Domeniche senza shopping: è legittimo? Gli antecedenti e le proposte

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di Nicola Pignatelli *

La problematica degli orari di apertura delle attività commerciali e, più specificatamente, quella della apertura nel giorno della domenica, si pone al crocevia del rapporto tra libertà di impresa e utilità sociale (art. 41 Cost.), nonché, sotto il profilo ordinamentale, tra competenza legislativa statale, in materia di tutela della concorrenza (art. 117, 2° comma, lett. e), Cost.), e competenza legislativa regionale, in materia di commercio (art. 117, 4° comma, Cost.), da esercitarsi nel rispetto dei vincoli comunitari (art. 117, 1° comma, Cost.).

Il tema, mai storicamente sopito, anche per le forti implicazioni culturali legate alla fruizione del tempo della domenica, oltre alle più concrete tensioni tra esigenze regolatorie e spinte liberalizzatrici del mercato, è tornato alla ribalta a seguito della presentazione alla Camera dei Deputati di 5 di proposte di legge, di cui si dirà più avanti, aventi ad oggetto, in sintesi, la previsione del divieto di apertura domenicale dei negozi.

Tali disegni di legge rappresentano, in sostanza, un ritorno ad un modello antico, come emerge da una breve ricostruzione delle tappe fondamentali dell’evoluzione di questo ambito normativo (cfr. più diffusamente A. Ragazzini, La disciplina dell’attività commerciale dal dopoguerra alla legge Bersani, in Foro amm. – CdS., 2003, 1747 ss.; E. Nesi, La disciplina degli orari degli esercizi commerciali a quasi un anno dalla liberalizzazione, in Rivista nelDiritto n. 9/2012).

2. La disciplina normativa fascista in materia di commercio (r.d.l. n. 2174/1926, convertito con l. n. 2501/1927) si informava ad uno spirito protezionistico, teso a limitare la libertà di impresa in modo strumentale alle esigenze di regolazione del mercato e di controllo dei prezzi; in coerenza con essa la l. n. 973/1932, recante la prima disciplina degli orari degli esercizi commerciali, attribuiva al Prefetto, previo parere delle organizzazioni di categoria, il potere di determinare con decreto l’orario di apertura e chiusura nei giorni feriali, i giorni di chiusura totale o parziale, fermo il divieto di apertura domenicale e festiva.

La suddetta normativa generale (r.d.l. n. 2174/1926, convertito con l. n. 2501/1927) resistette alla stessa entrata in vigore della Costituzione repubblicana, superando il sindacato di legittimità della Corte costituzionale (sent. n. 32/1959), sul presupposto che essa appariva in armonia con i limiti previsti dall’art. 41, 2° e 3° comma, Cost.

Successivamente la più specifica disciplina degli orari è stata sostituita dalla l. n. 558/1971, che, pur delegando alle Regioni la determinazione dell’orario e dei giorni di apertura e di chiusura, nel rispetto delle esigenze di riposo dei lavoratori e delle esigenze dei consumatori, ribadiva il principio (in realtà regola, vista la sua diretta precettività) di chiusura totale nei giorni domenicali e festivi.

Verso la fine degli anni ’70, in questo scenario, subentrarono anche i Comuni, visto che ad essi vennero attribuite funzioni amministrative relative alla fissazione degli orari di apertura delle attività commerciali, pur nel rispetto dei criteri stabiliti dalla Regione (art. 54, 1° comma, lett. d) D.P.R. n. 616/1977) e comunque del generale divieto di apertura domenicale previsto a livello statale. Successivamente venne riconosciuto (con il d.l. 697/1982, convertito in l. n. 887/1982) ai Sindaci il potere di fissare limiti giornalieri degli orari di vendita al dettaglio, anche differenziati per settori merceologici e più in generale (con l’art. 36 l. n. 142/1990) ai Comuni, nell’ambito della disciplina regionale, la funzione di coordinare gli orari degli esercizi commerciali (come sarebbe stato ribadito dall’art. 50, 7° comma, Dlgs. n. 267/2000).

Un forte primo cambio di rotta, verso una maggiore liberalizzazione, si è concretizzato con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 114/1998, che perseguiva espressamente, tra le proprie finalità, quelle della concorrenza, della tutela della libertà di impresa e della libera circolazione delle merci (art. 1, 3° comma). In esso, pur essendo affermata come “regola” quella del divieto dell’apertura domenicale e festiva, si prevedevano delle rilevanti “eccezioni”, attribuendo in senso innovativo proprio ai Comuni, sentite le organizzazioni locali dei consumatori, sindacali e delle imprese del commercio, l’individuazione dei giorni e delle zone del territorio comunale nei quali gli esercenti avrebbero potuto derogare a quell’obbligo, precisando che “detti giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre nonché ulteriori otto domeniche o festività nel corso degli altri mesi dell’anno” (art. 11). Peraltro tale disciplina liberalizzava in senso assoluto orari e giorni di apertura per i Comuni a economia prevalentemente turistica nonché per le c.d. città d’arte.

