Il dilemma del referendum nel Regno Unito: uno strumento adeguato per uscire dall’impasse della Brexit?

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di Sara Parolari

Il Regno Unito sta vivendo un momento storico senza precedenti, una situazione di caos totale dagli sviluppi imprevedibili, che trova il suo fondamento in una crisi politica difficilmente risolvibile e che ha preso le mosse da un referendum – quello sulla Brexit del 23 giugno 2016 – dall’esito totalmente dirompente, al di là di ogni previsione. 

Nonostante il rischio sempre più concreto di un no deal (un’uscita senza accordo) il Primo Ministro Theresa May continua imperterrita a sostenere che occorre “consegnare al paese quello che ci ha chiesto”, in qualche misura ribadendo l’effetto vincolante – sebbene non lo sia dal punto di vista strettamente giuridico – dello strumento di democrazia diretta utilizzato. D’altra parte, periodicamente riaffiora nell’agone politico l’idea di un nuovo referendum quale possibile panacea di tutti i mali.

Ma è davvero così? La democrazia diretta – così com’è disciplinata nel sistema costituzionale britannico – è davvero il rimedio utile a superare quelle situazioni di impasse che gli strumenti tradizionali della democrazia rappresentativa non sembrano più in grado di gestire?

Il referendum, per come è stato concepito e utilizzato nella storia costituzionale britannica, pone molti dubbi sulla sua effettiva democraticità.

Introdotto in un ordinamento dominato dal principio della sovranità parlamentare con l’obiettivo di migliorare la partecipazione democratica, con questo strumento si è di fatto cercato di conferire legittimità costituzionale ad interventi normativi che hanno inciso non poco sul riparto dei poteri interno al Regno Unito. Si pensi al referendum del 1975 per la conferma dell’adesione all’UE o ai primi referendum sulla devolution della fine degli anni ‘70 o, in seguito, a quelli della fine degli anni ‘90.

L’esperienza del passato dimostra tuttavia come vi sia un uso piuttosto incoerente degli strumenti di democrazia diretta nell’ordinamento britannico, che risultano così affetti da una serie di limiti congeniti da cui non sembra esente neppure il referendum del 2016 sulla Brexit.

La mancanza di una Costituzione scritta e di una disciplina costituzionale in materia che chiarisca quando un referendum consultivo va indetto, nonché di una normativa, anche di rango inferiore, di portata generale, la poca chiarezza sulle condizioni necessarie per l’indizione, unitamente al fatto che i cittadini non hanno il potere di farne richiesta, nonché l’assenza di previsioni relative a quorum e maggioranze qualificate, sono elementi che hanno contribuito a rendere il referendum britannico soggetto a manipolazioni da parte del Governo di turno, che vi ha fatto spesso ricorso a sua discrezione per risolvere situazioni di stallo politico piuttosto che per garantire un effettivo coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni pubbliche.

Anche l’indizione da parte di Cameron del referendum sulla Brexit puntava a risolvere i conflitti all’interno del partito conservatore tra favorevoli e contrari alla permanenza nell’UE ed a ricevere una conferma del mandato politico del Primo Ministro a fronte dell’ascesa dell’UKIP di Nigel Farage, piuttosto che fondarsi su un uso convinto della democrazia diretta. Allo stesso modo, un ipotetico secondo referendum sulla Brexit, ora evocato da più parti, rischierebbe di tradursi nell’ultima carta da giocare per uscire dal caos, senza tuttavia rimanere esente dalle stesse critiche.

È evidente allora che il referendum, così come concepito e strutturato in questo ordinamento, rischia di non essere sufficiente per legittimare democraticamente i più importanti interventi riformatori (soprattutto se aventi ad oggetto questioni molto complesse, come la Brexit, dalle conseguenze difficilmente prevedibili), essendo percepito come uno strumento calato dall’alto, negoziato e deciso dai rappresentanti governativi a porte chiuse, senza regole chiare ed un adeguato coinvolgimento dei cittadini.

Il futuro costituzionale del Regno Unito dipenderà anche dalla capacità di introdurre percorsi di riforma effettivamente democratici fondati su un uso più trasparente dello strumentario della democrazia diretta, facilitando l’informazione e la discussione dei cittadini sugli elementi costitutivi del referendum e garantendo, in definitiva, un’adeguata partecipazione popolare al processo decisionale pubblico.

Diversamente, parafrasando Norberto Bobbio, vi è il rischio concreto che la democrazia venga uccisa da un eccesso di democrazia, anche quando questa assume le sembianze della democrazia diretta (Il futuro della democrazia, Einaudi 1991).

 

 

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5 commenti su “Il dilemma del referendum nel Regno Unito: uno strumento adeguato per uscire dall’impasse della Brexit?”

  1. Ha ragione Norberto Bobbio… e aggiungo per l’Italia. Il recente disegno di legge di riforma della Costituzione per la riduzione del numero dei parlamentari… che segue un Referendum bocciato dal Popolo sulla soppressione del Senato… che significa che “in via incidentale” che il numero dei Parlamentari -al Popolo- gli andava bene. U.S.

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  2. Condivido l’analisi dell’autrice. Il referendum indetto su iniziativa del parlamento (“sovrano”), quindi della maggioranza e del governo, è sempre e soprattutto un’ammissione di incapacità. Questo vale per le tre ultime grandi consultazioni in UK: legge elettorale, indipendenza scozzese e Brexit. Il prima esprimeva la debolezza della coalizione whig-liberal di allora, l’ultima la debolezza di Cameron all’interno del suo partito, di fronte al così detto ERG (European Research Group), riflesso conservatore dell’opposizione UKIP. Bisogna ora decidere per una soluzione, hard exit, May-exit (senza unione doganale), Corbyn-exit (con unione doganale) e Remain. Chi decide? Esistono almeno sei partiti all’interno del parlamento, senza contare Irlandesi e Scozzesi. Nessuna proposta del governo è in grado di ottenere una maggioranza. Esiste ormai un sovrano duale, Parlamento e opinione, o popolo virtuale. Chi decide? Come scegliere? Quale procedura? Non basta Bobbio però. Servirebbe una lezione da Condorcet! Un imbroglio perfetto che non può portare a nulla di buono. E nonostante tutta la confusione e l’incapacità di decidere fra danni maggiori e danni minori, con un’evidente elemento di deviazione populista (“non sappiamo che cosa fare, allora chiediamo al popolo”) non esiste in UK l’idea di un diritto d’iniziativa popolare vincolante, unico strumento vero di controllo e di correzione del sovrano delegato (in atto) dal sovrano effettivo (solo virtuale). Povero paese!

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  3. Errata corrige: il governo di coalizione del conservatore liberale Cameron con i Liberal-democratici era ovviamente “Tory-Liberal”.

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  4. Ma, in definitiva, gli inglesi voteranno o no il 26 maggio per il Parlamento europeo? E comunque, a chi andranno i 73 seggi previsti a favore del Regno Unito? Saranno ridistribuiti tra gli altri paesi dell’UE? E con quale criterio?

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