La direttiva Salvini sulle ordinanze prefettizie antidegrado: nulla di nuovo sotto il sole (con un caveat)

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di Giuseppe Tropea

La stampa di questi ultimi giorni dà conto con insistenza di una rivolta dei sindaci contro la direttiva del ministro Salvini del 17 aprile u.s. che inviterebbe i prefetti a emanare ordinanze anti degrado per tenere lontani spacciatori, ladri, scippatori e abusivi dalle “zone rosse” quali centri storici, luoghi turistici, aree vicine alle scuole e piazze particolarmente frequentate.

Il sindaco di Milano parla di provvedimento tra l’inutile e l’autolesionista, in quanto oggi sindaci e prefetti collaborano già bene senza bisogno di indicazioni o input dall’alto. Quello di Palermo arriva a parlare di provvedimento eversivo, e prospetta ricorsi a varie autorità giurisdizionali, non solo italiane. Quello di Roma, infine, evoca la campagna elettorale incombente, richiedendo piuttosto un aumento di finanziamenti per la sicurezza nelle periferie e per il reclutamento di nuovi poliziotti. Si giustifica tanto allarmismo?

A leggere con attenzione il provvedimento no, ma con alcune avvertenze.

La direttiva può idealmente scindersi in due parti.

La prima è essenzialmente declamatoria/ricostruttiva. Si sottolineano i nuovi strumenti in mano ai sindaci in materia di sicurezza urbana, con riferimento soprattutto al discusso istituto del daspo urbano, dopo i d.l. n. 14/2017 (cd. decreto Minniti) e n. 113/2018 (cd. decreto Salvini). Non è questa la sede per evidenziare le ombre (tante) e le luci (poche) di questi provvedimenti, cosa che si è già fatta anche sulle pagine di questa Rivista, cui si rinvia.

A mò di semplice chiosa, restando ancora per un attimo sulla prima parte della direttiva, si potrebbe evidenziare la patente contraddizione di un provvedimento che si auto-qualifica espressione di politiche «di promozione del welfare della comunità», pur essendo incontrovertibile che le logiche securitarie di cui lo stesso è emanazione (logiche coltivate anche in nome di un malinteso principio di sussidiarietà orizzontale) finiscano a ben vedere proprio per sostituirsi all’implementazione di concreti strumenti di welfare (è emblematico il congelamento del fondo per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie di cui alla legge n. 232/2016, oppure si pensi alla recente ennesima riforma dell’art. 52 c.p.).

Altro ossimoro è dato dal richiamo a una pretesa “fruizione condivisa” della sicurezza da un lato e del concetto divisivo e opinabile di “buon vivere” dall’altro.

Ma veniamo all’oggetto principale della polemica politica.

Sgombro subito il campo da un equivoco: la direttiva non conferisce nuovi poteri al prefetto, né del resto avrebbe potuto farlo, in base ai principi di legalità sostanziale e di riserva di legge, ribaditi proprio in materia di ordine sindacali sulla sicurezza urbana di cui all’art. 54 t.u.e.l. da Corte cost. n. 115/2011.

Essa si limita a richiamare il potere prefettizio di cui all’art. 2 del t.u.l.p.s., peraltro con il necessario rispetto dei presupposti di legittimità previsti da tale disposizione: urgenza o grave necessità, e introdotti dalla giurisprudenza della Consulta: rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico (sent. n. 26/1961). Non a caso, si parla nel provvedimento di «ordinanze di durata temporalmente limitata». La richiesta di report a cadenza trimestrale in relazione alle ricadute delle ordinanze suddette pare poi scarsamente rilevante nell’economia del discorso svolto.

Dunque: nulla di nuovo sotto il sole. Le strumentalizzazioni, da una parte e dall’altra, qui ovviamente non interessano.

Veniamo al caveat.

La posta in gioco potrebbe, in effetti, essere un’altra, e potrebbe emergere nei primi mesi di applicazione pratica della misura. Mi riferisco al delicato tema della delimitazione dei luoghi di cui all’art. 9 della legge Minniti.

