola non compete né l’accertamento di eventuali fatti criminosi né l’irrogazione delle relative sanzioni, ma piuttosto – e con evidenza – l’educazione e la formazione dei ragazzi. Educazione che non può certo limitarsi al penalmente rilevante, altrimenti potrebbe essere tranquillamente appaltata alle autorità di pubblica sicurezza. Che una classe di quinta superiore venga ritratta mentre fa il “saluto romano” mi sembra un tema sul quale la Scuola – ripeto, di una Repubblica democratica – debba avere qualcosa da dire proprio sotto il profilo educativo.

Il problema che sta sullo sfondo in realtà è più vasto ed ha a che fare con una sorta di giurisdizionalizzazione dell’educazione. A fronte di un (vero o percepito che sia) attivismo dei giudici, il cui intervento sulle attività della scuola si farebbe sempre più incisivo e frequente (si pensi, solo per fare un esempio, alle decisioni giurisprudenziali che ribaltano le bocciature), la scuola è venuta assumendo un atteggiamento difensivo, appiattendosi sempre più nello svolgimento delle sue funzioni sulla giurisprudenza (in modo non sempre coerente rispetto alla singola pronuncia). Un caso eclatante in questo senso mi pare possa essere quello dell’uscita autonoma degli alunni under 14 (con tutto lo strascico surreale di commenti della politica e interventi legislativi; per qualche indicazione sulla vicenda, v. qui).

Non è difficile immaginare che il caso di cui ci siamo occupati si inserisca a pieno titolo in questa tendenza, alla quale va aggiunta la crescente aggressività dei genitori nei confronti dell’istituzione scolastica: la Dirigente – verosimilmente temendo di fare qualche errore e magari di andare incontro alle ire delle famiglie – si è limitata ad attraccare nel “porto sicuro” indicato dall’Ufficio ispettivo. Ma se da una parte si è protetta da eventuali ricorsi, dall’altra non ha certo reso il servizio educativo che dalla Scuola ci si attende. Se compito della Scuola rimane anche quello di formare dei cittadini democratici, tale formazione passa anche per la trasmissione dei valori dell’anti-fascismo su cui la Repubblica è fondata; un’educazione civica che non può certo fermarsi sul confine del penalmente rilevante.

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