Tale modello normativo venne confermato dal c.d. “Decreto Bersani” (d.l. n. 223/2006, convertito in l. n. 248/2006).

3. Una vera rivoluzione, nella vicenda degli orari e dell’apertura degli esercizi commerciali, si è materializzata con gli interventi di liberalizzazione del 2011 (Governo Monti) – nell’ambito di un sistema di misure emergenziali anticrisi – che hanno inciso proprio sul contenuto del c.d. Decreto Bersani (d.l. n. 223/2006).

L’art. 35, 6° comma, d.l. n. 98/2011, convertito in l. 111/2011, ha introdotto la lettera d-bis) all’art. 3, 1° comma, d.l. n. 223/2006, e l’art. 31, 1° comma, d.l. n. 201/2011, convertito in l. 214/2011, ha inciso su di esso, prescrivendo, in sintesi, per quello che interessa ai nostri fini, che:

a) gli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali non possono essere sottoposti a limiti e prescrizioni;

b) le attività commerciali sono svolte senza il limite del rispetto dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva.

La stessa Corte costituzionale ha rilevato come “la modifica normativa statale prevede che tali attività commerciali non possano più incontrare limiti o prescrizioni relativi agli orari di apertura e chiusura e alle giornate di chiusura obbligatoria” (Corte cost. ord. n. 59/2012).

4. In realtà deve ricordarsi come uno spirito antagonista avverso l’apertura domenicale (e più in generale verso lo spirito di liberalizzazione normativa) sia stato più volte manifestato dalle Regioni, che hanno, in primo luogo, impugnato in via principale innanzi alla Corte costituzionale la suddetta normativa per violazione, principalmente, della propria competenza legislativa in materia di commercio (art. 117, 4° comma, Cost.), e successivamente, visto il rigetto dei propri ricorsi, tentato, attraverso l’esercizio della propria competenza legislativa di porre delle limitazioni e degli argini alla normativa statale.

Tuttavia tale antagonismo ne è uscito sconfitto. La Corte costituzionale (sent. n. 299/2012), rigettando i ricorsi regionali, ha ritenuto non illegittimo l’art. 31, 1° comma, d.l. n. 201/2011, riconducendolo nell’alveo della competenza legislativa esclusiva statale relativa alla “tutela della concorrenza” (art. 117, 2° comma, let. e) Cost.). Più specificatamente la Corte, pur affermando che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientri staticamente nella materia “commercio”, attribuita ai legislatori regionali, ha ricondotto la suddetta disposizione alla nozione dinamica di “concorrenza”, di competenza statale, in cui si inseriscono tutte quelle misure legislative che mirano ad aprire il mercato, eliminando barriere all’entrata e rimuovendo, più in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche.

Il seguito giurisprudenziale di tale pronuncia (per quanto autorevolmente criticata da V. Onida, Quando la Corte smentisce se stessa, in Rivista AIC, 1/2013) ha legittimato il Governo, come anticipato, ad impugnare in via principale molteplici leggi regionali recanti delle limitazioni o delle elusioni del contenuto dell’art. 31, 1° comma, d..l. n. 201/2011. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato illegittime le normative regionali, che recavano la regolazione dell’apertura degli esercizi commerciali, per violazione dell’art. 117, 2° comma, let. e, Cost. (cfr., ad esempio, 27/2013, 65/2013, 104/2014, 239/2016, 98/2017), specificando peraltro che devono ritenersi illegittime anche forme di relazione indiretta, quale quella rimessa agli accordi tra operatori economici (Corte cost. n. 239/2016).

L’apertura domenicale degli esercizi commerciali, rectius la carenza di un obbligo di chiusura domenicale (e la più generale liberalizzazione introdotta), ha quindi resistito a circa 7 anni di contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni.

5. Oggi si vuole tornare all’antico. Mi soffermerò soltanto su 2 proposte di legge(quelle presentate dai parlamentari della maggioranza e quindi con più probabilità di essere approvate, tralasciando la variante “soft”, ossia quella presentata dai parlamentari del PD, quella di iniziativa popolare e quella di iniziativa del Consiglio regionale della Marche).