L’art. 9 individua, prima di tutto, le aree «interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano», nonché le relative

pertinenze, come luoghi rispetto ai quali occorre particolare attenzione per il loro decoro. I regolamenti di polizia urbana possono, ai sensi dell’art. 10, comma 3, «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi di cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico, alle quali si applicano le disposizioni» in tema di decoro e il conseguente ordine di allontanamento.

L’elencazione dei luoghi protetti di cui all’art. 9 non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, giuste le riserve di legge di cui agli artt. 13, 16 e 23 Cost. Non a caso quando si è trattato di estendere questi luoghi lo si è fatto con fonte primaria, ad es. il decreto sicurezza ha introdotto gli ospedali. Al limite potrà intervenire, nei casi dell’art. 10, il regolamento di polizia urbana.

Tuttavia già con le linee di indirizzo per l’attuazione dei nuovi strumenti di tutela della sicurezza urbana, adottate dal Ministero dell’Interno in data 8 luglio 2017, si conferiva alle «linee guida» ed alle «linee generali» adottate su proposta di quest’ultimo, e ai successivi patti per l’attuazione della sicurezza urbana, la generica possibilità di «perimetrazione di ulteriori aree ove estendere le previsioni contenute negli artt. 9 e 10 del decreto…».

Sul punto avevo già ritenuto che si imponesse una interpretazione restrittiva per tali linee di indirizzo, che non possono certo autorizzare atti di alta amministrazione, e ancor meno di programmazione negoziata, ad implementare le previsioni tassative di cui agli artt. 9 e 10 della legge.

D’altra parte la cronaca riferisce di recenti ordinanze prefettizie, ad esempio relative al comune di Firenze, istitutive di zone rosse in varie zone del territorio comunale, nelle quali si interdice la presenza per chi è stato denunciato per reati di spaccio, danneggiamento o contro la persona, ovvero è stato sanzionato per commercio abusivo su suolo pubblico.

A far credere che proprio a questo modello si sia pensato nella redazione della direttiva in analisi è un passaggio della direttiva medesima, là dove si dice: «è stato localmente sperimentato con successo il ricorso a provvedimenti prefettizi che vietano lo stazionamento a persone dedite ad attività illegali, disponendone l’allontanamento, nelle aree urbane caratterizzate da una elevata densità abitativa e sensibili flussi turistici, oppure che si caratterizzano per l’esistenza di una pluralità di istituti scolastici e universitari, complessi monumentali e culturali, aree verdi ed esercizi ricettivi e commerciali».

Ora, appare evidente che se i prefetti seguiranno tale modello di intervento praeter legem, di fatto commissariando sindaci (ritenuti) inerti nella loro opera di garanzia e tutela della sicurezza urbana (come vorrebbe una certa lettura della direttiva), rischieranno di violare, da un lato, la riserva di legge in tema di libertà di circolazione, dall’altro l’assetto dei poteri in materia di daspo urbano, che si dipana lungo la linea che va dal sindaco al questore, tenendo fuori il prefetto.

Viceversa, e paradossalmente, proprio dalla direttiva Salvini potrebbero venire delle indicazioni utili per ricondurre a legalità le trovate prefettizie degli ultimi tempi: l’unico potere prefettizio legittimo è quello esercitato ai sensi, e coi limiti, dell’art. 2 t.u.l.p.s.

Non è questa la sede per dietrologie sulle ragioni cambiamento del pensiero del ministro dell’Interno sull’attualità dei prefetti nel nostro assetto costituzionale, e sul loro rapporto coi sindaci.

È assolutamente lecito cambiare idea.

D’altra parte deve essere rimarcato che, proprio in materia di sicurezza urbana, i prefetti hanno negli scorsi anni spesso agito meritoriamente per contenere le bizzarrie, quando non le patenti illegalità e discriminazioni, di talune ordinanze adottate dai sindaci in qualità di ufficiali di governo.

È quello, mi pare, l’unico ambito consentito di intervento in materia, al di fuori di quelli di amministrazione attiva conferiti dalle fonti di rango primario, e non dall’ennesimo atto di soft law (potenzialmente) sovvertitore dei capisaldi dello Stato di diritto.

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