La proposta di riforma dell’articolo 71 della costituzione approvata dalla Camera dei deputati in prima lettura solleva numerose perplessità che sollecitano una riflessione di fondo sul tema del referendum popolare nel quadro dello Stato di diritto costituzionale.
Al di fuori del contesto di comunità relativamente piccole, come i cantoni svizzeri, il referendum, nella storia costituzionale degli ultimi due secoli, nasce, da un lato, con i plebisciti napoleonici, di cui si trova un eco nella costituzione francese della 5a Repubblica (i cosiddetti referendum top down), dall’altro, nelle fasi della storia dei moderni sistemi politici nei quali il parlamentarismo e il governo rappresentativo sono stati fatti oggetto di critica più o meno radicale.
I cosiddetti correttivi di democrazia diretta al governo rappresentativo sono nati e si sono sviluppati, infatti, alla fine del secolo 19° (nelle costituzioni degli Stati occidentali dell’Unione Americana) e all’inizio del secolo scorso (si pensi in particolare al gran numero di referendum presenti nella Costituzione di Weimar).
Costantino Mortati nel corso dei dibattiti della nostra Assemblea Costituente aveva proposto, sul modello di Weimar, un gran numero di tipi di referendum, referendum che i padri fondatori avevano respinto lasciando in vita solo quello abrogativo e quello – particolarmente mal formulato (in particolare per la mancanza di un quorum che fragilizza la rigidità costituzionale) – relativo alle riforme costituzionali (art. 138 della Costit.).
Una parte della dottrina così come anche l’ideologia dei proponenti della riforma dell’art. 71 parte dall’ipotesi che esista qualcosa come una volontà legislativa popolare, che verrebbe delegata ai rappresentanti eletti. Sul modello del potere giudiziario nella monarchia assoluta, il nuovo sovrano, il popolo, ne conserverebbe una parte, sicché si potrebbe parlare di pouvoir législatif retenu da parte del popolo – come si parlava nelle Francia dell’antico regime di justice retenue, da parte del re –, un potere che il popolo recupererebbe con l’esercizio del referendum.
Fuori dalla retorica democraticistica e ad una analisi un po’ disinteressata e attenta, ci si rende conto che si tratta di una finzione e di un inganno.
Il popolo (cioè l’insieme dei cittadini elettori – o come suggerisce in realtà la riforma: un quarto degli stessi) non può essere soggetto della legislazione, poiché esso non è in grado di formulare questioni né di discuterle suggerendo ad esempio modifiche o emendamenti. Esso può soltanto rispondere con sì o no a domande formulate da una élite (quando non lo sono da un individuo solo, come nel caso dell’art. 11 della costituzione francese in vigore), cioè, nel caso in esame, da un gruppo di cittadini che si auto-erige al ruolo di rappresentanti, alternativi al Parlamento. Un aspetto essenziale, questo, occultato dalla retorica che pretende di ricondurre l’esercizio del referendum propositivo ad una iniziativa popolare. In realtà si tratta di una iniziativa di soggetti che non sono il popolo e che pretendono di esprimerne le domande alle quali un quarto degli elettori dovranno dare una risposta; come un bimbo, con due sole sillabe (si/no), senza poter far valere alcuna altra osservazione – una critica argomentata con chiarezza da Erich Kaufmann, un grande giurista tedesco costretto dai nazisti a lasciare la Germania, in un testo fondamentale del 1931(per quanto ne so, mai tradotto in italiano): Zur Problematik des Volkswillens.
Nel caso del referendum detto propositivo, ciò che viene ad essere è la creazione di una élite extraparlamentare che si arroga (e alla quale la riforma proposta darebbe) il diritto di competere con i rappresentanti eletti dai cittadini e di interrogare gli elettori circa le proposte che originano da questa nuova élite. Nel testo della riforma in discussione si legge in particolare: “Se le Camere approvano la proposta in un testo diverso da quello presentato e i promotori non rinunziano (gli italici sono di chi scrive), il referendum è indetto su entrambi i testi.” [1] Si vede bene il ruolo fondamentale che viene assegnato in questo caso ai “contro-rappresentanti”.
Dal punto di vista della teoria della costituzione si tratta in sostanza di una moltiplicazione di soggetti che parlano per il “popolo”, moltiplicazione e contrapposizione fra eletti e non eletti – non pluralismo – la quale mina la validità dell’ordinamento rappresentativo. Su questo non può esservi dubbio. Nello strano linguaggio in voga, una tale riforma verrebbe qualificata di “populista”, ma si tratta in realtà di un puro e semplice incremento del ruolo delle élite, in realtà opposte e per una parte potenzialmente fuori dal Parlamento.