Lega. La proposta di legge di alcuni parlamentari della Lega (A.C. n. 457 – XVIII legislatura) prevede l’abrogazione della let. d-bis dell’art. 3, 1° comma, d.l. n. 223/2006, e quindi l’abrogazione a) della liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura nonché b) della facoltizzazione di apertura domenicale. In questa logica la proposta di legge attribuisce alle Regioni, d’intesa con enti locali e sentito il parere delle organizzazioni di carattere maggiormente rappresentativo a livello regionale, il potere di adottare un atto regolatorio degli orari di apertura e chiusura, fermo l’obbligo di chiusura domenicale e festiva.

L’unica eccezione ammessa è quella delle domeniche di dicembre e di altre 4 domeniche o festività nel corso degli altri mesi, che dovranno essere individuate nello stesso piano regionale.

Le ragioni di tale intenzione legislativa, come emerge dalla relazione, sono così sintetizzabili: i) crisi del commercio al dettaglio, causato dalle stesse liberalizzazioni, che favoriscono esclusivamente i grandi operatori economici; ii) svuotamento quindi dei centri storici d’Italia, vista la fuga dei commercianti al dettaglio; iii) tutela di valori sociali, come quello, di trascorrere le festività in famiglia o di impegnare il proprio tempo libero passeggiando all’aria aperta o nei piccoli centri.

M5S. La proposta di legge di alcuni parlamentari del M5S (A.C.  n. 526 – XVIII legislatura) prevede  anch’essa, pur con una tecnica legislativa diversa, una abrogazione analoga a quella della proposta della Lega, ed ammette una diversa deroga, ossia l’apertura, disciplinata da un piano regionale, del 25% degli esercizi commerciali per ciascun settore merceologico in ciascuna domenica o giorno festivo, comunque non oltre il massimo annuo di dodici giorni di apertura festiva per ciascun esercizio commerciale.

In sintesi la proposta del M5S prevede un massimo di 12 aperture festive annue contro il massimo di 8 della Lega. Le ragioni di tale intenzione legislativa, come emerge dalla relazione, sono così sintetizzabili: i) fallimento delle liberalizzazioni; ii) tutela dei lavoratori dipendenti, sottoposti a turni massacranti; iii) tutela dei piccoli operatori economici.

Le proposte sottraggono alla suddetta disciplina gli operatori commerciali dei comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte (proposta M5S); i piccoli esercizi commerciali ubicati nelle località turistiche, nei comuni montani nonché le attività commerciali balneari (Lega).

6. È  possibile (rectius, legittimo) tornare indietro? In altre parole oggi il legislatore statale può tornare ad una soluzione non molto lontana da quella contenuta nel d.lgs. n. 114/1998?

Non vi è dubbio che si potrebbe sostenere, utilizzando una argomentazione storica, che proprio la analogia contenutistica con la disciplina del d.lgs. n. 114/1998, su cui non furono formulati dubbi di legittimità, dovrebbe far presumere che la scelta attuale sia conforme al quadro costituzionale e specificatamente all’art. 41 Cost., che, pur affermando che l’iniziativa economica privata è libera (1° comma) (sia nella sua fase di avvio che in quello di svolgimento, come affermato già da Corte cost. n. 35/1960), fissa dei limiti negativi (2° comma) e dei limiti positivi (3° comma).

Proprio alla luce dei limiti negativi (di cui al 2° comma) la Corte costituzionale ha rilevato un fondamento costituzionale di “utilità sociale” di quelle scelte legislative limitative dell’attività di impresa in nome, ad esempio, della tutela del diritto dei lavoratori al riposo settimanale (Corte cost. n. 111/1974) – che rievoca in parte il dibattito attuale e le intenzioni dei proponenti- affermando come “non contrastino con il concetto costituzionale di libera iniziativa privata le misure restrittive che leggi varie impongono in tema di obbligo di licenza, di limitazione d’orari, di disciplina dei prezzi, di conferimenti obbligatori, di concorrenza nella vendita di medicinali, di tutela della salute ecc. Trattasi di limitazioni tutte dettate al fine di indirizzare e coordinare l’attività economica ad esigenze di ordine sociale generale, di salvaguardare la sicurezza, la libertà e la dignità umana”.

A questo si aggiunga che, più di recente, proprio nell’ambito del frizzante contenzioso tra Stato e Regioni sulla scelta liberalizzatrice del Governo Monti, la stessa Corte costituzionale, pur dichiarando incostituzionale la legge regionale impugnata, ha lasciato una porta aperta per un ritorno al passato, affermando che “la totale liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali non costituisce una soluzione imposta dalla Costituzione, sicché lo Stato potrà rivederla in tutto o in parte, temperarla o mitigarla” (sent. 239/2016).

