Germania e Next Generation EU: più che la Corte costituzionale, preoccupano i membri tedeschi della BCE

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di Andrea Guazzarotti

Si torna a parlare di Corte costituzionale tedesca all’attacco delle politiche europee: stavolta si tratta del blocco alla legge di ratifica del Next Generation EU (NGEU), già approvata con ampie maggioranze da entrambe le Camere del Parlamento tedesco, ma oggetto di un ricorso costituzionale da parte di oltre 2 mila cittadini capeggiati dal solito economista ultra-ortodosso tedesco. Per ora sappiamo solo che, in via cautelare, la Corte costituzionale tedesca ha deciso di sospendere la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica tedesco. Segno che oltre al periculum in mora i giudici costituzionali tedeschi devono averci intravisto anche il fumus boni iuris. È probabile che il tutto si risolverà, come avvenuto per il MES e i precedenti fondi salva-stati, in un riequilibrio in favore del Bundestag (la Camera elettiva, con il “potere della borsa”) dei poteri esercitabili dal Governo tedesco in seno al Consiglio UE e/o al Consiglio europeo. Difficile che i giudici costituzionali del famigerato Secondo Senato che già bocciò sonoramente il Quantitative Easing della BCE nella sentenza Weiss e a. del maggio scorso possano davvero arrogarsi il potere di far deragliare il NGEU in danno di tutti gli Stati membri, tanto più oggi che a presiedere l’organo costituzionale non è più l’accanito giudice Voßkuhle.

Più che della Corte costituzionale tedesca, dovremmo preoccuparci dei membri tedeschi della BCE, il Presidente della Bundesbank (Weidmann) e la componente del Comitato esecutivo (Schnabel). Entrambi continuano a esternare le loro convinzioni ordoliberiste sulla capacità dei mercati finanziari del debito pubblico di disciplinare gli Stati. Il che significa, oggi, auspicare che la BCE abbandoni la propria politica monetaria espansiva al primo refolo di ripresa dell’inflazione nell’eurozona. È ipotizzabile, in effetti, che rialzi dell’inflazione – specie importata dagli USA – si palesino in Germania e negli altri Paesi “creditori” dell’UEM, mentre i Paesi “debitori” continuano a languire sulla soglia della deflazione. Si ripeterà l’infelice scena della BCE di Trichet e del primo Draghi, quando la politica monetaria europea puntò assurdamente verso il rigore, ignorando i segnali di deflazione negli Stati periferici?

Il momento è cruciale, posto che la BCE si trova a dover concludere la sua “strategy review”, ossia il processo consultivo e decisionale per rivedere il proprio “inflation targeting”, l’obiettivo di inflazione cui orientare le proprie politiche monetarie. Sì, perché il famigerato livello dei prezzi “sotto-ma vicino al 2%” non sta scritto né nei Trattati, né nello Statuto della BCE. È il “sovrano illuminato” della moneta che siede a Francoforte a deciderlo discrezionalmente e in piena indipendenza. Ebbene: un livello più alto di inflazione desiderata o, più probabilmente, un periodo di riferimento più lungo (in modo che a contare sia la media calcolata su più anni dell’andamento dei prezzi), potrebbe evitare contrazioni troppo brusche delle politiche monetarie espansive, al primo stormir di vento in Germania e dintorni.

Costringere la BCE ad abbandonare il suo ruolo di calmiere degli spread equivale, per i tedeschi ortodossi, ripristinare il modello “vero” di banca centrale e di politica monetaria iscritta nei Trattati europei e nella Costituzione tedesca (Chessa). Sono i mercati i soggetti cui spetta disciplinare le politiche economiche e di bilancio degli Stati. Perché i mercati sono, notoriamente, “razionali”. Sostituirsi a tale razionalità equivarrebbe, per la BCE, favorire gli Stati “debitori” rispetto a quelli “creditori”, salvare ciò che, invece, deve essere lasciato fallire.

Ebbene: i mercati hanno in più occasioni mostrato la loro “irrazionalità”, tanto nei periodi di euforia che di improvvisa depressione. Se accettiamo questa seconda ipotesi, il ruolo della BCE dovrebbe essere un altro. Esso, già palesatosi nelle trattative intergovernative per salvare l’euro dalla crisi di banche e debiti pubblici del 2008-2015, è stato confermato dagli sviluppi registratisi durante la pandemia. Dopo un intenso periodo di defatiganti trattative, culminate nel lunghissimo Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020, si è giunti al risultato solidaristico del NGEU. Per qualcuno, si tratta di una solidarietà assai limitata, per altri di una svolta quasi epocale. Per apprezzarne la reale portata, bisogna ricordare che, all’inizio delle trattative agli Stati “debitori” come l’Italia si prospettava la magra prospettiva dell’accesso al MES. Ebbene, durante le trattative che hanno spostato dal MES al NGEU la posizione degli Stati “debitori” la BCE ha varato il ponderoso programma di acquisti dei titoli del debito pubblico degli Stati membri (Pandemic Emergency Purchase Programme – PEPP) che ha beneficiato prevalentemente gli Stati più esposti sui mercati internazionali dei debiti pubblici, frenando sensibilmente lo spread rispetto ai Bund tedeschi. Il che non è servito solo a calmierare il costo del servizio del debito per questi Stati (tra cui spicca l’Italia), bensì anche a permettere ai loro governi di portare avanti la trattativa nel Consiglio europeo “ad armi pari”, ossia senza la minaccia di doversi rapidamente piegare alle condizioni poste dai governi degli Stati “creditori” prima che lo spread raggiungesse livelli insostenibili, come invece avvenne nel 2011-2012 (e nel 2015 per la Grecia, alle prese con il diverso problema dell’interruzione della liquidità alle banche decisa dalla stessa BCE). La crisi pandemica ha dunque rivelato (o forse confermato) un’ulteriore funzione sistemica delle politiche monetarie della BCE: la capacità di influenzare indirettamente le trattative del Consiglio europeo tese all’adozione di politiche straordinarie anticrisi, garantendo la “parità degli Stati” attraverso l’intervento sui mercati in funzione anti-speculativa. Non è, forse, la parità degli stati un architrave dell’UE, come ricordato dalla stessa Corte di giustizia in reazione all’attacco portatole dalla Corte costituzionale tedesca?