Se si guarda poi al resto del progetto di riforma è evidente che altre osservazioni andrebbero aggiunte.
Molti punti del testo presentato dalla Commissione e approvato dalla Camera sono poco chiari e rinviano pericolosamente ad una legge successiva, il cui contenuto è in sostanza imprevedibile.
Inoltre, accanto ai rappresentanti eletti, alla nuova élite dei “promotori” ed al quarto del corpo elettorale, che esprimerebbe, grazie ad una sineddoche, la pretesa volontà del “popolo”, appare nella proposta di riforma costituzionale un quarto soggetto, con poteri decisivi ed in un certo senso straordinari, data appunto l’opacità della proposta: la Corte Costituzionale. Questo organo dello Stato sarebbe chiamato a valutare, ex ante, ad un certo punto della raccolta delle firme (200 mila, un numero importante, il che implica una potente e ben organizzata élite extra-parlamentare di promotori), la costituzionalità della norma proposta alla eventuale decisione popolare. La Corte dovrebbe, dunque, assumere, accanto alle sue funzioni di guardiano dei diritti fondamentali dei cittadini e di difesa dell’assetto costituzionale del potere diviso, una funzione ulteriore. Questa sarebbe in realtà quella di controllore dell’élite extraparlamentare, la quale potrebbe contestare facilmente la decisione della Corte, accusata di impedire l’espressione della supposta volontà popolare.
Senza fermarmi qui su altri profili problematici, mi pare di poter affermare che con il pretesto di “integrare” la democrazia rappresentativa con strumenti della cosiddetta democrazia diretta (espressione di moda nel mondo del politically correct) si rischia di mettere in pericolo il delicato equilibrio fra gli organi eletti e gli organi di controllo dello Stato costituzionale di diritto. Vuoi per incompetenza e/o ingenuità, vuoi per malcelata ostilità nei confronti della democrazia rappresentativa e deliberante (non quella dei sì e no, ovvero dei like); ostilità per niente celata, al dire il vero, nelle dichiarazioni del padrone/gestore di Rousseau (non il pensatore ginevrino, ma la piattaforma informatica della Casaleggio e associati).
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A chi scrive non pare, peraltro, che la crisi della rappresentanza (ma bisognerebbe chiarire cosa intendiamo con questa espressione) sia dovuta ad una domanda di maggiore partecipazione da parte dei cittadini. Questa rivendicazione viene magari dai pochi che si sentono esclusi dalla funzione di rappresentanti.
Il disagio nelle nostre società viene in larga misura dal significativo declino della crescita economica, che minaccia in particolare il benessere raggiunto nelle nostre società a partire dalla fine della ultima guerra, in particolare dalle classi medie. Con i referendum popolari non si incrementa né la crescita economica e nemmeno la fiducia dei mercati finanziari. C’è anzi il rischio che senza misure impopolari la situazione economica e finanziaria del paese si avvicini al collasso.
Quanto al referendum propositivo, che meglio vale chiamare proposta di legge di iniziativa popolare (o meglio di opposizione al governo), si tratta di un meccanismo di legislazione inedito nelle democrazie occidentali a livello statuale; salvo per gli emendamenti costituzionali in Svizzera. Diverso lo strano caso previsto dal nostro 138 ultimo comma. La costituzione di Weimar all’art. 73 prevedeva un certo numero di referendum, incluso una sorta di referendum propositivo – contro l’ipotesi minimalista di Hugo Preuss – ma nessuno dei tre tentativi di fare ricorso a referendum ebbe esito positivo per la mancanza del quorum.
Indipendentemente dalla ipotesi avanzata che non è più partecipazione quello che i cittadini chiedono (chi scrive vede peraltro positivamente l’incremento di forme di partecipazione a livello locale), sembra abbastanza evidente che, nonostante i limiti apportati ed apportabili alla proposta di riforma del 71 ora dinanzi al Senato, questo strumento è in realtà un meccanismo di destabilizzazione della democrazia costituzionale.
Esso rappresenta in realtà uno strumento in mano all’opposizione – interna o esterna al Parlamento – che indebolisce la maggioranza di governo.
Che la maggioranza in una democrazia costituzionale debba essere controllata e non possa esercitare legalmente un potere senza limiti è uno dei pilastri di questa forma di governo. E infatti le Corti costituzionali hanno appunto questo compito.