In sostanza l’apertura dei negozi domenicale e festiva non è una soluzione a rime obbligate, essendo quindi rimessa all’apprezzamento del legislatore. Peraltro la stessa Corte di giustizia ha valorizzato il ruolo del legislatore statale, affermando che la regolamentazione degli orari degli esercizi commerciali è espressione di scelte politiche ed economiche rispondenti alle peculiarità socio-culturali nazionali e regionali. Cfr. Corte gius., 3.11.1989, B & Q (prc. C-45/88); 28.2.1991, Conforama (proc. C-312/89), 26.2.1991, Merchandise (C-332/89); 2.6.1994, Boermans (proc. C-401/92).

Pertanto si entra nella sfera delle scelte politiche e di quelle valoriali. A tal fine deve rilevarsi come in gran parte degli Stati europei sia prevista (per normativa statale o territoriale) la chiusura domenicale o festiva.

Tuttavia oggi il legislatore statale italiano non dovrebbe ignorare il processo di implementazione e trasformazione a cui la dimensione europea ha sottoposto l’art. 41, 1° comma, Cost. e soprattutto quanto la stessa Corte ha detto in questi anni (vd. la giurisprudenza citata sub 4) sulla natura dell’art. 31 d.l. n. 201/2011, qualificata come norma (di concorrenza dinamica) in attuazione di un principio di liberalizzazione di matrice comunitaria, alla luce del quale “una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva (…) genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale” (sent. 299/2012); riemerge quindi, in modo speculare e contrario, anche la categoria della “utilità sociale” nella valorizzazione della matrice concorrenziale della scelta normativa.

Tutto questo scarica, sul legislatore, e in futuro eventualmente sul sindacato di costituzionalità, una pretesa forte di ragionevolezza e proporzionalità nella limitazione della libertà di impresa.

Le scelte contenute nei disegni di legge, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, pongono dei dubbi:

a) il divieto riguarderebbe non tutti gli operatori economici, essendo sottratti a tale divieto alcune categorie di operatori, quelli delle località turistiche, delle attività commerciali balneari, dei piccoli comuni montani. Tale distinzione, vista la natura “assoluta” delle finalità illustrate dai proponenti, rischierebbe di non reggere e di risolversi in una discriminazione degli operatori non più facoltizzati (qualora vi fosse un interesse a rimanere aperti) oppure in una discriminazione al contrario dei dipendenti operanti in esercizi commerciali siti in località turistiche (aventi anch’essi interesse a non lavorare di domenica e nelle giornate festive). A questo si aggiunga come la definizione di “località turistica”, rimessa alla determinazione regionale, potrebbe svuotare completamente la disposizione, rendendo la eccezione una regola, posto che ogni località, se si vuole, a seconda dei gusti, è potenzialmente turistica;

b) può dirsi davvero un motivo legittimante il divieto (quasi assoluto) di apertura domenicale o festiva, quello della necessità di garantire del tempo libero in famiglia (come se, peraltro, l’apertura dei negozi la domenica fosse il motivo della fuga dalla famiglia) o nei centri storici (come se, peraltro, l’apertura dei negozi la domenica non impedisca di andare allo stadio anziché nei centri storici)? Il fine non sembra giustificare la misura, a tratti irragionevole. La stessa giurisprudenza costituzionale ha affermato che la individuazione della “utilità sociale”, clausola aperta rispetto agli altri beni tutelati espressamente (sicurezza, dignità umana, libertà) dall’art. 41, 1° comma, Cost., non deve essere arbitraria e perseguita mediante misure incongrue (sent. n. 16/2017). Probabilmente il sistema delle deroghe dovrebbe essere rafforzato, così da colmare il forte divario regola-eccezione;

c) analogamente non può essere ritenuto motivo legittimante quello della tutela dei piccoli operatori economici, posto che essa non soltanto non è una ragione di “utilità sociale” (art. 41, 2° comma, Cost.) ma è anche in espressa antinomia con il diritto europeo (cfr. ex plurimis Corte gius., 24.3.2011 C-400/08). La stessa giurisprudenza amministrativa, quanto a quest’ultimo profilo, pur in sede di sindacato di provvedimenti amministrativi ma ben ricostruendo la normativa comunitaria, ha affermato più volte come sia illegittimo l’intento “calmieratore” (Tar Liguria, 8.11.2016 n. 1089), l’intento di “conformare il mercato” (Tar Veneto, n. 1423/2016) e di “dirigismo economico” (Tar Lomabrdia, Brescia, n. 606/2015) a tutela dei “commercianti al minuto” (Tar Liguria, n. 950/2015). Probabilmente sono altre le misure funzionali al sostegno dei piccoli operatori economici