Per superare il tanto vituperato “deficit democratico” dell’UE è necessario fissare alcune “condizioni minime di sovranità” nell’Eurozona, al fine di garantire lo spazio per una discussione politica “in sicurezza”, libera dalle pressioni asimmetriche del mercato. Perché ciò possa aversi, occorre che la BCE operi come un prestatore di ultima istanza, o almeno, ci si avvicini il più possibile, posto che nessun governo è davvero sovrano in assenza di una Banca centrale capace di proteggere la sfera finanziaria e politica entro cui avviene il dibattito politico intra-europeo (Costantini).

* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara.

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1 commento su “Germania e Next Generation EU: più che la Corte costituzionale, preoccupano i membri tedeschi della BCE”

  1. Attraverso una raffica di informazioni precise l’articolo veicola, in un linguaggio più giornalistico (fumoso, insinuante; non faccio l’elenco) che tecnico-giuridico, un messaggio del tutto sbagliato, parzialmente contradditorio. La disparità fra paesi membri – ora chiamati creditori e debitori – è incontestabile. L’Italia – zoppa e/o fiacca – è (attraverso le politiche attuali e soprattutto future) il rischio di squilibrio più grave. La BCE ha fatto più di quanto si potesse sperare, andando secondo alcuni oltre il proprio mandato. L’autore sembra contestarne l’indipendenza e il mandato (la stabilità monetaria) temendo un prossimo cambio di strategia che avrebbe effetti negativi sullo spread. Agendo nel quadro di un trattato internazionale la BCE non è un sovrano illuminato, ma l’agente delle parti del trattato, gli unici sovrani, nei limiti degli accordi presi e del contesto internazionale (anzi globale) (= Costantini). Il BVerfG è stato finora il vero garante della democraticità dell’intera costruzione: quello che a maggio 2020 ha deciso a favore del Bundestag vale tale quale per tutti i parlamenti (“sovrani”, istanza suprema) degli stati membri (“sovrani”). Il nuovo caso di cui prende spunto l’articolo non assomiglia a quello dello scorso anno, perché i richiedenti contestano il potere del Bundestag di ratificare l’accordo di luglio-dicembre 2020 sulle risorse proprie dell’UE in parte attraverso debito collettivo. Invocano il diritto europeo vigente contro il potere di decisione delle autorità nazionali. Il Recovery fund è uno sviluppo davvero epocale. Non sono stati gli stati debitori deboli ad aver ottenuto questo risultato (chiedevano tutt’altro, degli “slogan” irrealizzabili), ma i governi degli stati creditori forti che hanno concepito il Recovery fund convincendo i governi in difficoltà promotori di eurobond e i governi frugali recalcitranti. L’autore prevede giustamente che il tribunale tedesco confermerà probabilmente la competenza del Bundestag di ratificare la decisione sulle risorse proprie e che il vero rischio per l’Italia è una nuova strategia della BCE meno attiva nell’acquisto di titoli di debito degli stati membri. L’amalgama fra Weidman presidente della Bundesbank e Schnabel membro del comitato esecutivo BCE dietro il vocabolo di ordoliberismo (il liberismo è forse soprattutto una degenerazione italica del liberalismo) è davvero superficiale. L’errore più clamoroso è però la contrapposizione fra autorità monetaria e mercati. In realtà manca l’attore principale che è l’autorità politica, che crea sia l’autorità monetaria sia il mercato (le regole). E chi sarebbe? Sono gli stati nazionali membri dell’UE e dell’eurozona, parti sovrane dei trattati, ma soggette (fino a revoca) alle regole che si sono date in precedenza, fra cui il mandato e l’indipendenza della BCE (= Costantini). È quello l’insegnamento della giurisprudenza tedesca dello scorso anno. Per evitare il rischio di un impatto differenziato dell’attesa nuova strategia della BCE più attenta all’inflazione sulle economie nazionali sfasate e disuguali, non conviene prendersela con la BCE e con le presunte intenzioni e i presunti limiti ideologici dei suoi esponenti, ma con il vero sovrano, cioè il Parlamento italiano, autorità suprema non solo per fare, rifare e disfare i trattati, ma anche per prendere le misure idonee di fisioterapia contro carenze strutturali e di allenamento assiduo contro il debilitamento fisico del sistema economico e fiscale nazionale. È quello che anche la BCE da tempo sta chiedendo agli stati membri: prendere loro le misure nazionali e collettive per ridurre spread e disparità. Il Recovery dovrebbe servire proprio a questo, perché una condizione per attingere alle risorse europee è che gli stati richiedenti facciano le riforme strutturali necessarie per garantire l’efficienza nel tempo delle ingenti spese finanziate con novo debito.

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