La proposta di riforma del 71 non suggerisce un controllo sul Parlamento, ma fa nascere un legislatore alternativo che origina, per quanto riguarda l’iniziativa della legge, dal Comitato promotore e per quanto riguarda la decisione da un limitato numero di elettori, che possono mettere in scacco la maggioranza scelta dagli elettori ed il governo da questa espresso.
Questo sembra un punto dirimente. In linea di principio, il Comitato promotore non potrà essere formato che da esponenti di un partito della minoranza o da una lobby potente ed organizzata che sostiene l’incapacità della maggioranza parlamentare a legiferare.
Non solo. Se il Parlamento attraverso una deliberazione che ha luogo al suo interno dovesse modificare la proposta di legge, il Comitato promotore diventa automaticamente l’arbitro del possibile referendum. Esso sfida, dunque, la maggioranza parlamentare che deve piegarsi alla sua volontà e, se così vuole il Comitato, lasciare che gli elettori, senza deliberazione e possibilità di emendamenti, con un sì o con un no, si sostituiscano al Parlamento limitandosi ad una sorta di acclamazione o di bocciatura (senza argomenti) della proposta di legge di origine extra parlamentare.
Il parlamento e la maggioranza eletta potrebbero essere sconfitti. Ed i veri rappresentanti del popolo sarebbero i membri del comitato promotore che hanno condotto il “popolo” (come al solito, si fa per dire) a sconfiggere il Parlamento. O forse si dovrebbe specificare che i membri del Comitato promotore devono sedere in parlamento e negoziare il contenuto della legge con la maggioranza parlamentare. Sicché esisterebbero rappresentanti eletti e rappresentanti autonominati a furore di 500 mila firme. Si frantuma in tal modo la natura della rappresentanza.
Il legislatore esterno al Parlamento con il consenso di una minoranza dei cittadini si sostituirebbe al rappresentante parlamentare. È difficile in questo contesto parlare di integrazione fra democrazia rappresentativa e diretta; infatti, se vi è disaccordo fra i due “rappresentanti” e si dà origine al referendum sulla proposta modificata dal Parlamento e bocciata dai promotori, avrà luogo una campagna referendaria condotta dai due rappresentanti. La quale assumerà la forma di una competizione fra chi ha vinto le elezioni e chi le ha perse, o non ha corso il rischio di partecipare ad esse. Avvantaggiato, quest’ultimo (il Comitato), dalla consacrazione del voto popolare, anche se di minoranza.
A questo ragionamento si possono fare due obiezioni.
La prima rimanda al referendum abrogativo. Innanzitutto, la storia italiana di questo istituto mostra che nei due casi più noti esso ha semplicemente confermato la maggioranza parlamentare, in un altro ha aperto la saga senza fine della legge elettorale; in seguito, per lo più, non ha avuto effetti per la complessità delle misure sottoposte a referendum che non hanno stimolato la debole voglia di partecipazione degli elettori. Ora più si abbassa la soglia del quorum più si va verso una strana forma di governo che dovremmo chiamare la “democrazia minoritaria”, un vero inedito nella famiglia delle forme di governo.
Comunque, il referendum abrogativo disfa una legge che è stata oggetto di dibattito parlamentare; mentre è possibile sostenere che norme di legge prodotte senza deliberazione siano piuttosto diktat che norme obbliganti di una cultura giuridica liberal democratica. Certo i referendum abrogativi manipolativi fanno più che semplicemente abrogare una norma di legge, ma si tratta di un abuso contro il quale bisognerebbe lottare piuttosto che prenderlo come un buon esempio da seguire. La Costituzione non è come il Corano o il Vangelo per i credenti: non tutto quello che c’è dentro è oro. E in una fase di lex condenda bisognerebbe evitare di fare gli errori presenti nella lex condita!
La seconda obiezione riguarda la Corte costituzionale che è nei fatti un organo co-legislatore nello stato di diritto costituzionale.
Si tratta in questo caso di un organo a) necessario sia nel caso dei conflitti di attribuzione sia di quelli di ordine federale. Non esiste come sappiamo alternativa se vogliamo mantenere una qualche forma di divisione dell’autorità politica, che fa sorgere inevitabilmente conflitti di competenze – l’alternativa è il rifiuto della separazione dei poteri, dunque un governo monocratico, e, per l’altro verso, il rifiuto di ogni forma federale o quasi federale dell’ordinamento; b) di un organo che ha funzione di protezione dei diritti costituzionali affidato ad esperti del diritto. Non a cittadini qualsiasi.