d) l’unica ragione seria, da scrutinare attentamente, tra quelle evocate dai proponenti (in realtà soltanto nella proposta del M5S), rimane l’esigenza di tutelare i lavoratori (peraltro non soltanto dipendenti ma anche autonomi, posto che l’art. 35 Cost. tutela il lavoro in tutte le sue forme), vista la esigenza reale che la concorrenza si risolva in turni massacranti (anche domenicali) o in una attività sfiancante. Tuttavia tale esigenza sociale potrebbe essere soddisfatta e garantita con un mezzo diverso, meno invasivo, ossia attraverso altre norme statali in materia lavoristica; per tale ragione la chiusura degli esercizi commerciali la domenica sembra violare il principio di proporzionalità. Peraltro tale misura, al fine di tutelare il lavoro subordinato, andrebbe ad investire in modo indiscriminato anche la libertà dell’imprenditore individuale. A questo si aggiunga che in assoluto il numero di deroghe ammesse (8 nella proposta della Lega e 12 in quella del M5S), tra domeniche e festività, appare un numero esiguo;

e) infine, siamo certi, alla luce di una seria istruttoria, che la misura non possa produrre a cascata una quantità di licenziamenti?

Non è un caso che la stessa Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, proprio in merito ad alcuni analoghi progetti di legge (2014), inviò in data 11.9.2014 una segnalazione alla Commissione attività produttive della Camera, affermando che “la reintroduzione di vincoli in materia di orari di apertura e di chiusura rappresenta infatti un ostacolo al libero dispiegarsi delle dinamiche concorrenziali” ed evidenziando come la stessa Corte costituzionale (sent. nn. 38/2013, 299/2012) avesse già affermato come la rimozione dei limiti normativi concernenti il rispetto degli orari e l’obbligo della chiusura domenicale e festiva rispondesse alla esigenza di ottemperare alle disposizioni comunitarie in materia di tutela della concorrenza.

7. È assai probabile che la reintroduzione del divieto di apertura domenicale e festiva sarebbe aggredito in sede processuale (forse non soltanto dai grandi operatori economici) attraverso la impugnazione delle conseguenti sanzioni amministrative e il contestuale sollevamento di una questione di costituzionalità innanzi alla Corte o di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, qualora si riuscisse ad argomentare anche una restrizione della libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) o della libertà di prestazione di servizi (art. 56 TFUE).

Peraltro non può fattualmente ignorarsi, come i grandi operatori economici potrebbero nel frattempo, alla luce di una valutazione economica su larga scala, ritenere conveniente pagare la sanzione pecuniaria e lasciare aperti di domenica i propri esercizi commerciali.

Forse questa potrebbe essere soltanto una occasione per studiare al meglio la problematica generale del commercio in Italia, posto che su questo tema servirebbe comunque una seria istruttoria legislativa. Probabilmente il recupero dei centri storici, del valore del tempo domenicale e della qualità del commercio, e più in generale, della vita quotidiana, non passa attraverso la chiusura domenicale dei negozi.

E in ogni caso “chi glielo dice a Amazon di darsi un orario?” (M. Serra, L’Amaca, la Repubblica, 11.9.2018).

* Professore Associato di Istituzioni di Diritto Pubblico nell’Università degli Studi di Bari.

 

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1 commento su “Domeniche senza shopping: è legittimo? Gli antecedenti e le proposte”

  1. Ottimo chiarimento su un tema importante, spesso trattato dagli economisti in modo troppo unilaterale. Semplificando si può dire che ci sono buone ragioni di diritto costituzionale e di utilità economica per non porre vincoli (eccessivi) all’apertura domenicale. Il tallone d’Achille di questo teorema è il diritto dei lavoratori che possono tuttavia essere tutelati sufficientemente -come afferma giustamente l’autore – con strumenti meno invasivi. Il rischio – anzi la triste realtà – è che i grandi gruppi della distribuzione (non solo alimentare, ma anche per esempio farmaceutica) sfruttano i lavoratori (più deboli) costringendoli al lavoro domenicale senza congrua -extra-remunerazione o altra compensazione. Se la legge non riesce a garantire a tutti equa protezione è come se non esistesse, diviene privilegio. Fra i paesi dell’Europa centro-occidentale l’Italia è fra quei più liberali per le aperture e meno protettivi per le garanzie effettive dei lavoratori. L’argomento ha un’interesse teorico notevole: senza sufficienti garanzie sociali, in questo caso dei lavoratori, il (valido) teorema liberal-utilitarista diviene insostenibile, potenzialmente oppressivo.

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