Perché la sentenza sulla “Spazzacorrotti” non “salva i ladri”, ma applica la Costituzione

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di Ludovico Bin*

Nel commentare il comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha reso noto di aver deciso l’illegittimità costituzionale della legge 9 gennaio 2019 n. 3 (cd. Spazzacorrotti) nei termini di cui subito si dirà, alcuni giornalisti hanno parlato di “nuovo salva ladri”, di uno “schiaffo” ad una “norma sacrosanta”, addirittura di un “clima di Restaurazione da Congresso di Vienna all’amatriciana”. Tale vis polemica non trova però alcuna ragion d’essere, se non nella scarsa conoscenza del rapporto tra Costituzione e diritto penale. Si tratta infatti di una sentenza ampiamente in linea con il dettato costituzionale (nonché con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) in materia di principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.), ed in particolare di irretroattività della norma penale: un principio che rappresenta una delle più grandi conquiste di civiltà dell’Illuminismo ed è espressamente adottato da tutti i moderni Stati di diritto, anche di common law.

La questione originava dall’interpretazione giurisprudenziale consolidatasi in materia di benefici penitenziari come le misure alternative alla detenzione, la liberazione condizionale ed il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione, benefici che la legge garantisce a tutti i condannati per reati che non siano contenuti nel catalogo dell’art. 4-bis della legge penitenziaria, n. 354/1975 (cd. reati ostativi). Secondo il diritto vivente, infatti, tali misure alternative non avrebbero natura “sostanziale”, perché non incidono (né sul reato né) sull’irrogazione della pena, ma solo sulle modalità di esecuzione di una pena già inflitta, avendo dunque natura strettamente “processuale”. La conseguenza di questa distinzione, come noto, è che per le modifiche di norme processuali non vale il divieto di retroattività, tipico del diritto penale sostanziale, ma il diverso regime del tempus regit actum, secondo il quale si applica sempre la disciplina vigente al momento dell’applicazione stessa, e dunque le eventuali modifiche intervenute successivamente alla commissione del fatto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente.

Poiché il comma 6, lett. b), dell’unico articolo di cui si compone la Spazzacorrotti, aveva previsto l’introduzione di alcuni reati contro la P.A. ivi riformati (corruzione, concussione, peculato, ecc.) nel catalogo dei reati ostativi, in assenza di una disciplina transitoria che chiarisse se tale modifica dovesse applicarsi solo pro futuro o anche ai fatti già commessi, un orientamento giurisprudenziale, seguendo l’interpretazione sopra descritta, aveva ritenuto di dover applicare il nuovo regime – cioè l’impossibilità di richiedere misure alternativa alla detenzione – anche a tutti coloro che erano già stati condannati, respingendo dunque le richieste pendenti e revocando i benefici già concessi.

Chiaro dunque quale fosse il centro della questione: non certo “salvare i corrotti”, ma stabilire ancora una volta cosa debba intendersi per norme sostanziali, insuscettibili di applicazione retroattiva, e norme processuali, la cui modifica ha immediato rilievo anche per i fatti già commessi. A questo proposito, è noto che due sono sostanzialmente i modi di risolvere la questione: adottando un criterio formale, tipico del Codice del 1930, secondo il quale la natura di una norma dipende dalla volontà del legislatore, che sarebbe libero di qualificarla come sostanziale o processuale senza possibilità di critica; oppure adottando all’opposto un approccio funzionale, secondo il quale la distinzione deve essere orientata a seconda del fine che si persegue, ed a prescindere dall’espressa qualificazione legislativa. Questo secondo modo di ragionare, proprio perché prescinde dalla voluntas del legislatore, è anche l’unico che consente di valutare se le sue scelte sono in linea con la Costituzione: non è dunque affatto strano – ma anzi, del tutto logico – che la Corte abbia deciso di seguirlo.

Ebbene, il fine che deve illuminare questa distinzione, il discrimine che definisce l’ambito di operatività del principio di legalità in questa materia, da quanto si evince dal comunicato stampa, corrisponde alla tutela della libertà personale: laddove una norma incida in misura drastica su di essa, determinando se il condannato dovrà scontare la pena in prigione oppure al di fuori di essa, a tale norma dovrà essere riconosciuta natura sostanziale, e non potrà essere applicata retroattivamente; laddove di converso tale norma non intacchi la libertà personale, ma disciplini questioni che non incidono su di essa (ad es. in materia di “vestiario e corredo”, di cui all’art. 7 della l. penitenziaria), questa potrà essere applicata anche a chi ha commesso il fatto prima che fosse entrata in vigore.

La decisione della Corte costituzionale, dunque, non è frutto di corruzione, complotti, o altre fesserie. Si tratta di una decisione che chiunque abbia mai aperto un manuale di diritto penale (ma non si tratta di un requisito necessario) non può che trovare condivisibile; chi la critica invece, come si diceva, o non dispone delle conoscenze minime per commentarla… o è in malafede.

* Assegnista di diritto penale, Università di Modena-Reggio Emilia

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