È sorprendente sentire costituzionalisti super-competenti sostenere che i cittadini sono più competenti di loro. Ma allora perché studiare il diritto?
E vengo in conclusione al punto che mi divide dalla maggioranza forse dei miei colleghi: il mito della sovranità popolare. Se il popolo fosse sovrano (termine un tantino misterioso se predicato di un collettivo) non ci sarebbe bisogno del Parlamento. Se si potesse governare senza autorizzazione popolare non ci sarebbe bisogno di elezioni. Anche nella situazione eccezionale delle fasi costituenti, il popolo non è l’autore della costituzione, ma il soggetto collettivo che ratifica testi ormai (almeno a partire da Weimar) prodotti da costituzionalisti e da attori politici. Il popolo, meglio i cittadini elettori, non legiferano, perché non sono in grado di deliberazione collettiva, ma autorizzano i rappresentanti a legiferare per loro, a rischio per questi ultimi di perdere le elezioni e peraltro sotto il controllo giurisdizionale della legge, una volta promulgata, da parte dei guardiani della costituzione.
Se insomma i cittadini fossero in grado di legiferare non si capisce perché avremmo bisogno di parlamenti.
Si può far valere che i cittadini non hanno il tempo o la voglia o le competenze per legiferare. Ma se non hanno le competenze perché chiamarli a decidere delle leggi? Perché non sottolineare che la questione posta a referendum è più importante della decisione su di essa? E che quindi in larga misura i proponenti la legge sono più importanti dei votanti?
Si può osservare ancora che solo in casi rari potrebbero sostituirsi ad un Parlamento, ad una maggioranza sorda alle domande di alcuni (i cinquecentomila). Resta che lo strumento del cosiddetto referendum propositivo è intrinsecamente un’arma contro la maggioranza parlamentare che rischia 1. di ulteriormente squalificare il Parlamento, il quale non ha affatto una buona reputazione, 2. di creare una contro-élite, extra parlamentare, 3. di mettere a rischio, come già accennato, il difficile equilibrio che esiste fra i nostri organi dello stato. Ricordiamo lo scioglimento del Parlamento dopo i referendum del 1993.
Persuade poco, inoltre, il compito molto oneroso che la proposta di legge di riforma del 71 affida alla Corte Costituzionale.
Se la Corte dovesse sostenere che i cittadini (come nel caso del voto su Brexit) non sono in grado di valutare le conseguenze della legge (senza parlare del comitato da nominare che dovrebbe valutarne i costi – abbiamo visto che succede con i costi del TAV), pochissime proposte di legge passerebbero il vaglio dello scrutinio dei giudici della Consulta, con conseguenze facili da immaginare sulla reputazione della Corte, che come tutti gli organi indipendenti potrebbe diventare oggetto di attacchi violenti.
* New York University
[1] Il testo approvato dalla Camera dopo il dibattito in Commissione recita: “Se le Camere la approvano con modifiche non meramente formali, il referendum è indetto sulla proposta presentata, ove i promotori non vi rinunzino”. Come si vede l’ultima versione (molto più breve e che lascia in sospeso più questioni di quelle previste nella prima versione e che dovranno essere definite da una legge successiva) introduce la qualifica ambigua di modifiche non meramente formali, ma mantiene la funzione decisiva del Comitato promotore nel giudicare i risultati della deliberazione parlamentare circa la proposta di legge formulata dal Comitato.
Non condivido né i presupposti né i dettagli del testo grillino relativo al referendum d’iniziativa popolare (RIP) già approvato dalla Camera, né l’analisi della maggior parte delle opinioni pubblicate su questo forum.
Non basta risalire alla Costituzione di Weimar e a Costantino Mortati per comprendere perché i teorici più scrupolosi hanno incluso il RIP fra gli strumenti INDISPENSABILI di una democrazia RAPPRESENTATIVA. Non si tratta il alcun modo di trasformare la democrazia rappresentativa in diretta. Si potrebbe aggiungere alla lista dei fautori del RIP l’ultimo Carré de Malberg (1933) in polemica esplicita con Kelsen (e in disaccordo virtuale con C. Schmitt che probabilmente ignorava deliberatamente). Bisogna risalire almeno fino ai costituenti americani e francesi del 700, p. es. alla costituzione della Pennsylvania e al progetto di costituzione girondina del 1793). Il loro modello teorico era il Secondo Trattato sul Governo (1689) e il Contratto sociale (1762), non il Leviatano (1659) considerato giustamente un sofisma per giustificare il potere dispotico. Oggi i costituzionalisti comuni non riescono a superare il paradosso del potere rappresentativo formulato nel capitolo XVI del Leviathan. Locke e Rousseau come poi i rivoluzionari da entrambi i lati dell’Atlantico hanno capito meglio. Soprattutto Sieyès e Condorcet, forse i più studiati, anche per merito della monografia del prof. Pasquino sul costituzionalismo di Sieyès (1998).
Il pensiero classico da Locke a Condorcet non si è lasciato intrappolare nei paradossi di Hobbes, dei sofismi logici analoghi al paradosso del mentitore. I presupposti di questa trappola logica è un sistema di pensiero monista (materialista, naturalista), assoluto e chiuso (razionalista). Distinguendo vari livelli semantici (cf. Tarski 1935) il paradosso svanisce e tutto diviene coerente, a condizione di rinunciare al concetto del potere assoluto e alla chiusura del sistema su se stesso, e di accettare un potenziale regresso all’infinito: il popolo costituente conferisce (attraverso quello che Sieyès chiama rappresentanti straordinari) all’assemblea legislativa (i rappresentanti ordinari) il potere di rappresentanza politica da esercitare secondo determinate regole fra cui la condizione dell’elezione democratica periodica. Se l’assemblea rappresentativa abusa del suo potere (manipolando p. es. la legge elettorale per mantenere sempre gli stessi al potere), allora il popolo costituente riprende tutta la sua libertà “naturale” per disfare e rifare la rappresentanza ordinaria suprema. Ma lo può fare solo attraverso rappresentanti; non c’è un altro modo (su questo Hobbes aveva ragione, ma è una questione di definizione). Se la Costituzione prevede uno strumento idoneo, il popolo lo utilizzerà (cf. art. 31-33 della Déclaration che precede il progetto di Condorcet – contro il quale ironizzava Robespierre, in sintonia con la maggior parte dei costituzionalisti odierni). Se no, il popolo, la gente, qualsiasi numero di individui concordi (“any number of men”), si farà valere con qualsiasi mezzo (il quale sarà per forza rappresentativo), come sostenevano Locke, Rousseau, Sieyès, e lo farà a suo rischio e pericolo (cf. Algeri da un paio di mesi, la piazza Maidan di cinque anni fa, ma anche i gilet gialli, ahimè! etc). Visibilmente né i promotori della riforma in corso, né i riformatori della stagione 2016 in Italia, né tutto sommato il presidente Macron (che l’altro ieri ha proposto di abbassare il numero di firme a un milione, ma di mantenere la condizione dell’appoggio condiviso da un decimo dei deputati, proponendo di creare una quota di proporzionale nell’Assemblea, senza rendersi conto del circolo vizioso) l’hanno compreso in quel modo.
Il ruolo (indispensabile) del referendum è quello di una valvola di sicurezza endo-costituzionale, se si può dire. Se accettato, da questo assioma seguono numerosi corollari circa le condizioni formali del RIP: è giusto richiedere numerose firme, senza esagerare, ma non è accettabile creare tempi stretti per raccoglierle, né condizioni formali (insanabili) di ammissibilità; è anche giusto chiedere un quorum molto alto per far approvare un’iniziativa popolare (sempre e necessariamente attraverso un comitato rappresentativo) contro il parere della maggioranza della rappresentanza eletta; per una decisione supra-costituzionale come la Brexit non sarebbe sbagliato chiedere una maggioranza assoluta degli aventi diritto (NB si vota contro la maggioranza dei rappresentanti eletti); comunque ci sono sempre (anche nel Regno Unito) le successive elezioni per sanzionare coloro che hanno mantenuto una norma contro il parere di una maggioranza relativa. Per questa ragione il tema più delicato è quello della legge elettorale che merita lo stesso trattamento prudenziale dell’intera Costituzione, e forse di più.
Questo è a mio parere la logica del RIF. Non è solo colpa dei populisti e dei loro spesso disperati elettori che i concetti sono così confusi. Sono gli intellettuali, gli studiosi, i pubblicisti, i giornalisti (seri), gli accademici, i cattedratici, che dovrebbero formulare concetti chiari e sottoporli al dibattito pubblico e al giudizio popolare. Due secoli e mezzo fa erano in grado di farlo.